[Pubblicato originariamente in due parti su “Una certa idea di…” Blog dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi, prima puntata e seconda puntata. A partire dal settembre 2021 il blog dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi ha ospitato una serie di interventi sul tema della partecipazione nei servizi di salute mentale. Il dibattito è stato aperto dal mio articolo “Partecipazione senza potere nei servizi di salute mentale”, a cui sono seguite le risposte di Benedetto Saraceno, Antonella Misuraca, Lucia Luminasi, Marie Françoise Delatour, Angelo Fioritti, Michele Filippi, Silvia Bon e Renato Ventura. La replica che segue mi ha dato l’opportunità di affrontare le questioni più politiche (e spesso sottaciute) poste dal rapporto tra la prassi basagliana, i movimenti degli anni ’70 e le difficili condizioni dell’attualità].

I contributi che sono arrivati dopo il mio articolo Partecipazione senza potere nei servizi di salute mentale costituiscono un’ulteriore conferma della necessità di approfondire questi temi, del fatto di aver toccato questioni “sensibili” di cui professionisti, associazioni, persone in carico ai servizi e loro familiari fanno esperienza quotidianamente nel percorso di vita e lavoro, cercando un difficile equilibrio tra la loro particolare condizione individuale e un sapere che (pur riguardando l’intera organizzazione sociale) rischia sempre di chiudersi entro uno specialismo vissuto come una barriera invalicabile tra chi è dentro e chi è fuori. Non sono poche, invece, le osservazioni che ci spingono a considerare quanto in questo momento storico sia urgente rimettere in questione l’intera impostazione del problema costituito dai “saperi tecnici” nel loro confronto con i “saperi che nascono dall’esperienza diretta” (e che ancora non sono formalizzati attraverso un preciso ruolo professionale), in salute mentale e non solo. La mia risposta intende evidenziare tre ordini di problemi aperti da questo dibattito: il primo di ordine epistemologico, il secondo riguardante i modelli di governance e il terzo a proposito delle riflessioni epidemiologiche. Infine proverò a definire una questione generale riguardante il rapporto tra le pratiche di partecipazione e il cambiamento dei modelli di Welfare.

1. I problemi epistemologici aperti dalla partecipazione

In primo luogo, il problema della partecipazione va legato ad un tema epistemologico. Negli interventi di Lucia Luminasi, Michele Filippi, Renato Ventura e Silva Bon emerge chiaramente la necessità di nuovi saperi portati dalla partecipazione. Su questo convengo con la riflessione di Lucia Luminasi, secondo cui «stiamo attraversando un momento di difficoltà, in cui le psichiatrie improntate a paradigmi clinici medicalizzanti si prendono prepotentemente la scena» e la partecipazione risulta dunque una pratica necessaria per contrastare una tendenza negativa nella teoria e nella prassi dei servizi. Giustamente a questo proposito Lucia Luminasi cita la Rete nazionale utenti, che prende le mosse dalla rete utenti della Lombardia, e l’esperienza delle Parole ritrovate di Trento, che ritiene importanti pur definendole «un inizio di aggregazione, ancora timido e in formazione». In questi e in simili contesti abbiamo visto come la partecipazione abbia accompagnato il diffondersi di specifici approcci alla cura e all’organizzazione dei servizi: l’orientamento alla recovery, l’idea di “fareinsieme”, la possibilità di coinvolgere nella realizzazione degli interventi persone con saperi non professionali sono tre elementi centrali di un possibile rinnovamento epistemologico e pratico, non scindibili dall’affermarsi di pratiche di partecipazione. Allo stesso modo sono da annoverare in questa tendenza specifiche innovazioni come il Dialogo aperto, il Budget di Salute, la coproduzione di percorsi rivolti all’inclusione sociale. È evidente che, come dice Angelo Fioritti nel suo intervento e come sottendono i vari interventi delle rappresentanti di associazionismo dei familiari, non si possono derubricare questi fenomeni ad una pura opera di «maquillage» da parte dei Dipartimenti. Tuttavia è anche evidente che questi processi hanno molti limiti, rispetto alla diffusione territoriale e alle aree dei servizi che ne sono interessati quando si realizzano, creano nei soggetti che partecipano vissuti di frustrazione e fatica (si vedano gli interventi di Luminasi e Misuraca), sono ancora, nonostante circa 20 anni di sperimentazioni, diffusi in maniera minoritaria e danno luogo a pratiche molto differenziate sul territorio nazionale (come ammette anche Fioritti nel suo intervento).

Proprio di questa limitatezza e di questa timidezza penso sia utile prendere atto nell’analisi per supportare la crescita di questa tendenza; indagare più a fondo il problema epistemologico aperto dalle pratiche di partecipazione è un’operazione che propongo con questo obiettivo. Guardando alla questione da un punto di vista più generale, Michele Filippi riconosce che esiste una relazione intrinseca tra salute e partecipazione:

«da numerose e diverse prospettive si sottolinea come molte malattie mentali possano essere considerate come espressione di uno scacco della possibilità di partecipare: di partecipare alle relazioni con gli altri, a rapporti di reciproca intesa e fiducia, al coinvolgimento in interessi culturali o ludici, alla condivisione di valori e significati condivisi, alla fruizione di alcuni diritti fondamentali; della possibilità di percepire che si ha un ruolo che conta nelle decisioni che ci riguardano».

Di conseguenza si chiede giustamente «cosa occorre perché gli operatori siano non solo più convinti ma anche più in grado di considerare i pazienti (e chi fa parte del loro ambiente) come colleghi a pieno titolo del proprio lavoro?». Nella prassi dei servizi, cioè, sembra esserci poco spazio alla considerazione di questo rapporto tra malattia e partecipazione sociale come fondamento dell’operare quotidiano, al di là di specifici progetti innovativi. Le cause di questa limitatezza individuate da Filippi sono molteplici: «una cultura ancora non molto favorevole, la loro formazione, lo stato di salute del gruppo di lavoro, l’assetto mentale personale, l’essere schiacciati dai troppi impegni, il profilo delle responsabilità e la paura di ricevere un avviso di garanzia».

Nella stessa direzione di generalizzazione e ampliamento del problema epistemologico vanno gli interventi di Silva Bon e Renato Ventura. Nel primo emerge l’importanza di una prassi comunitaria condivisa, come quella che ha visto attivarsi le assemblee triestine sulla gestione del locale servizio sanitario regionale. In questo contesto, dice Silva Bon, si è realizzata una unità di intenti tra professionisti e utenti nella misura in cui si cooperava comunitariamente per il raggiungimento di un obiettivo relativo alla società nel suo complesso e non agli obiettivi di cura e riabilitazione del singolo utente. Renato Ventura riprende invece un tema tipico basagliano: la consapevolezza che le contraddizioni della psichiatria non si sarebbero risolte con la mera medicalizzazione delle questioni di salute mentale. Il modello sanitario, rimasto corporativamente legato al potere medico, ha riprodotto la sua epistemologia dominante sulle questioni di salute mentale, come mostra «l’uso (e l’abuso) esteso della terapia farmacologica». Il problema culturale risiede sia nell’offerta sia nella domanda di servizi: tornando alle parole di Lucia Luminasi, esiste «un aspetto culturale diffuso, (esiste) anche tra i familiari di chi ha psicopatologie il pensiero che l’accettazione dei problemi sia equivalente a una richiesta di assistenza continua, quasi si passi dall’essere cittadino attivo a malato incurabile e che ci sia un destino ineluttabile». Si tratta di una forma di “collusione” tra società e servizi nell’identificare cura e assistenzialismo, presa in carico e revisione al ribasso delle proprie aspettative a proposito della qualità e della dignità dell’esistenza. Sempre secondo Lucia Luminasi «i servizi, e spesso anche le famiglie stesse, accontentandosi di una condizione socialmente accettabile non fanno evolvere le persone verso una migliore realizzazione di sé, oppure cronicizzano i disturbi». Si tratta non solo di un problema dei servizi ma di un problema più generale che riguarda la società: «non è solo il sanitario autoreferenziale ma è la società che per perpetuarsi è sicura solo dei percorsi conosciuti; (…) da un punto di vista sociale, ancora non è diffusa la cultura del “potere del cambiamento” e integrazione della diversità per una società migliore». Da questo blocco di questioni risulta evidente come il problema epistemologico aperto della partecipazione vada collocato su un piano necessariamente ampio, capace di investire i modelli organizzativi dei sistemi sanitari e sociali, i modelli formativi (mettendo in discussione la preminenza del sapere-potere medico in essi), le modalità in cui nella società si formulano le domande di salute, esse stesse problematicamente appiattite sul modello della richiesta di prestazioni mediche.

Questi temi sono da tempo noti all’antropologia medica: oltre al corpo individuale, veicolo immediato dell’esperienza di benessere e malessere e principale oggetto che giustifica la riduzione della cura al sapere e alla pratica biomediche, è stato sottolineato come l’esperienza di malattia vada necessariamente ricondotta alle sue dimensioni di senso personali, sociali, politiche; in quest’ottica la cura si configura come una pratica collettiva di reciprocità nella quale le pratiche che producono vanno viste soprattutto per la loro capacità di destrutturare e ristrutturare i significati, le reti attraverso cui si moltiplicano le identità, la agency (in particolare la capacità collettiva e soggettiva di individuare le connessioni tra esperienze di malessere e forme di oppressione strutturale che contribuiscono a determinare l’esistenza e il significato). Il paradigma antropologico definito “dell’incorporazione” ha contribuito negli ultimi trent’anni ad arricchire la pratica della cura disarticolando la presunzione di oggettività del sapere biomedico e mostrando lo sviluppo intrecciato tra i modelli di gestione sanitaria delle popolazioni e i paradigmi attraverso cui l’esperienza corporea assume visibilità e dicibilità. Ibridandosi con il “paradigma dei diritti”, le recenti teorizzazioni sui modelli “ecologici” di cura hanno messo in evidenza la necessità di situare l’indagine epidemiologica fino a cogliere i determinanti politici di salute, con l’obiettivo di intendere i sistemi sanitari e di protezione sociale come una forma di accompagnamento e tutela della possibilità di autodeterminazione dei gruppi; in definitiva si tratta di una estensione del concetto di cura che sia adeguato al riconoscimento dalla potenza creativa insita nelle reti sociali. In tal modo, il tema della cura, sottratto ad una definizione semplicistica limitata dalle pratiche sanitarie schiacciate su paradigmi biomedici, diviene un dispositivo di lettura della qualità della vita come incessante prodotto delle reti sociali, equilibrio metastabile situato in uno spazio di indecidibilità tra società e stato.(1)

È evidente che questo tipo di teorizzazioni con forti implicazioni etiche, in cui la salute diviene una lente valoriale attraverso cui guardare alle condizioni sociali e politiche in cui possa svilupparsi una potenza di agire comune rivolta al miglioramento delle condizioni di vita collettive, implica un’adeguata riflessione tecnica sui dispositivi sanitari orientati alla salute pubblica: la domanda centrale diviene quali debbano essere i saperi sanitari capaci di rapportarsi con un paradigma così ampio di “cura”. Si tratta di una questione che richiede una complessa articolazione e gli sforzi che oggi vediamo nella riflessione sulla prossimità, il territorio, la comunità, potrebbero essere veicoli per rinforzare tali approcci nel dibattito pubblico. Mentre sul piano della governance, come vedremo a breve, il paradigma dell’integrazione sociosanitaria rimanda a una possibilità di strutturazione dei saperi istituzionali che, mantenendo intatta la responsabilità statale e la necessaria formalizzazione organizzativa, squaderna le burocrazie dei servizi in direzione di una maggiore apertura nell’incontro tra istituzioni e bisogni, sul piano epistemologico credo che la maggiore sfida da affrontare sia rappresentata dalla coprogettazione e dalla co-produzione.

Co-progettazione e coproduzione sono appunto dei «paroloni», come hanno sottolineato le rappresentanti dell’associazionismo familiare, che spesso risultano vuote dichiarazioni di principio poiché sono estremamente difficili da tradurre in pratiche; collocandoli nell’ambito dei problemi epistemologici aperti dalla partecipazione, propongo di farne l’orizzonte in cui pensare i possibili sviluppi che le esperienze attuali indicano come modelli e su cui è necessario consolidare teoria. Come correttamente individuano le mie interlocutrici, il tema impatta fortemente con i modelli formativi e con le basi teoriche attraverso cui sono formulati gli interventi. La presidente del CUFO parla infatti nella sua replica di «un lavoro costante di formazione in funzione di una crescita collettiva delle diverse componenti coinvolte nei Dipartimenti, (…) una formazione che porta cambiamento, improntata alla recovery, in cui le persone siano messe in grado, siano sollecitate alla autodeterminazione». In questo senso è necessario un lavoro di formazione di chi opera nei dipartimenti perché «la assunzione di potere da parte dei familiari e degli utenti» va costruita «assieme in un contesto comunitario». Coerentemente con le premesse teoriche che formulavo, vediamo nei fatti qui affermarsi un paradigma ecologico: non la mera contrapposizione tra poteri alternativi impegnati in uno scontro a somma zero. Pur se questa contrapposizione reciprocamente distruttiva è sempre possibile ed è sempre da tenere conto come possibilità in una dialettica reale, il paradigma ecologico punta ad una crescita collettiva dei sistemi che abitano una soglia tra la molteplicità delle reti umane e l’intervento pubblico. Un paradigma ecologico di cura implica una capacità di ibridazione tra forme di intervento pubblico e autogestione delle reti; la capacità di intervenire in forme non-preformate sui campi dei diritti, della vita urbana, del mercato. Attraverso il paradigma della “salute in tutte le politiche”, declinato con particolare attenzione nel campo della salute mentale, è inevitabile che i sistemi di intervento pubblico acquisiscono uno sguardo nuovo sulle esperienze soggettive non solo come manifestazioni di una meccanicità biocorporea ma come frammenti di incorporazioni, nelle quali si agitano e si declinano in modo irripetibile storia, processi collettivi, fenomeni di oppressione e di emancipazione. Non si tratta più solo di un intervento sul singolo corpo-malato ma un intervento comunitario e culturale sulla domanda di salute: questo permetterebbe di affrontare il problema ottimamente esposto da Renato Ventura sull’epistemologia della cura in salute mentale:

«i familiari sono molto spesso confusi e in difficoltà nel percepire correttamente la natura del disagio della persona affetta da disturbo mentale e sono i primi a ritenere, in molti casi, lo psichiatra come un demiurgo che dovrebbe guarire il proprio caro. Ovviamente questo può portare a una condizione di collusione con una visione fondamentalmente orientata in senso medico biologico e a una insufficiente valutazione delle altre componenti che concorrono al disturbo mentale e alla definizione dello statuto epistemologico della psichiatria (e del disturbo mentale)».

Per realizzare questo passaggio epistemologico l’impegno fondamentale da parte dei professionisti è cogliere i limiti del proprio sapere. I sistemi di protezione pubblica, per consentire questa auspicata ricollocazione in un paradigma più ampio, meno tecnicistico, di “cura” devono cogliere l’intensità di un “limite”, il costitutivo rapporto con un proprio non-sapere. Tale limite non può essere interpretato come una forma, di volta in volta definita dall’evoluzione delle conoscenze scientifiche. Non è in alcun modo valida la metafora, tanto diffusa, della realtà come “terreno di conquista” da parte dei saperi e delle scienze. Al di là di ogni metafora di territorializzazione, tale limite va pensato come un gradiente, un rapporto correlato a un infinito che non è esprimibile con una cifra chiusa ma solo come relazione, come rapporto costitutivo con la sua negazione. Il limite epistemologico in questo senso non è posto all’esterno, ma nel posizionamento, nel cuore dell’epistemologia. Come è apparso chiaro anche nel dialogo a distanza con le mie interlocutrici e interlocutori, si tratta di cogliere in termini epistemologici un problema principalmente etico e politico. Quando Lucia Luminasi sottolinea che «Sarebbe eccessivo e ingiusto accusare le associazioni che collaborano di tendenziale adesione consensuale al modello epistemologico e organizzativo del servizio o addirittura di essere nuovi funzionari del consenso», quello che emerge è la difficoltà di questo passaggio tra l’epistemologia e l’etica.

L’espressione di “funzionari del consenso”, utilizzata da Antonio Gramsci per spiegare come le istituzioni manipolano ideologicamente le classi subalterne per ottenerne senza coercizione l’adesione ai valori della società borghese, viene riutilizzata da Franco Basaglia e Franca Ongaro per spiegare come le scienze svolgano il ruolo di naturalizzare processi politici e sociali, mentre i “tecnici del sapere pratico” possono al contrario svolgere una funzione demistificante mettendo in questione il loro posizionamento e smascherando la collusione tra il proprio sapere e un gruppo di specifici valori riconducibili al funzionamento dell’organizzazione sociale (valori promossi da chi in quella organizzazione sociale trae benefici e privilegi, piuttosto che rispondenti ai bisogni della collettività). Sono pronto a riconoscere la validità dell’esperienza descritta da Luminasi: «il nostro difficile percorso ha contribuito a rompere il ghiaccio e il darsi da fare dall’interno fa anche comprendere meglio luci e ombre del sistema e permette di scegliere con maggior cognizione di causa cosa sostenere e cosa criticare». Ciò che qui è in questione è il superamento di un limite astratto e artificioso tra ciò che è servizio pubblico e ciò che è politica. Certo, questo discorso implica che bisogna andare verso forme di partecipazione più ampie e collettive delle singole associazioni di familiari, sempre mantenendo questa capacità di stare all’interno delle istituzioni, dove emergono luci e ombre. Ma l’approccio ecologico richiede una sfida epistemologica ampia. Angelo Fioritti lo ammette con decisione:

«il rafforzamento della presenza delle associazioni di utenti e familiari nelle istituzioni è un formidabile asset per contrastare le derive neo-manicomiali che sono tutt’altro che sparite dal cuore vivo della società. Ed in democrazia nulla è scontato, può anche succedere che prevalga una linea politica che riapra le porte ad una reistituzionalizzazione più o meno esplicita, o che voglia cambiare rotta rispetto ad esperienze avanzate e di successo, come la recente esperienza triestina ci insegna».

È evidente qui che la sfida di fronte alla quale si trova il mondo di associazionismo e utenti sia quella di non rinchiudersi in una nicchia di identità ma di investire la totalità politica delle contraddizioni. Questa mia convinzione mi sembra profondamente radicata nell’esperienza basagliana: non si tratta, come dice Fioritti, di «invocare la scienza per le rivoluzioni» ma piuttosto di cogliere le dimensioni di potere implicite nella produzione del discorso scientifico, mettere in questione il proprio posizionamento per leggere il legame tra saperi e poteri, superare l’astratta neutralità delle discipline cogliendone la materiale embricatura nel momento in cui si verifica l’incontro tra istituzioni e bisogni.

2. I problemi di governance aperti dalla partecipazione

La seconda questione è quella dei limiti della governance che emergono analizzando i possibili sviluppi e i necessari presupposti di una pratica partecipativa. Ritengo utile partire dalla corretta domanda di Marie Françoise Delatour in risposta al mio articolo: «I Servizi non vogliono “dare potere” a utenti e familiari? Oppure utenti e familiari non sono capaci di prendere ed esercitare il “loro potere”? Qual è il problema?». Correttamente Marie Françoise individua una ambiguità del testo rispetto a cui non avevo trovato un punto risolutivo. La mia idea è che gli attuali e consolidati modelli di governance, pur in presenza di alcune significative spinte all’evoluzione e al cambiamento, non consentano di rispondere compiutamente a questa domanda. Nondimeno è necessario stare nello spazio di interrogazione aperto da questa domanda per poter correttamente analizzare le attuali spinte alla trasformazione e al rinnovamento, che sono caratterizzate da un’intrinseca ambiguità. Il tema della ambiguità nelle politiche partecipative è emerso da un’importante tradizione di analisi sul welfare e le politiche pubbliche, maturata proprio sulla base delle esperienze svolte quando, all’interno della pratica di destrutturazione del dispositivo manicomiale, si sperimentavano forme ibride di azione pubblica su una soglia situata tra società e servizi, tra assistenza e mercato, vale a dire nella pratica dell’impresa sociale. Questa storia, maturata tra gli anni ’80 e ’90 e poi legislativamente formalizzata attraverso una serie di norme che si collocano tra il 1991 e il 2000, si è accompagnata ad una costante riflessione su come si sarebbe potuto immaginare un “nuovo welfare” capace di collocarsi in un’ottica di riqualificazione delle risorse, ricostruzione di tessuto sociale, trasformazione delle modalità invalidanti di assistenza in nuovi dispositivi di capacitazione. Con l’affermarsi dei modelli di “welfare mix” e ancora più oggi con il prendere piede del concetto di “welfare di comunità”, dalla scuola di pensiero che più ha lavorato su questi temi sono venuti utili strumenti per pensare lo stretto spazio di azione che si apre tra i “sogni e incubi” di cui parla Ota de Leonardis in un importante testo (2) a proposito del nuovo welfare. I sogni sono appunto quelli di una rinnovata capacità di stare tra stato e mercato prendendo il meglio da entrambi, per creare dispositivi che vadano oltre l’assistenza ricostruendo contrattualità sociale a tutti i livelli, anche per le persone più svantaggiate, attraverso gli scambi e il lavoro. Gli incubi sono quelli di una totalizzante privatizzazione della sfera pubblica, di una mercatizzazione dell’assistenza, di una destituzione del problema della giustizia sociale dietro una retorica pacificatoria della comunità.

Continuiamo a far procedere insieme le domande e l’analisi. Maria Françoise Delatour mi chiede a chi sia attribuibile il problema della disparità di potere e precisa:

«Quando si guarda alla partecipazione dal punto di vista dei diretti interessati, dal punto di vista dei familiari come nel mio caso, l’obiettivo del proprio impegno di volontariato non mira prima di tutto ad acquisire o difendere un potere, come se esistessero poteri contrapposti oppure interessi divergenti in campo».

Le ricerche di Ota de Leonardis, Lavinia Bifulco e del gruppo di colleghi e colleghe impegnate nella ricerca sui cambiamenti del welfare degli ultimi trent’anni hanno avuto il merito di smascherare un problema fondamentale: quello della sua profonda “opacità”. Si è notata la saturazione di concetti ambigui nel welfare mix, specificatamente nei richiami alla solidarietà, all’attivazione, alla sussidiarietà, alla coesione sociale e alla partecipazione, che spesso si sono tradotti in una declinazione dell’autonomia della società civile dall’autorità pubblica come semplice impostazione privatistica delle relazioni sociali. D’altra parte, anche quando si è interpretata la funzione del governo locale come promozione della capacità di autorganizzazione della società civile la comunità è venuta ad essere rappresentata secondo i termini di un “comunitarismo aconflittuale” nel quale il valore della coesione sociale assume il significato univoco di consenso, controllo sociale, assenza di conflitti (senza possibilità di questionare quali siano gli interessi confliggenti attorno a cui mantenere coesione e consenso). Allo stesso modo i temi della responsabilizzazione, della contrattualizzazione, della individualizzazione, della attivazione, sono stati analiticamente criticati come retoriche dietro le quali si sono fatte passare trasformazioni dei servizi che complessivamente riducevano il potere contrattuale dell’utenza, ne sottoponevano l’accesso a servizi e prestazioni ad una verifica sempre più moralistica, trasformavano complessivamente i servizi in un campo aperto al mercato privato di prestazioni. Robert Castel (3) ha notato come lo shift delle politiche di welfare verso approcci orientati al progetto individualizzato si realizzi in forma “moralistica”: esse esaminano la disponibilità delle persone a modificare la propria condotta «come se fossero essi stessi responsabili della situazione in cui si trovano». La cosiddetta “responsabilizzazione dell’utente”, sperimentata sin dagli anni ‘90 nelle misure di sostegno al reddito in tutta Europa, non ha coinciso con il reciproco riconoscimento di capacità negoziali (quindi con una dimensione di “empowerment” dell’utente e di sviluppo della sua agency) ma molto più spesso con la moltiplicazione degli obblighi unilaterali da parte del destinatario di attenersi a comportamenti prestabiliti da parte dell’istituzione. Complessivamente va considerata la tendenza delle politiche della sussidiarietà a “mettere al lavoro la morale” in forma pienamente coincidente con le aspettative del consenso e della coesione sociale. Come è stato ampiamente mostrato la moralizzazione delle relazioni è uno strumento indispensabile delle pratiche partecipative quando in esse prevalgono gli interessi del capitale finanziario, degli erogatori privati di prestazioni, di soggetti che non sono sottoposti ad alcun campo di verifica pubblica rispetto alla produzione di beni comuni.

Sulla base di queste considerazioni si può vedere quanto fosse inevitabile l’ambiguità che rileva Marie Françoise Delatour: un modello di governance in cui coproduzione e coprogrammazione esercitano la funzione di concetti ambigui, entro i quali le stesse rappresentanti delle associazioni di familiari fanno fatica a riconoscersi praticamente, tende ad accompagnarsi con una visione consensuale e moralizzante della partecipazione. Impossibile quindi rispondere alla domanda su dove sia l’origine del problema, se non apriamo l’interrogazione alle possibili forme di invenzione istituzionale che, a partire dal tema della partecipazione, possono mettere in questione alcuni nodi della governance dei servizi – superando l’opacità da cui è invece saturata la questione politica che dei sistemi di welfare dovrebbe stare alla base, in modo che torni ad essere centrale la domanda formulata da De Leonardis: «che cos’è una società giusta» e «come deve funzionare un dato servizio sociale» per essere compatibile con quella idea di giustizia? (4)

Anche l’intervento di Lucia Luminasi permette di focalizzare l’attenzione sulle contraddizioni della governance: i percorsi partecipativi sono spesso «faticosi e frustranti», la voce degli utenti giunge sempre «mediata» negli organi consultivi, essi non sono mai veri e propri spazi di discussione tra operatori e popolazione ma spesso solo ambiti di comunicazioni. Ne deriva la conclusione che «in questo sbandierare termini altisonanti come co-programmazione, co-progettazione e co- realizzazione ci sia un po’ troppa retorica, poca chiarezza e anche una certa avventatezza». Riecheggiano qui altre analisi critiche sul welfare mix e sul welfare di comunità: essi si sono accompagnati, lungo gli anni ’90 e 2000 alla crescente aziendalizzazione dei servizi e del management sociale e sanitario, che ha portato ad una sempre maggiore incapacità di tematizzare logiche di processo e «fattori di conversione» (5) dai diritti alle capacità, sostituiti dalla mera erogazione di prestazioni. In generale la particolare formula del “contracting out”, fondata sullo strumento legislativo di appalti e convenzioni, alla base di un sistema in cui privati, cooperative sociali, associazioni di volontariato, enti profit e no profit competono per stipulare contratti con la pubblica amministrazione, espone il sistema a forti elementi critici: il controllo da parte dei destinatari su servizi e beni che ricevono è molto limitato, la domanda è predefinita dall’offerta dei servizi disponibili, la dimensione finanziaria domina sull’analisi dei bisogni. È possibile legare questa modalità di governance all’affermarsi di costanti dinamiche di scrematura tra tipologie di utenti dei servizio, univocamente definiti da una caratteristica saliente, la cui identità viene schiacciata in base al pacchetto di prestazioni assistenziali entro cui essi dovranno essere distribuiti: il tema dei “casi complessi”, presente anche nelle forme più innovative di governance sociosanitaria integrata, può rappresentare un dispositivo attraverso cui si produce una relazione rigida e burocratizzata tra situazioni che andrebbero invece affrontate nella loro stratificazione esistenziale, sociale, e politica, e forme univoche di trattamento (spesso delegate allo psichiatrico) di tipo più invalidante e coercitivo.

È stato evidenziato che non basta favorire l’ingresso di logiche di mercato nei servizi per aumentare la possibilità di scelta dell’utenza, considerata nel suo complesso. Questo perché i servizi sono difficilmente trattabili come «prodotti individuali» (6) e, laddove li si considera tali, la libertà di scelta supposta come dato di partenza implicherebbe «il possesso di una serie di risorse la cui costituzione sarebbe piuttosto l’esito che non l’inizio di un rapporto di assistenza». Questa logica sembra più favorire il processo di finanziarizzazione del welfare che i cittadini: ormai pienamente definito dalla riforma del Terzo Settore, l’ambito sociale è un mondo variegato in cui si va dalle piccole associazioni di volontariato a big players come le fondazioni di origine bancaria. L’insistenza sulla partecipazione che avuto come protagonisti questo insieme variegato di soggetti negli ultimi 20 anni ha reso necessario ricordare che «L’accordo sugli interessi privati non va confuso con l’accordo sul bene comune» e «le politiche del welfare locale possono diventare meno democraticamente responsabili rispetto ai bisogni dei cittadini nonostante abbiano migliorato la capacità di indirizzarsi a tali bisogni». (7) Il sistema sanitario della Regione Lombardia presenta un modello estremo di realizzazione di questi incubi: sottraendo potere nella definizione del bisogno ai Distretti e mettendo in primo piano la capacità di investimento degli attori privati sul mercato sanitario si è realizzato un capovolgimento pratico ed epistemologico che ormai informa di sé ogni ganglio della governance. Certo, si sono raggiunti risultati di eccellenza in alcuni campi di prestazioni altamente profittevoli, caratterizzati da alta specializzazione tecnologica e scarsissima accessibilità in altre aree del territorio nazionale. Nel frattempo, però, strozzata da questo «cherry picking» (8) esercitato dalle aziende private, la sanità ha perso qualsiasi capacità di lettura dei bisogni del territorio, la presa in carico delle condizioni di marginalità anagrafica, sociale e comportamentale si è demandata ad un circuito residuale senza tutele e senza qualità, si sono affossati i principi della prevenzione e della salute pubblica. Nei modelli di governance compiutamente neoliberali gli erogatori di risposte assumono un potere incontrollato nelle sedi di programmazione, orientano i finanziamenti (anche attraverso l’intersezione con le fondazioni e gli interessi immobiliari), preformano le modalità attorno a cui l’intero servizio si struttura, favorendo quelle risposte attraverso cui si scelgono i propri buoni clienti. A questa scelta tenderà a corrispondere l’iperspecificazione tecnica delle modalità di definizione del bisogno e delle risposte ad esso correlate attraverso categorie, definizioni, identificazioni rigidamente burocratiche di gruppi di utenza. Se questa rappresentazione è emersa in maniera esplicita per quanto riguarda la sanità lombarda, in qualche modo anche “grazie” alla problematica gestione del COVID-19, potremmo dire che ciascun sistema sanitario regionale si pone in un qualche punto all’interno di un continuum, di cui probabilmente quello lombardo rappresenta un punto estremo, ma nel quale nessuna posizione può essere totalmente esente da questa tendenza.

Mentre gli esiti di questa ultima riflessione risulteranno più chiari nel prossimo punto, possiamo già qui spiegare la relazione tra il problema posto da Marie Françoise Delatour e la questione generale della governance: se la partecipazione si afferma come retorica, a cui corrisponde nei fatti l’apertura di spazi in cui si affermano la destrutturazione del settore pubblico, la sempre crescente rilevanza del capitale finanziario, la opacità e ambiguità dei discorsi sulle politiche, diventa impossibile analizzare realmente come funzionano i rapporti di potere tra cittadinanza e istituzioni. L’apertura di uno spazio di partecipazione richiede invece la possibilità di avere una rappresentazione degli interessi antitetici di cui si compongono le relazioni sociali. Se si afferma una rappresentazione pacificatoria in cui interessi disparati sono amalgamati e sfumati, diventerà impossibile rispondere a una domanda sul potere. L’intervento di Lucia Luminasi offre ancora una volta una rappresentazione di come questa situazione può essere soggettivamente esperita da una piccola associazione di familiari: si può intervenire solo se si è consapevoli di «un limite ‘strutturale’ difficilmente superabile», «le azioni messe in campo dalle associazioni hanno (…) carattere sporadico», «limitato», «settoriale, perché non possono esprimersi che in aree determinate (attività sociali e non sanitarie, innanzitutto)», dipendono totalmente dalla «buona volontà di chi si rende disponibile».

Su quale forma di governance sia necessario immaginare per aprire i servizi sociosanitari, pur nella loro integrazione, ad effettive pratiche di partecipazione possiamo oggi cogliere alcune indicazioni e sussulti dalle sparse e disorganiche mobilitazioni, prese di parola e riflessioni che stanno agitando lo scenario nazionale post pandemico. In primo luogo, è necessaria la ricostruzione di una centralità pubblica nella definizione delle politiche, nei finanziamenti e nella programmazione delle attività sociosanitarie. La centralità organizzativa, la capillarità, la forza integrata dei distretti sanitari territoriali, nella loro integrazione con i servizi sociali, deve essere al centro della governance. Inoltre, è necessario rimettere mano al tema della qualificazione e della tutela della forza lavoro dei servizi sociosanitari, sia in termini numerici che in termini di dignità e tutele del lavoro. Un sistema di servizi senza forza lavoro pubblica, tutelata e stabile è impensabile. Inoltre, è necessario superare tutte le forme di contrattualizzazione delle prestazioni che producono come esito la preponderanza del prestazionismo, la profittabilità degli interventi, le forme burocratiche di conteggio dei minutaggi delle prestazioni. Alcune campagne, come “Prima la Comunità”, “Dico 32” o “Primary Health Care Now or Never” hanno messo al centro molti di questi temi e sarebbe necessario farne tesoro nelle discussioni sulla prossimità e la comunità in vista del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

In termini più generali è necessario pensare che, nella prospettiva ecologica che abbiamo richiamato prima, i sistemi sociosanitari integrati devono essere uno degli strumenti attraverso cui le comunità possono leggere i conflitti e le contraddizioni che le animano in modo da ricostruire la propria capacità di agire. Come ha evidenziato la storia del modello triestino delle Microaree, solo realizzando in forma capillare sui territori più periferici e marginali forme di accessibilità elevata e non legata alle prestazioni si possono costruire quegli spazi in cui sia facilitata la presa di parola da parte delle comunità: le reti sociali sono sì infinitamente virtuali ma hanno bisogno di spazi analogici per manifestarsi. La mutevolezza e le contraddizioni della vita urbana devono essere il campo in cui si verificano gli esiti dei processi su cui agiscono gli interventi sociosanitari; tali esiti debbono poter essere chiaramente discutibili in spazi dotati di potere su ogni aspetto della vita comunitaria. Partecipare, rispetto alle questioni di salute, significa poter leggere i legami tra condizioni del corpo biologico e corpo sociale; in altri termini, una governance sociosanitaria che si apra e venga aperta dalla partecipazione deve essere un elemento di un sistema più ampio in cui, attraverso le questioni di salute, si possano mettere in discussione le politiche urbanistiche, le politiche del lavoro, la definizione dei modelli familiari, le possibilità e i modi di abitare la città.

3. I problemi epidemiologici aperti dalla partecipazione

Anche in questo caso l’intervento di Marie Françoise Delatour ci permette di aprire il tema: «mi sembra utopico e menzognero affermare che gli Esperti per Esperienza possano un giorno su grande scala essere equiparati al ruolo dei professionisti dei servizi». È inoltre evidente, secondo il suo intervento, che non tutte le persone «possono» o «riescono» o «vogliono» partecipare. Se proviamo ad esercitare una sospensione fenomenologica e ad evitare di attribuire questi orientamenti alla malattia, ma li consideriamo come varie manifestazioni di un complesso di possibilità sfumato, collocato tra la libera scelta e la possibilità di accedere alla partecipazione, ci si manifesta in pieno il problema epidemiologico aperto da questo discorso. Ponendoci questa domanda richiamiamo la domanda di Lavinia Bifulco e Tommaso Vitale, in un testo del 2005,(9) sulla partecipazione nei sistemi di welfare e su come essa possa oscurare le dinamiche di segmentazione dell’utenza: «quanto la capacità di partecipare può essere considerata accessibile a tutti i cittadini potenzialmente interessati?». È importante porsi questo problema perché una declinazione molto tecnicizzata della partecipazione (cioè che non apre a questioni politiche generali) può risolversi in semplice adesione attiva alle modalità di trattamento del servizio; potremmo quindi ipotizzare che la partecipazione diverrebbe la nuova forma del dispositivo che, in un sistema immutato sul piano delle epistemologie e della governance, serve a realizzare i processi di scrematura dell’utenza su un piano performativo e moralizzante, potenzialmente impercettibile ad un possibile sguardo critico. È evidente che poniamo questo tema in forma di ulteriore provocazione ma si tratta di una provocazione urgente: se non si adeguano alla partecipazione le epistemologie e la governance, “partecipazione” diventa un lemma che vive al suo grado 0 come semplice sinonimo di compliance, “adesione al trattamento”. Si tratta di un tema urgente perché la questione oggi è capire in che modo un Servizio di Salute Mentale veramente territoriale, comunitario e tendenzialmente democratico possa accostarsi ai suoi bisogni inevasi: basta dire che un utente maggiorenne, se non si presenta al colloquio alla data e ora prefissata, non è da prendere in carico? (fino ad aspettare che la sua situazione o quella della sua rete naturale si degradi fino ad esplodere con la violenza o a spegnersi tragicamente nel silenzio e nell’indifferenza)? Basta rifiutare, da parte della psichiatria, il mandato di intervenire sulle situazioni di degrado sociale che generano allarme per non provare ad occuparsi in forma emancipatoria del tessuto e dei legami sociali che si sviluppano nelle periferie, negli ambienti deprivati, nelle situazioni di vulnerabilità o marginalità sociale? Quale reale partecipazione costruiamo se non partiamo dallo sviluppo di modelli di presa in carico dei bisogni della comunità capaci di tematizzarne i possibili e impliciti effetti stigmatizzanti, ritraumatizzanti, disabilitanti?

La provocatoria domanda che da anni accompagna le sperimentazioni sul modello degli “esperti per esperienza” nei servizi di salute mentale è stata: rendere i familiari e gli utenti dei professionisti, retribuiti dai servizi di salute mentale, non produce l’effetto di appiattire le visioni dei non-tecnici su quelle dei tecnici? La questione epidemiologica diviene qui una chiave di lettura importante perché, in assenza dei necessari mutamenti sul piano epistemologico e della governance, il formarsi di un sottogruppo di utenti del servizio che possono accedere a programmi innovativi di presa in carico in quanto hanno modellato il proprio punto di vista su quello degli operatori del servizio, in assenza di altre possibilità di inclusione lavorativa e sociale, si configurerebbe come un dispositivo di segmentazione dell’utenza. Se la presenza di questi familiari e utenti non cambia il funzionamento complessivo dei servizi, anche nei suoi segmenti che poco hanno a che fare con l’inclusione sociale ma che riguardano l’ambito delle persone sottoposte a misure di sicurezza, internate, non prese in carico o prese in carico attraverso percorsi più coercitivi e stigmatizzanti, possiamo ipotizzare che la partecipazione resti un dispositivo solo utile alla diversificazione delle carriere psichiatriche. In altri termini e a rischio di essere ripetitivo: la questione è cioè se la partecipazione rende complessivamente l’azione dei servizi più attenta alle dimensioni sociali, di produzione di senso, di autodeterminazione; se la presenza degli esperti per esperienza nel servizio rende in generale le persone più capaci di usare i servizi di salute mentale per agire nella società complessiva con l’obiettivo di rimuovere i motivi di malessere, intervenendo sui determinanti sociali e politici della salute. Questo è possibile se le pratiche di partecipazione si realizzano come arene pubbliche per elaborare visioni condivise del bene comune, e non se esse funzionano come ulteriore delocalizzazione di costi e di pezzi di operatività dei servizi.

Il problema epidemiologico si fa ulteriormente pressante se teniamo in mente la domanda: la partecipazione è una forma organizzativa diffusa sul territorio o riguarda solo limitati segmenti di servizi? E, nel caso di servizi limitati, come si interseca questo dato con gli esiti e le carriere che toccano le situazioni più complesse, marginali o devianti? Si tratta di guardare se complessivamente in un Dipartimento di Salute Mentale e in generale in un sistema di politiche sociosanitarie integrate per anziani, disabili e popolazione marginale la partecipazione va di pari passo con una riduzione delle pratiche istituzionalizzanti. Se cioè è grazie alla partecipazione che si possono ridurre i ricoveri coatti e le contenzioni, le immissioni precoci nella residenzialità o nelle strutture abitative fuori dal territorio di appartenenza, lontano dalla rete sociale naturale. In pratica si tratta di vedere se la partecipazione fa emergere conflitti nell’impostazione culturale e pratica delle cure. Nella nostra esperienza siamo sempre di fronte ad utenti e familiari che non sono d’accordo con le scelte del servizio, dello psichiatra o dell’assistente sociale: i momenti partecipati fanno emergere questo disaccordo come possibile campo di reale dibattito? Danno ad esso maggiore cittadinanza all’interno dei percorsi? In che misura si legittimano i discorsi critici come stimolo al cambiamento dei percorsi di presa in carico da parte dell’istituzione?

In definitiva la questione epidemiologica si pone provocatoriamente come interrogazione che permette di leggere la retorica della partecipazione come componente di una dinamica già notata dagli studiosi nelle forme di attivazione del workfare, vale a dire il blaming the victim: una tendenza alla riconversione della diagnosi in giudizio morale sull’individuo-utente, che è colpevole quando non partecipa oppure non può partecipare se è troppo compromesso, quindi l’approccio che il servizio adotterà nei suoi confronti sarà più istituzionale, più paternalistico, senza speranza. Si tratta di una tendenza riconoscibile oggi in molte campagne di prevenzione, che, dimenticati i principi di salute pubblica della Dichiarazione di Alma Ata, si focalizzano solo sugli stili di vita individuali; quindi, se ti ammali è un po’ colpa tua perché non hai la forza di volontà per vivere in modo salutare, fumi, non fai le scale. Il ruolo delle esperienze di partecipazione in questa dinamica complessiva andrebbe visto dunque come possibile dispositivo di disarticolazione dell’equità dei servizi a vocazione universalistica, nella misura in cui contribuiscono alla segmentazione dei percorsi di presa in carico e alla naturalizzazione delle forme di investimento e disinvestimento differenziale su varie nicchie di utenza-target. In questo senso, saremmo di fronte al fatto che l’associazionismo, la partecipazione, la responsabilizzazione dei soggetti si realizza come una collusione con meccanismi di smantellamento delle strutture del welfare, uno degli “incubi” preconizzati da Ota de Leonardis per il nuovo welfare.

Come chiarito prima, queste sono solo ipotesi teoriche, provocazioni, da tenere a mente per leggere criticamente i processi presenti; le cose si presentano spesso amalgamate e intrecciate, a tinte sfumate rispetto alle iperboli presentate dalle provocazioni. Resta necessario ricordare che a fare da spartiacque nelle “carriere morali” dei portatori di bisogni, dal momento in cui incontrano le istituzioni, continuano spesso ad essere la condizione socioeconomica e il potere contrattuale dei soggetti.

«Gli strumenti adottati per attuare politiche indirizzate a soggetti o gruppi con immagine negativa sono generalmente più coercitivi ed autoritari di quelli rivolti ai gruppi ritenuti meritori, per i quali si adottano interventi che promuovono la capacità di autogestione, quali l’informazione e l’apprendimento, in quanto viene loro implicitamente riconosciuta una maggiore capacità di scelta autonoma. Gruppi costituiti negativamente, o percepiti come particolarmente vulnerabili o fragili (come anziani o bambini) sono costruiti nelle politiche pubbliche come se abbisognassero non solo di nuove opportunità, ma anche di un certo grado di supervisione esterna o di costrizione rispetto alle scelte personali di ciascuno».(10)

All’interno dello stesso sistema di salute mentale, è ben noto che gruppi maggiormente stigmatizzati e marginalizzati (secondo i cleavages di razza, genere e classe) tendono ad essere etichettati con categorie diagnostiche maggiormente invalidanti e caratterizzate da una cultura prognostica pessimistica. Di fronte a questi problemi il tema epidemiologico è da riprendere nei modi in cui si costruì l’epidemiologia della riforma psichiatrica tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80 grazie al lavoro di Maccacaro, Minguzzi, Pirella, Misiti, Castelfranchi, Manuali, Giannichedda, Rotelli, Morosini, De Salvia: in quali contesti e in che modi si costruiscono e si definiscono gli artefatti culturali che orientano la prassi psichiatrica, come vengono a strutturarsi quelle oggettività che orientano e determinano le prese in carico dentro il complesso incontro tra psichiatria e bisogni sociali, che ruolo ha in questa strutturazione il discorso della partecipazione? Credo che su questo tema si giochi la questione opportunamente ripresa anche da Benedetto Saraceno sul vero significato che diamo ai processi di presa di potere.

Dopo aver affrontato le problematiche di ordine epistemologico, di governance ed epidemiologiche poste dal tema della partecipazione, nella seconda ed ultima parte della mia risposta intendo situare la questione nel contesto socio-politico più ampio del cambiamento del welfare. L’occasione di ampliare in questo senso la riflessione sul rapporto tra partecipazione e potere nei servizi di salute mentale viene dalle osservazioni contenute nell’intervento di Angelo Fioritti. Fioritti vede come rilevante il passaggio dagli anni 70, anni di formulazione della critica alla psichiatria che ha portato alla legge 180, alla fase successiva, che ha comportato un’onda lunga di psichiatria rinnovata, meno coercitiva nelle pratiche e più emancipatoria nei processi e negli esiti. Bisogna riconoscere l’assoluta correttezza dell’analisi di Angelo Fioritti: non ci potrebbe essere oggi alcuna riflessione in continuità con quella stagione se i suoi protagonisti non avessero svolto la difficile funzione di mediazione istituzionale che il funzionamento dei sistemi sanitari comporta. Solo sedimentando questa cultura in una pratica quotidiana di gestione delle istituzioni si è potuto ottenere quel

«miglioramento delle condizioni di vita, di inserimento lavorativo, di aspettativa di vita media, riduzione dei ricoveri obbligatori di oltre il 60%, superamento degli OPG e tanti altri aspetti ancora che fanno dell’Italia, al netto delle rilevanti differenze territoriali e dei preoccupanti depauperamenti di risorse degli ultimi dieci anni, una anomalia rilevante nel panorama internazionale».

Il punto su cui credo di poter ulteriormente discutere con Angelo Fioritti riguarda la lettura più “politica” della riforma psichiatrica. In breve Fioritti propone che non sia efficace guardare agli esiti della legge 180 con le lenti di quella che era la posizione di una parte del movimento e che io condivido ancora oggi: che la riforma psichiatrica fosse

«un processo della società civile che avrebbe dovuto fare delle pubbliche istituzioni italiane delle macchine di distruzione delle diseguaglianze, dei dispositivi capaci di risolvere i conflitti legati alla malattia mentale senza coercizioni e senza intrusioni nella sfera fisica (farmacologiche o contenitive), dei motori di una riforma sociale più ampia che desse il via alla “deep democracy” in tutti i campi, locali, regionali, nazionale e globali».

Secondo Fioritti questo schema porta necessariamente alla delusione delle aspettative: il cambiamento intervenuto nella società in più di 40 anni ha rivelato troppe questioni che dall’approccio “movimentista” non erano considerate; indulgere in questa visione rischia di stimolare solo passioni tristi che ostacolerebbero e appesantirebbero il lavoro (difficile) da fare per mantenere alti livelli di una psichiatria che deve comunque mediare tra richieste sociali parziali e contraddittorie, tra emancipazione e controllo, tra espulsione e coesione, tra salute e malattia, tra sofferenza e potenza. Sono queste polarità comunque inevitabili della vita umana e bisognerà farci i conti, non potendo ipotizzare di risolverle politicamente a partire da un Servizio di Salute Mentale, per quanto buono e aperto a forme reali ed effettive di partecipazione.

Sono grato di potermi confrontare con questo pensiero, di cui non posso che ammirare l’onesto realismo e il senso di responsabilità, connesso ad una acuta percezione dei limiti: qualità di cui c’è sempre un infinito bisogno. La mia posizione vuole però recuperare (senza che siano in alcun modo passioni tristi, su questo concordo!) la dimensione più “politica” dell’analisi proponendo che essa, proprio in forma di passione, sia necessaria ad affrontare l’attuale situazione in cui ci troviamo ad operare. Come per certi versi è accaduto negli anni ’70, infatti, il welfare si trova di fronte ad una nuova possibile transizione. Il welfare pubblico universalistico viene da anni messo in discussione (non senza ragioni) e sono in corso varie riflessioni per sostituire alla sua conformazione redistributivo-prestazionale, una nuova configurazione generativa e progettuale, la cui forma potrebbe essere prefigurata da dispositivi come il Budget di Salute e da pratiche come quelle della partecipazione. La mia idea è che questo è un passaggio di importanza epocale ma il cui esito non è scontato: il rischio di liberarci, insieme all’acqua sporca della burocrazia e delle prestazioni, anche del bambino dell’uguaglianza e dei diritti sociali, è molto alto. Stato e mercato possono essere due temibili Scilla e Cariddi e sarebbe necessario guardare alle possibilità di sviluppo, in questa difficile strettoia, di quello che è stato definito il Comune,(11) come potenza alternativa ad entrambi e a cui entrambi dovrebbero essere ontologicamente e logicamente subordinati, trattandosi di ciò che ne garantisce la possibilità, cioè la vita concreta e collettiva di ciò che esiste, immerso in relazione costitutiva con l’ambiente. Propongo quindi di concludere la mia risposta sul tema della partecipazione in salute mentale introducendo un’analisi politica della fase di transizione in cui siamo rispetto ai modelli di welfare. Per attraversarla sarà secondo me necessaria una passione politica simile a quella dei riformatori degli anni ’70, ai Basaglia, a Maccacaro, ai movimenti di cui facevano parte, fuori e dentro le istituzioni. Assicuro che non si tratterà di passioni tristi se avremo a disposizione analisi adeguate all’attualità, che è ciò che qui voglio iniziare a proporre.

4. La crisi dei modelli di welfare

L’epoca gloriosa del welfare state europeo si colloca tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni ’70. In Italia questa fase ha vissuto un notevole strascico temporale dato dal fatto che alcune fondamentali leggi determinanti nella costituzione di un sistema moderno di servizi pubblici come la 180, la 194 e la 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, sono arrivate solo in ritardo, sul finire di un decennio di mobilitazioni politiche e sociali di ampia portata. Lungo questa fase i sistemi di protezione sociale hanno attuato un compromesso tra la dichiarata impostazione universalistica e la pratica prestazionale, orientata cioè alla copertura di specifici rischi sociali e quindi calibrata su particolari target di popolazione. Tali target erano identificati in base alla definizione di deficit, permanenti o temporanei, rispetto allo standard costituito da specifici modi di vita – a loro volta determinati dalle dominanti modalità di produzione e riproduzione sociale. Il principale oggetto di questo modello di welfare è il maschio lavoratore, che a un certo punto della sua vita mette su famiglia, che accede ad un certo livello di consumi in funzione di una certa modalità di integrazione sociale, che è capace di calibrare la spesa (o meglio l’investimento) nelle sue scelte lavorative, abitative, riproduttive. Egli sapeva che un certo numero di voci economiche erano a carico delle tutele collettive (disoccupazione, invalidità, malattia, previdenza sociale, abitazione – anche se quest’ultima solo in minima parte); tale soggetto astratto, il male breadwinner contava su una certa idea di espansione e di progresso lineari e costanti, che aveva egli stesso sperimentato con l’evolversi degli stili di consumo in una società affluente e redistributiva; tale idea lineare ed espansiva faceva da sfondo al modello di welfare che contribuiva a determinare la sua sicurezza.

Per esempio, fare in modo che la prole si dedicasse a un percorso scolastico o a un percorso formativo-professionale acquisiva senso nel contesto di un’evoluzione prevedibile del mondo, di una consequenzialità nella successione dei fenomeni, collettivi e individuali, in cui era richiesta una precisa accumulazione di esperienze, valori, capitale sociale e culturale.

In tale contesto il welfare forniva prestazioni nella misura in cui i suoi obiettivi di integrazione sociale erano evidentemente condivisi da una maggioranza effettiva di popolazione, accomunata da simili modelli di riferimento, ideali, proibizioni, per quanto sui diversi livelli della stratificazione sociale. Di conseguenza, ogni azione rivolta all’integrazione sociale si svolgeva entro un orizzonte chiaro di nozioni di riferimento, modi di vita verso cui aspirare, idealtipi condivisi, entro i quali un approccio fondamentalmente redistributivo (nelle sue modalità di finanziamento, nelle sue epistemologie e nelle sue prassi di intervento) svolgeva una funzione comunque integrativa, per quanto oscillante tra modalità più emancipatorie o più repressive, nella misura in cui interveniva su specifiche vulnerabilità o fragilità per ricondurle nell’alveo di una forma di esistenza collettivamente accettata e riconosciuta. Di fondo, restava un solco abbastanza definito entro cui si giocavano normalità e devianza, integrazione ed esclusione, accettabilità o non accettabilità delle caratteristiche e delle condotte individuali.

Il tentativo di modernizzare questa impostazione del sistema non si può dire veramente compiuto. L’effettiva innovazione è stata portata avanti solo in misura marginale dalle soggettività politiche e sociali che avevano posto in essere le istituzioni del welfare della golden age. Ben più dotato di forza materiale e simbolica, il grande processo intervenuto negli ultimi quarant’anni a modificare i modi di vita di singoli e collettività è stato dominato dal mercato, sospinto e a sua volta volano di una radicale trasformazione nelle tecnologie e nelle comunicazioni, sempre più svincolato dalla sua precedente imbrigliatura e parziale funzionalizzazione agli obiettivi generali dello stato nazione e sempre più deterritorializzato e deterritorializzante, rispondente a nuove logiche rispetto alle quali i dispositivi di integrazione comunitaria ancora vigenti fino alla fine degli anni ’70 (e marginalmente nelle epoche successive) risultavano spuntati o reazionari quando non meramente illusori.

La moltiplicazione di possibilità individuali, valori di riferimento, modelli lavorativi, familiari, riproduttivi, culturali ha effettivamente comportato una imprevedibilità dei modi di vita, insieme alla moltiplicazione dei rischi collettivi ed individuali ad essi connessi. Tale moltiplicazione dei rischi, unita al fatto che per sua natura il mercato tende a riempire di barriere d’accesso la piazza in cui si svolge, si è sviluppata mentre i vecchi strumenti di assicurazione collettiva dai rischi rivelavano il loro volto più antipatico: quello arretrato, normativizzante, astrattamente repressivo. Il welfare oggi si muove entro questo cocente paradosso tra l’imprevedibilità delle proliferanti libertà individuali e i rischi ad esse connessi. Un certo numero di persone infatti viaggia tra città globali, rifiuta la totalità dei ruoli ascritti per nascita, pretende e realizza percorsi privati di emancipazione. Nel fare ciò questa molteplicità di persone si connette fluidamente, in forme di integrazione comunitaria non codificate, instabili. Le istituzioni pubbliche sanno pochissimo di queste forme fluide, tranne doversene però comunque occupare per le inevitabili vicissitudini che, anche in tali percorsi, producono conseguenze avverse, esternalità collaterali, incidenti non gestibili dai singoli. Il paradosso è visibile anche da un punto di vista più generale: mentre si moltiplicano le possibilità di partecipare agli scambi globali in modo fluido e non codificato, aumentano anche le forme di possibile esclusione da queste “piazze del mercato”, sempre più virtuali, diffuse, frammentate. Per darne un’immagine metaforica: i luoghi di scambio sociale inclusivi hanno vie d’accesso e vicoli bui intrisi di violenza; la pressione di chi ne rimane fuori può diventare un serio problema di tenuta della “coesione sociale” quando non apertamente di ordine pubblico.

Un welfare che vorrà avere senso in questo contesto dovrà evitare di interferire con i singoli modi di vita che vogliono prodursi nella piazza, aver cura che i mille scambi individualizzanti (cioè attraverso i quali si producono identità complesse e sfaccettate) possano svolgersi in essa, garantendone soprattutto l’inclusività; tale nuovo modello di welfare dovrà avere cura che le persone possano scegliere tra più identità possibili, senza finire schiacciate da nessuna di esse. Più che un ruolo di controllore dell’ordine pubblico e della rigidità delle barriere d’accesso, il welfare dovrà forse essere lo strumento attraverso cui la cura della “piazza” venga vissuta come responsabilità di tutte le persone che la attraversano, in cui assumano fungibilità impreviste anche i valori d’uso di chi a un primo sguardo potrebbe sembrare senza nulla da scambiare; grazie a cui le opinioni e le prassi dei vicoli bui abbiano la stessa dignità di ciò che luccica sotto i raggi del sole nell’aperto della piazza.

L’emergere del paradigma delle neurodivergenze, per esempio, anche se affonda le sue radici nel “modello sociale della disabilità” testimonia proprio di questi attuali modelli di emancipazione: pur assumendo la base definitoria del paradigma neurobiologico, le persone neurodivergenti contestano l’interpretazione medico-correttiva e rivendicano il superamento della norma in nome di un diritto alla “biodiversità neurologica”. Come conseguenza di questa lettura è la società a dover garantire le forme adeguate di accessibilità a risorse e diritti, riducendo il proprio abilismo, e non la persona e la sua irriducibile peculiarità a doversi adattare.

5. L’interconnessione globale e la responsabilità ecologica

Mentre i modi di vita e le opportunità si moltiplicano, la comunicazione si fa globale, i capitali e un certo gruppo di persone viaggiano sempre meno vincolati da confini, si va affermando nelle coscienze, prima di gruppi sparuti e conflittuali, poi in modo sempre più massiccio e condiviso, la consapevolezza della inevitabile relazione sistemica tra tutti i nostri gesti, le nostre scelte e le loro conseguenze, potenzialmente catastrofiche, sul piano planetario. Gli stati-nazione, determinati per quarant’anni a lasciar correre le forze di mercato, avendo scelto di affossare come trascurabili residui le questioni derivanti dalle mobilitazioni sociali spinte dalla componente del lavoro salariato, sentono affiorare negli ultimi anni il ritorno di ciò che sembrava essere stato superato nella vittoria storica conseguita. Pandemie generate da virus che traboccano tra specie animali, catastrofi climatiche, inattingibilità delle fonti di approvvigionamento energetico, squilibrio nei rapporti tra viventi e condizioni di evoluzione della biosfera complessivamente sfavorevoli alla specie umana, carenza di carta per scrivere, acqua per bere: il tema della responsabilità collettiva, spinto fuori dalla porta nell’epoca della globalizzazione neoliberale e della deregulation, rientra prepotentemente da una finestra ormai divelta. Nella globalità di scelte infinite, rifiuto dei ruoli ascritti, volatilizzazione di ogni appartenenza comunitaria, si ripresenta il convitato di pietra della nostra comune appartenenza ad un delicatissimo e complesso sistema di interscambio tra viventi che condividono un ambiente.

Tra gli storici movimenti sociali che hanno attraversato la sanguinosa vicenda del Novecento ci sembra oggi necessario rileggere e tenere a mente le elaborazioni del femminismo materialista e alcune intuizioni rivoluzionarie dell’autonomia italiana degli anni ’70, che ci hanno dato utili strumenti per cogliere la portata della svolta storica che già in quegli anni andava profilandosi. Il femminismo materialista, con la sua enfasi sull’inestricabile legame tra produzione e riproduzione sociale, ha mostrato che tale indecidibilità può essere sciolta e viene storicamente risolta solo attraverso precise operazioni del potere – chiarendo che la decisione su tale distinzione non è affatto naturale o metastorica ma eminentemente politica. Dell’autonomia italiana degli anni ’70 ci sembra che la più importante intuizione sia stata quella sul rapporto di subalternità logica e ontologica tra l’immediatezza dei modi di vita collettivi, che le comunità anche subalterne si danno per accedere a una vita desiderabile, e la conseguente organizzazione delle catene della valorizzazione capitalistica. Non stupisce che ad oggi siano principalmente le evoluzioni di questi filoni di pensiero che si dimostrano all’altezza delle riflessioni e delle sfide imposte dall’attualità, soprattutto quando richiamano l’urgenza di nuove alleanze interspecie, di modalità radicali di redistribuzione della ricchezza non più fondate su un modello produttivo che domina e schiaccia la natura (dentro e fuori di noi) e gli altri esseri viventi, quando analizzano criticamente i processi di induzione delle varie forme di subalternità, facendone la base per una rinnovata lettura delle possibili comunità da realizzare. Con questi strumenti teorici potremo rispondere preparati all’attuale necessità di un pensiero dei bisogni radicali, consapevoli che non sono più pensabili forme di emancipazione individuali senza che esse siano collocate nell’ambito della sostenibilità sistemica. Oggi ritorna in primo piano una questione altrettanto radicale, dimenticata con la sconfitta e la dispersione storica del movimento operaio: quella dell’uguaglianza, questa volta intesa non più solo come questione che riguarda le classi sociali, ma come una questione radicale di riorganizzazione del mondo in forme che possano tenere insieme il delicato equilibrio tra libertà e sostenibilità, quindi sulla base di una profondissima redistribuzione dei rischi, ferma restando l’indiscutibilità delle conquiste individuali nel campo dei diritti civili e dell’autodeterminazione delle propria identità, insieme a tutte le nuove conquiste che si spera ancora verranno in questo ambito.

È incontestabile il legame tra la prassi del cambiamento delle istituzioni, la politicizzazione dei tecnici avvenuta in psichiatria, nella sanità e negli altri servizi pubblici, e queste correnti dei movimenti degli anni ’60 e ’70, che, insieme al pensiero decoloniale, alla sociologia radicale e alle più profonde elaborazioni della filosofia del secolo scorso (l’esistenzialismo, la psicoanalisi, la fenomenologia e lo strutturalismo, con i suoi derivati), in un contesto in cui la fibrillazione sociale e culturale arrivava a toccare anche il mondo cattolico di base, hanno nutrito l’humus di una anomalia rivoluzionaria, di cui la salute mentale italiana ancora porta il segno.

6. Il disagio e i saperi tecnici

Come era emerso all’alba dei servizi anti-manicomiali,

«in epoche successive la malattia e i suoi sintomi sono sempre stati influenzati e condizionati dai nuovi orientamenti terapeutici […], noi produciamo una sintomatologia – il modo di esprimersi della malattia – a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla».(12)

Il tema delle istituzioni, intese come insiemi di regole, strutture materiali e simboliche, dispositivi normativi formali e informali, aggregati di pratiche, aspettative e discorsi, è stato al centro di una profonda rielaborazione epistemologica proprio grazie all’azione di quelle forze che, nel dare praticamente forma a sistemi di welfare che finalmente rispondessero a bisogni di salute e protezione sociale sul piano universale, si interrogavano su come essi avrebbero interagito (o retroagito) sul complessivo sistema sociale. A questo proposito la sfida portata avanti dai movimenti di tecnici democratici, o “anti-istituzionali”, negli anni ’60 e ’70 (in Italia in stretta connessione con i movimenti sociali che, a fianco al movimento operaio, tematizzavano nuove dimensioni esistenziali della vita e della politica – non più separatamente) fu quella di creare un nuovo sapere. Al di là di un frasario marxista, che oggi potrebbe ai più apparire datato, quello che si affermava era che i contesti sociali, le forme di vita organizzate della collettività, avevano un ruolo determinante nel produrre, distribuire, rendere riconoscibili e nominabili le fisionomie di disagio relative a varie fasi della vita e, in modi diversi, a vari gruppi di popolazione. Anche la pretesa più oggettivista e scientifica veniva decostruita (con un’operazione raffinatissima lontana dagli attuali clamori a-epistemologici) riconducendone gli elementi infinitesimali, i singoli gesti, ad una dimensione etica: quali effetti producevano i saperi nei singoli contesti di vita delle popolazioni? Come i saperi stessi venivano prodotti, in virtù di quali concentrazioni di potere e distribuzione di legittimità? Quali disparità e disuguaglianze, quali subalternità questi saperi tendevano a coprire e a naturalizzare? In questa operazione non c’era nulla di astrattamente teorico. Il movimento era principalmente impegnato nel modificare le istituzioni, condizionare le configurazioni del vivere associato, sospendere le tradizionali risposte ai problemi per aprirne l’analisi, far convergere su di essi una presa di parola polifonica, interrogare saperi ed esperienze di solito escluse e silenziate. Si scopriva così che quelle che fino ad allora erano state oggettività si rivelavano abitudini, limitazioni cognitive imposte da una pratica sempre uguale a se stessa, scorciatoie di pensiero determinate da una limitata economia dell’attenzione e degli sforzi che non si azzardava mai a mettere in questione il “già detto” e il “già fatto” per aprire spazio al non ancora.

La costruzione dei servizi di salute mentale territoriale, dei consultori per la salute di genere e riproduttiva, di classi miste in luogo delle vecchie classi differenziali nella scuola, di imprese sociali cooperative sui territori, di politiche regionali territoriali per la realizzazione di servizi di salute pubblica, comunitaria e di prossimità, la messa in discussione (ancora gravemente necessaria) del carcere come discarica sociale e delle politiche che penalizzano l’assunzione di sostanze non sono stati frutto di un velleitarismo irrazionalistico ma una impresa politica che ha coinvolto movimenti, sindacati, gruppi femministi, collettivi di artist*, contestator*, reiett* occupanti di case, psichiatrizzat*, in relazione con professionist*, ricercatori e ricercatrici, personale di enti pubblici, con responsabilità politiche e impegnato nelle amministrazioni locali. In comune (e in un equilibrio sempre delicatissimo) questo gruppo variegato di soggetti aveva la disponibilità a mettere in questione il modo di vivere determinato dall’abitudine e l’idea che, attraverso il processo di “invenzione di istituzioni”, si dovesse cambiare volto alle forme del vivere associato. Si è trattato del lavoro di una minoranza, che per qualche tempo ha saputo abilmente gestire delicate e improbabili condizioni di egemonia, mentre come dicevamo il mondo andava verso la riproposizione di una nuova metasoluzione universalmente valida: quella del mercato con le sue appendici di efficientismo, meritocrazia individuale, predilezione del paradigma del capitano d’azienda su quello della autodeterminazione creativa delle collettività.

Tale paradigma neoliberale, che potremmo anche definire “postmoderno”, ha potuto nutrirsi delle aspirazioni all’autonomia, alla libertà e al progresso germogliate nei movimenti definiti “postmaterialisti” una volta che è venuto meno un paradigma culturale integrato e pervasivo, che riuscisse a tenere insieme queste aspirazioni con un progetto politico generale. Non tutto questo è avvenuto di schianto, allo stesso modo, nello stesso momento. Negli anni del cosiddetto “riflusso”, iniziato negli anni ’80, si sono costruite sotterranee alleanze, praticate resistenze, contrattate soluzioni “minime”, apertamente rivendicate come “deboli” nel loro rifiuto di un grande paradigma metastorico, spesso provvisorie ma spesso anche qualitativamente importanti. Nel frattempo, essendosi drammaticamente richiusa la marea della storia sui movimenti, il “politico” si percepiva ormai come “autonomo” dal sociale, suo principio di indirizzamento e messa in forma, nel cui alveo sarebbe presto maturato il new public management orientato a fornire sempre e solo soluzioni preformate e tecnicamente efficaci. Nel frattempo, però le talpe scavavano quei buchi grazie ai quali oggi probabilmente riusciamo ancora a respirare.

Nell’assenza odierna di un ambito in cui discutere eticamente i saperi – non sulla base di un’astrazione teorica ma trasformando sé stessi e le proprie osservazioni sulla scorta di reali sperimentazioni collettive, con la forza di “divenire istituzioni”, il disagio dell’esclusione si esprime solo come anti-sapere. La fredda razionalità dei saperi esperti, quelli che da qualche decennio regolano le istituzioni transnazionali con l’automatismo di un algoritmo, fa il paio con una crisi di legittimità di chi, con il proprio sapere, è vissuto non più come una figura dotata di responsabilità ma solo come un ingranaggio, o peggio un oliatore di ingranaggi, appendice di una macchina le cui finalità e il cui funzionamento restano politicamente imperscrutabili, pur nella luminosa trasparenza della sua struttura. Quale disagio psicologico, quale emergenza di salute mentale può essere affrontata in un mondo in cui le condizioni collettive del vivere, le modalità dell’abitare comune, non possono essere messe in questione? La moltiplicazione di libertà e di forme di emancipazione individuali allude certo a un mondo in cui l’autodeterminazione è una pratica collettiva e si svolge come generalizzazione delle libertà. Ma è pericoloso un mondo in cui la porta di ingresso a queste libertà è ingiustamente angusta, in cui l’accesso alle condizioni di autodeterminazione è motore di una inarrestabile competizione (che è poi una delle principali cause del disagio). L’anti-sapere, che si nutre di voci di odio messe abilmente in bocca agli infanti, «così come il padrone mette pala e piccone in mano agli operai»,(13) non può coprire il frastuono di una macchina globalmente interconnessa e probabilmente sempre meno sostenibile sui tre piani ecologici: quello ambientale, quello socioeconomico e quello mentale.(14) Il ruolo dei saperi, un ruolo che dovrebbe tornare eminentemente politico, sta nel mostrare che questi tre piani non sono parti di una struttura gerarchica “in sé”, su cui l’homo sapiens sapiens domina grazie alla sua tecnica, ma faglie, possibilità spesso contraddittorie, che si aprono a percorsi locali e a possibilità di incontri trasformativi. In contesti relativi alla salute mentale, questo è il senso della cosiddetta “coproduzione”.

7. Indicazioni conclusive

Un welfare che si era realizzato normativamente come parziale accomodamento postbellico, principalmente pensato per riequilibrare, pacificare, frenare e trattenere i conflitti, riprodurre condizioni minime di vita comunemente accettate, compensare le disparità territoriali, le disuguaglianze, anche confermando il ruolo degli utenti-target in identità difettive, minoritarie, sempre calibrate sul bisogno di paternalistica assistenza, non è più sostenibile. Non solo economicamente, come già dalla metà degli anni ’70 si poteva intravedere osservando la “crisi fiscale dello Stato”. L’insostenibilità che oggi è in primo piano è etica – etica soprattutto perché ecologica, perché sono state messe in questione le disparità internazionali, perché è venuta meno la sostenibilità di un modello di produzione industriale che arricchiva le società affluenti della golden age a discapito di tutte le altre, perché è divenuta insostenibile la rigida norma di genere attraverso cui ancora oggi il potere pretende di definire la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo.

Le questioni poste dall’autodeterminazione individuale, se non vogliamo che restino solo un infinito lavoro soggettivo legato alle possibilità competitive di sopravvivere, devono essere ricondotte in un nuovo piano di azione pubblica, informata ad una epistemologia ecologica. I territori, la cooperazione sociale, lo scambio e il confronto polifonico tra esperienze e saperi, sono la base da cui partire per informare un nuovo modello di presa in carico condivisa delle nostre condizioni di esistenza, al di fuori di un modello produttivistico, prestazionale, che inevitabilmente deve sciogliere ogni legame con la ricerca individualistica del profitto come unico mediatore simbolico generale della convivenza, tra umani e con le altre specie.

Proponiamo quindi una serie di temi di lavoro su cui sarà necessario misurare le prossime forme di partecipazione anche in salute mentale.

Un modello di welfare universalistico, realmente universalistico, significa superare la distinzione produttività/improduttività la quale ancora informa le categorizzazioni intrinseche nella definizione dei problemi sociali e delle tecniche e dei saperi con cui ci si dovrebbe occupare di essi. Lo stigma in psichiatria resta ancora molto legato al concetto di improduttività; allo stesso modo le nuove definizioni neurobiologiche enfatizzano concetti come “funzionamento” (la cui efficacia nel descrivere le successioni di stati d’animo e condizioni esistenziali è stata messa in discussione in quanto tende a collocare su un segmento bidimensionale e una “scala” gerarchizzante una molteplicità di caratteristiche e tipologie di intelligenze non paragonabili tra loro secondo univocamente determinato dalla capacità di ricoprire ruoli produttivi). Alla base c’è il valore positivo sancito dalla norma legata alla produzione, vale a dire un modello di considerazione della dignità degli esseri viventi nella misura in cui essi sono economicamente valorizzabili. Il concetto di “rifiuto del lavoro”, elaborato dall’autonomia italiana negli anni ’70, sarebbe oggi da riprendere: esso non indicava un generico sottrarsi alla fatica fisica o morale ma la contestazione delle regole per cui la capacità collettiva di cooperare creativamente deve essere sottoposta a un comando funzionale non alla qualità del lavoro e dell’interazione che esso comporta, ma al mantenimento degli squilibri di potere tra chi detiene i mezzi e chi mette a disposizione se stesso. Per fortuna oggi c’è eco di queste elaborazioni nel movimento per il “reddito universale incondizionato di esistenza” (questa è solo una delle sue possibili formulazioni). Ancora per fortuna in Italia una persona che viene da una tradizione di sinistra (quindi tendenzialmente “lavorista”) come Chiara Saraceno, ha dichiarato in modo ben argomentato che non va affatto abolito il Reddito di Cittadinanza (RdC) (una pallida allusione a quello che ci vorrebbe davvero), ma razionalizzato e allargato, anche dopo mesi di campagna diffamatoria con la grancassa di tutti i media ai danni dei percettori di RdC, che per un certo periodo aveva attivamente coinvolto anche la sinistra stessa, terribile paradosso.

È necessario pensare a una base di sicurezza universale, ma è necessario pensare anche alle condizioni di lavoro nel servizio pubblico, nel privato imprenditoriale e nel privato sociale, alla qualità politica dei servizi, a quanto operatori e operatrici, persone che nei servizi svolgono un ruolo dirigenziale e tecnico, abbiano la libertà, l’opportunità, la tutela per riflettere politicamente sul proprio ruolo. Come è già accaduto nella prassi delle istituzioni inventate che hanno dato forma alle punte più avanzate e innovative del nostro welfare: per riconoscersi in un lavoro che è prassi politica di trasformazione della vita sociale.

Ricostruire l’azione pubblica. Le categorie diagnostiche che informano la definizione dei disturbi nascono all’interno di consessi per nulla democratici, ove le prassi del metodo scientifico (le cosiddette evidenze) vengono volentieri piegate alle regole del profitto di un complesso farmacologico-industriale che spesso promuove epistemologie semplificatorie a discapito del benessere di chi ne utilizzerà i prodotti finali. La formazione universitaria dei professionisti del campo non solo psy ma anche medico e sociale, oltre ad essere fortemente inadeguata per lo svolgimento di funzioni relative alla salute territoriale, alla public health e all’intervento prossimale e di comunità, risente di logiche professionali corporative improntate a un radicato privatismo, peraltro riconfermato dalle normative che definiscono l’accesso alle professioni e l’accountability delle prestazioni. Ad oggi, i Distretti, le UVM e i Tavoli di committenza delle Aziende USL lavorano influenzati da questa stessa semplificazione nosografica, affrontano a valle un bisogno già definito da categorie figlie di epistemologie semplificate, basate sulla separazione dei saperi, non improntate ad un modello di azione pubblica.

Martina Consoloni e Ivo Quaranta hanno recentemente scritto ottime parole conclusive utili anche a queste nostre riflessioni:(15)

«l’impegno istituzionale dovrà dispiegarsi nel favorire la partecipazione come fine in sé (ossia per creare spazi di praticabilità per la tessitura di relazioni che abbiano un significato per gli attori coinvolti), anziché come mezzo per dare efficienza ed efficacia alle misure di sanità pubblica. L’attivazione di processi partecipativi sembra infatti non essere un utile mezzo per perseguire altri fini: piuttosto può essere assunta essa stessa a fine di una politica sociale radicata in un’ottica necessariamente non sussidiaria del coinvolgimento comunitario. In questi termini la dimensione della cura può assurgere a cornice concettuale della politica, intesa come azione sulle relazioni di cui siamo costitutivamente parte e da cui dipende il nostro rapporto con il mondo».

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Note:

1) Si fa qui riferimento al concetto di “Ecologie che curano”, come declinato da Pantxo Ramas, curatore insieme a Franco Rotelli del Centro di Documentazione nel parco di San Giovani a Trieste, una realtà che recupera e reinventa la storia e la cultura del grande processo di trasformazione iniziato da Franco Basaglia negli anni ′70. Nel testo “Ecologie che curano”, Pantxo Ramas scrive: «In questa ecologia, la realizzazione della cura avviene sulla soglia, al limite tra lo stato e la società, o tra il lavoratore e il cittadino; è un dispositivo che destituisce e istituisce le norme della cura. Monica Ghiretti, referente della Microarea di Ponziana, spiega durante un workshop che in questo programma “non ci sono barriere che limitano l’accesso: il servizio è lì, i luoghi sono lì per essere abitati”. Nel Programma Microarea le frontiere istituzionali sono concretamente messe in discussione attraverso lo sconfinamento di quelle soglie che lo stato costituisce. (…) In senso simile a quello proposto da Maria Puig de la Bellacasa, i processi aperti nell’esperimento della Microarea offuscano il limite artificiale tra la società e lo stato, e contestano il confine che separa gli individui dalla dimensione sociale della malattia e del disagio, o, più precisamente, di tutto ciò che è contenuto nella parola ‘problema’. Quando la logica della soglia viene messa in pratica, il processo di cura smette di riguardare la singola persona e diventa un’ecologia delle cose, delle pratiche, e degli affetti, trasformando così il limite istituzionale in una frontiera aperta». Da “Ecologie che curano” https://www.academia.edu/39734220/Le_ecologie_che_curano.
2) De Leonardis, O., In un diverso welfare. Sogni e incubi (Feltrinelli, 1998).
3) Castel, R. Castel, F. Lowell, A., La societè psychiatrique avancée. Le modèle américain (Grasset, 1979); Castel, R. Haroche, C., Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé. Conversazioni sulla costruzione dell’individuo moderno (Quodlibet, 2013); Castel, R., L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? (Einaudi, 2011).
4) De Leonardis, O., Principi, culture e pratiche di giustizia sociale, in A. Montebugnoli (a cura di), Questioni di welfare (Franco Angeli, 2002).
5) Sen, A., La diseguaglianza (Il Mulino, 1995).
6) Fazzi, L. Gori, C., Il voucher, in Gori, C. (a cura di), La riforma dei servizi sociali in Italia. L’attuazione della legge 328 e le sfide future (Carocci, 2004).
7) Andreotti, A. Mingione, E. Polizzi, E., Local Welfare Systems: A Challenge for Social Cohesion, Urban studies, 49(9): 1925-1940 (2012).
8) Riporto la spiegazione del termine cherry picking fornita nella puntata di Report – RAI 3 “L’affaire Covid”, puntata del 25/05/2020, di Paolo Mondani, Giorgio Mottola: «GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: E i privati sono così bravi che sebbene sulla carta prendano dalla regione le medesime tariffe degli ospedali pubblici, riescono comunque a guadagnare molto di più. Basta guardare ai dati dei ricoveri, raccolti dalla professoressa Sartor della Statale di Milano rispetto all’anno 2017. In Lombardia il pubblico ricovera il 65 per cento dei pazienti, ma ottiene soltanto il 60 per cento del budget garantito dalla Regione. Il privato invece fa il 35 per cento dei ricoveri, ma gli basta per aggiudicarsi il 40 per cento delle risorse. Per i privati i ricoveri sono dunque molto più redditizi che negli ospedali pubblici. Com’è possibile? MARIA ELISA SARTOR – DOCENTE POLITICHE SANITARIE UNI STATALE MILANO: È quello che gli inglesi chiamano il cherry picking, vai a sceglierti l cestino le ciliegie più buone, quelle più mature, quelle più rosse», https://www.rai.it/dl/doc/1592934355198_affaire_covid_report_edit.pdf consultato il 10/02/2022.
9) Bifulco L., Vitale T., La contrattualizzazione delle politiche sociali e il welfare locale (Social Policies Contractualization and Local Welfare), in Bifulco L. (a cura di), Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti (Carocci, 2005).
10) Taroni, F., Interventi di sanità pubblica e livelli essenziali di assistenza, in Biocca, M. (a cura di), Cittadini competenti costruiscono azioni per la salute. I Piani per la Salute in Emilia-Romagna 2000-2004 (Franco Angeli, 2006), pp. 201 ss.
11) Facciamo qui riferimento alla tesi di Toni Negri e Michael Hardt: «Con il termine ‘comune’ intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura […]. Per comune si deve intendere, con maggiore precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via» (Hardt, M. e Negri, T., Comune. Oltre il privato e il pubblico, a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, 2010, pp. 7-8).
12) Basaglia, F., Ideologia e pratica in tema di salute mentale, in Scritti, 2 (Einaudi, 198).
13) L’espressione è di Gilles Deleuze, Gilles Deleuze à Vincennes, 2 (sub. ITA), trasmesso da RAI 3, https://www.youtube.com/watch?v=na21Nhghi_k&t=299s&ab_channel=emilianosfara, minuto 6:50, consultato il 10/02/22.
14) Il riferimento è alle tre ecologie di cui parla Félix Guattari, «Le formazioni politiche e gli organi esecutivi sembrano totalmente incapaci di cogliere questa problematica [quella della crisi ecologica] nell’insieme delle sue implicazioni. Benché recentemente abbiano iniziato a prendere parzialmente coscienza dei pericoli più visibili che minacciano l’ambiente naturale delle nostre società, in genere si accontentano di affrontare il terreno delle nocività industriali, e ciò unicamente in una prospettiva tecnocratica, mentre soltanto un’articolazione etico-politica – che io chiamo ecosofia – fra i tre registri ecologici (quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività) sarebbe capace di far adeguata luce su questi problemi», F. Guattari, F. La Cecla, Le tre ecologie (Milano, 2019).
15) Consoloni, M. Quaranta, I. Lockdown dall’alto, comunità dal basso: ripensare la cura in tempo di pandemia, in Civiltà e Religioni, 2021/7.

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Immagine di copertina:
ricostruzione del momento in cui Marco Cavallo viene fatto uscire dal manicomio, fotogramma da Marco Turco, C’era una volta la città dei matti, docufiction, 2010.