[Pubblichiamo l’introduzione del saggio Devadasi. Serva del dio al servizio degli uomini di Daniela Bevilacqua, edito da Armillaria nel 2016. Il saggio esplora la figura della devadasi, letteralmente la “serva (dasi) del dio (deva)”, quelle bambine o donne che vengono dedicate al culto e al servizio di una divinità o di un tempio per il resto della vita].

Di origine sanscrita, il termine devadasi significa letteralmente ‘serva (dasi) del dio (deva)’, e indica quelle bambine o donne che vengono dedicate al culto e al servizio di una divinità o di un tempio per il resto della vita.
La pratica è ancora diffusa in India, sebbene notevolmente ridotta e sebbene abbia perso il valore e la funzione iniziale. Tuttavia, sarebbe impreciso attribuirle un inizio, perché non è ben chiaro quando abbia preso avvio e come si sia sviluppata la pratica della devadasi. Quello che parrebbe rimanere costante è la presenza di una figura femminile associata alla danza, e probabilmente a pratiche sessuali, il cui ruolo e considerazione sociale sono mutati nel corso dei secoli al variare delle condizioni storiche e religiose.
La presenza, nei siti archeologici di Harappa e Mohenjodaro (3000 a.C. circa), di una statuina bronzea di danzatrice e di un busto di donna in terracotta ha portato alcuni studiosi a ipotizzare un’origine pre-vedica della tradizione delle devadasi. La statuina di bronzo, che rappresenta una donna vestita solo di bracciali e rosari attorcigliati lungo le braccia, è stata identificata come danzatrice sacra e la sua posa sensuale – con una mano sul fianco, la gamba ripiegata e l’atteggiamento provocante – sarebbe indicativa della sua ulteriore funzione di prostituta.(1) Secondo A.L. Basham infatti:

«[…] questa ragazza che danza potrebbe essere una rappresentante delle danzatrici e prostitute del tempio, simile a quelle che esistevano anche in altre Civiltà Medio Orientali contemporanee e furono un’importante caratteristica del tardo Induismo, ma questo non può essere provato […]».(2)

Devadasi. Serva del dio al servizio degli uomini

Come ammette lo stesso Basham, queste ipotesi non possono che rimanere tali, data la scarsità di dati archeologici sulla civiltà vallinda, civiltà urbana sviluppatasi nella valle dell’Indo intorno al III millennio a.C., i cui culti e le cui organizzazioni sociali rimangono ancora avvolti nel mistero.
Facendo confronti con culture contemporanee o successive, si suppone che nella civiltà vallinda fossero presenti riti per la fertilità o culti della Grande Dea in cui la figura femminile era fondamentale in quanto personificazione dell’energia riproduttiva della natura. Infatti, tali culti esistevano anche in altre aree del mondo antico (da Cipro alla Siria, all’Armenia) e avevano effettivamente dato origine a pratiche di prostituzione sacra (3) sebbene, forse, più che di prostituzione si trattava della partecipazione a rituali sessuali svolti in un contesto templare o cultuale, in cui il ruolo del denaro era limitato o comunque secondario rispetto al valore in sé dell’atto. Attraverso leggi, iscrizioni e documenti sappiamo della presenza di donne che partecipavano a rituali sacri, soprattutto quelli che celebravano la dea dell’amore e della fertilità in varie civiltà antiche. Per esempio, Erodoto (circa 490-425 a.C.), parlando del tempio di Ishtar di Babilonia, riporta che una donna dormiva sempre al suo interno così che il dio potesse riposarsi con lei, e afferma che, secondo una tradizione locale, ogni donna del paese doveva, prima del matrimonio, stare nel tempio e darsi a uno sconosciuto in cambio di soldi per essere benedetta dalla dea. Tuttavia l’uomo non pagava per la donna, ma tramite la donna faceva un’offerta alla dea per avergli permesso di partecipare al rito. Così la dedicazione e l’offerta risultavano entrambi sacri.(4)
Nel codice di Hammurabi è descritta una legge speciale che proteggeva i diritti e il buon nome delle prostitute sacre, le quali potevano anche ereditare dal padre e ricevere guadagni dalle terre dei fratelli, diritti rari per le donne dell’epoca. Anche nell’epopea di Gilgamesh sono descritte sacre prostitute consacrate alla dea.(5) Secondo N. Qualls-Corbett, dove la dea della fertilità, dell’amore e della passione era venerata, le donne-prostitute sacre erano membri integrali della comunità. Potevano essere donne che temporaneamente o permanentemente si dedicavano alla dea e si offrivano al suo servizio. L’esperienza sessuale era vista come un potere rigenerativo, riconosciuto come un dono della divinità. Spesso, le donne associate ai luoghi sacri acquisivano sacralità, al punto che gli uomini le cercavano per mettersi in relazione con le divinità, allo scopo di propiziare la fertilità delle donne e del suolo ma anche la prosperità stessa della società.
‘Matrimoni divini’ erano presenti anche nell’Antica Grecia: la parola ierogamia indica il matrimonio sacro e si riferisce a riti religiosi in cui si celebrano le nozze tra due divinità oppure tra una divinità e un essere umano.
Anche i testi vedici (6) mostrano la presenza e l’importanza delle donne nel rituale: vi compaiono fanciulle iniziate al canto e alla danza che partecipano ai sacrifici prescritti nei Veda. Molteplici sono i riferimenti, nelle opere sanscrite, a rituali che collegano le donne ad attività religiose, artistiche e sessuali.(7) La presenza attiva di donne in rituali magico-religiosi è presente in diverse Upanishad (come la Chandogya e la Brihadaranyaka Upanishad), dove la copulazione rituale e il potere procreativo della donna sono associati per aumentare la fertilità del suolo. Tuttavia in questi testi le interessate non sono descritte come devadasi.
È in un’iscrizione dell’epoca di Ashoka (III secolo a.C.) che troviamo la prima testimonianza di una donna definita ‘serva del dio’.(8) Il testo, scoperto nella cava di Ramagarh, presso i monti Vindhya, contiene due iscrizioni, la prima in versi e la seconda in prosa. In quest’ultima l’artista Devadinna si dichiara innamorato di una donna, Sutanika, definendola appunto ‘ragazza serva del dio’. Secondo M.L. Varadpande, questa iscrizione fornisce interessanti informazioni sul costume delle devadasi dell’epoca: considerando che la cava era usata per funzioni templari, suggerisce che le devadasi intrattenessero danzando coloro che si radunavano per i festival, rimanendo disponibili per persone come Devadinna, che era uno scultore.(9)
Altro riferimento si trova nell’Arthashastra di Kautilya (Trattato sull’arte di governare, tradizionalmente datato III secolo a.C.). Kautilya afferma che le donne legate ai templi erano istruite nell’arte della musica e della danza, e che quando si ritiravano dal servizio al tempio dovevano dedicarsi alla filatura. Tuttavia non descrive tali donne con il termine devadasi. Similmente, il Kamasutra di Vatsyayana (II secolo d.C.) non tratta di devadasi, sebbene descriva le arti e come queste fossero usate da prostitute e cortigiane, di cui definisce doveri e privilegi.
Troviamo possibili esempi di devadasi nelle opere poetiche di Kalidasa (III secolo d.C.), che nel Meghaduta descrive le danzatrici del tempio di Mahakala a Ujjain durante il rituale del pomeriggio. L’artista le descrive come ‘donne di piacere’ e prostitute, ma non con il termine devadasi.
Purana contribuirono particolarmente all’evoluzione della tradizione delle devadasi. Questi testi raccomandano la presenza di ragazze che cantino e ballino per e a servizio delle divinità. Nel Padma Purana si suggerisce al devoto di dedicare belle ragazze al tempio; nello Skanda Purana ci sono molti riferimenti a donazioni di ragazze al tempio del sole perché si riteneva che dedicare danzatrici al dio Sole permettesse al dedicatario di raggiungere la dimora del dio una volta defunto. Questi riferimenti di dedicazione di ragazze a templi specifici sono una chiara testimonianza di un cambiamento importante avvenuto in ambito religioso. È il sintomo di un mutato approccio verso gli dei, che ora risiedono in un tempio specifico, le cui dimensioni aumentano a seconda del finanziatore (spesso il sovrano) e della funzione (ospedale, collegio, ricovero). Qui le divinità vengono trattate come re e devono essere appagate: abluzioni, ornamenti, fiori, buon cibo e soprattutto musica e danza.
Testimonianze provenienti dall’India del sud dimostrano che, sebbene non si sia sviluppata in modo uniforme,(10) in questa regione la tradizione delle devadasi raggiunse la sua massima espressione intorno ai secoli XI e XII, entrando a far parte del sistema rituale templare. La letteratura devozionale del Tamil dal VI al IX secolo fa riferimento a donne, sia divine che umane, che offrono culti ai templi danzando e cantando. Fonti epigrafiche forniscono indicazioni sul numero di devadasi donate ai templi: il tempio a Kanchi, costruito dalla regina di Nandivarman Pallavamalla (VIII secolo d.C.), aveva 32 ragazze dedicate; nel X secolo, in Tamil Nadu, nel tempio Brihadeshwara c’erano 450 devadasi; nel tempio di Somanath c’erano circa 500 danzatrici che ballavano davanti al dio mattina e sera; un’iscrizione del 1004 d.C. riporta di 400 devadasi nel tempio di Raja Rajeshvar; a Tanjore, nel sud, si afferma che nel tempio c’erano 400 devadasi, seconde per importanza solo ai preti che compivano i rituali.
Una bella descrizione del contesto è data da Marco Polo (1256-1323), che attraversò l’India e visitò le coste del Malabar (attualmente sono i distretti della parte nord del Kerala) alla fine del XIII secolo. Nei suoi scritti egli fa interessanti osservazioni sul sistema locale delle danzatrici nei templi:

«Hanno ancora molti idoli ne’ loro monasteri, di forma di maschio, e di femmina, a’ quali i padri, e le madri offeriscono le figliuole, e quando l’hanno offerte, ogni volta, che li monaci di quel monasterio ricercano, ch’elle venghino a dar sollazzo agl’idoli, subito vanno e cantano, e suonano, facendo gran festa, e dette donzelle sono di gran quantità, e con gran compagnie, e portano molte volte la settimana a mangiare agl’idoli, a’ quali sono offerte; e dicono, che gl’idoli mangiano, e gli apparecchiano la tavola avanti di loro con tutte le vettovaglie ch’hanno portato, e la lasciano apparecchiata, per lo spazio d’una buona ora sonando e cantando continuamente, e facendo gran sollazzo, qual dura tanto quanto un gentil’uomo potria desinar a suo comodo. Dicono allora le donzelle, che gli spiriti degl’idoli hanno mangiato ogni cosa, e loro poi si pongono a mangiare attorno gl’idoli, e dopo ritornan’ alle loro case. E le cause perché le fanno venire a fare queste feste è, perché dicono i monaci, che ‘l dio è turbato, e adirato con la dea, né si congiungono l’uno con l’altro, né si parlano, e che se non fanno pace, tutte le faccende loro anderanno di male in peggio, e non li daranno la benedizione e grazia loro; e però fanno venir le dette donzelle al modo sopraddetto tutte nude, eccettoche si cuoprono la natura, e che cantano avanti il dio, e la dea. E hanno opinione quelle genti, che il dio molte volte si solazza con quella, e che si congiungano insieme».(11)

Lo sviluppo della tradizione è strettamente connesso al rapporto del re con il regno e con il tempio. I sovrani sentivano il bisogno di giustificare la loro posizione glorificando la propria persona. Più i regni si espandevano, più c’era bisogno di tingere l’aura del sovrano con i colori della sacralità, creando un parallelo tra lui e le divinità antropomorfe. Per questo i re necessitavano di figure che fossero in grado di elevarli ad un piano divino, proteggendo la loro sorte e garantendo il benessere del regno. Essendo il sovrano rappresentante terreno del divino, ed essendo la devadasi sposa terrena dello stesso, ne deriva il loro legame diretto. La devadasi diventava allora anche concubina dei sovrani e dei brahmani, motivo per cui la pratica è stata associata alla prostituzione sacra.
Molti studiosi ritengono che la prostituzione si sia presentata in modo graduale nella pratica, nata inizialmente con lo scopo di fornire una sposa e concubine alla divinità affinché, allietata con danze e musica, mantenesse l’ordine del regno e del cosmo. Tuttavia, i vari riferimenti alle devadasi citati mostrano come, probabilmente, tradizioni diverse si siano fuse in determinate situazioni storiche, e che il ruolo di danzatrici e prostitute templari sia andato a coincidere quando i templi hanno iniziato a espandere le loro attività. Oppure possiamo supporre che siano riemerse pratiche dal passato e che abbiano assunto nuovi significati, come ad esempio i culti della fertilità vallindi inseriti nel diverso contesto dei regni medievali.
In effetti, come vedremo alla fine di questo volume, anche nel presente si assiste a un mutamento di ruolo e valore della devadasi, che è sempre dedicata alla divinità ma relegata al solo ruolo di prostituta, a causa dei cambiamenti culturali e politici che hanno colpito l’India a partire dal XIX secolo.

———

Note:

1) K. Goswami, (1999), p. 47.
2) Cit. in K. Chakraborty, (2000), p. 18.
3) Recentemente alcuni studiosi si sono opposti all’idea di prostituzione sacra, ossia di prestazioni sessuali finalizzate al lucro, da dedicare a una divinità in un tempio. S. Budin (2008), per esempio, studiando fonti del vicino Oriente, testi greco-romani e autori cristiani, ritiene che le fonti antiche siano state mal interpretate e che si sia creato un mito non esistente nel mondo antico.
4) N. Qualls-Corbett, (1988), pp. 26-36.
5) N. Qualls-Corbett (1988, p. 34) riporta la storia in Gilgamesh in cui Enkidu, un selvaggio che vive nella foresta, è catturato da Gilgamesh e riportato al suo stato umano tramite una donna: l’eroe manda una prostituta sacra consacrata alla dea nel luogo in cui Enkidu risiede. La donna si toglie i vestiti davanti a lui e per sei giorni e sette notti soddisfa il suo desiderio, alienandolo completamente dalla sua vita precedente. Questa storia ricorda molti miti indiani in cui, al posto del selvaggio, è presente un asceta o un dio ritiratosi a vita meditativa che, per essere ricondotto a livelli ‘normali’ (soprattutto di poteri), viene sedotto da una donna.
6) I Veda consistono di quattro raccolte (Samhita), composte tra il 2000 e il 1100 a.C.: Rigveda, Samaveda, Yajurveda e Atharvaveda. Seguono poi i Brahmana, commentari delle quattro Samhita, composti tra il 1100 e l’800 a.C. Le Aranyaka sono testi esoterici recitati fuori dal contesto dei villaggi, i più antichi composti tra il 1100 e l’800 a.C.; le Upanishad sono opere in cui i temi filosofici espressi nei testi precedenti trovano nuove esplicazioni e ulteriori sviluppi, le più antiche sono state composte tra l’800 e il 500 a.C. I Purana sono raccolte di narrazioni tradizionali inerenti ai miti e alle pratiche di culto, il cui scopo primario è quello di fornire un’educazione religiosa a coloro che non avevano accesso ad altri testi vedici.
7) Cfr. M. Varadpande, (1983), pp. 45-75.
8) K. Chakraborty, (2000), p. XXIII.
9) M. Varadpande, (1983), p. 55.
10) Intorno al X-XI secolo, la tradizione delle devadasi è diffusa prevalentemente in quelli che oggi sono gli stati del Karnataka, Maharashtra, Madras, Kerala, Goa e Andhra Pradesh.
11) Cfr. Il Milione, edizione del 1827, pp. 420-421.