[Pubblichiamo la Prefazione di Claudio Kulesko al saggio di Gilberto Pierazzuoli, “Il soggetto collaborativo. Per una critica del capitalismo digitale” (ombre corte, 2022)].

Biology is superficial
Intelligence is artificial
Grimes, We appreciate power (2020)

Così proclama uno dei più recenti brani di Claire Elise Boucher, in arte “Grimes”, performer, produttrice e cantante canadese, nonché compagna del noto imprenditore sud-africano Elon Musk ‒ cofondatore di Paypal, CTO di SpaceX, fondatore e CEO di Tesla e Neuralink, utente Twitter e molto altro ancora.

Inaspettatamente, il brano in questione – poco più, dal punto di vista musicale, che una semplice cavalcata elettro-pop – è incentrato, sul versante estetico, poetico e narratologico, su un recupero forte della nozione di tempo lineare. Un’operazione che Grimes svolge a partire da alcuni tipici topoi scifi, quelli dell’intelligenza artificiale e della “teoria della simulazione”. In questo micro-essai sonico, dai toni decisamente minacciosi, Grimes espone la sua personale teoria storico-naturale, imperniata sul passaggio “destinale” dall’intelligenza (o, meglio, dalla stupidità) a base carbonio, all’intelligenza (o, meglio, alla super-intelligenza) a base silicio, lungo una parabola teleologico-deterministica che va dai primi ominidi ai supercomputer autocoscienti del futuro.

Per comprendere meglio il punto in questione, proviamo a prendere in esame un esempio particolare. Nel video della canzone (una sorta di frammento di space opera, ricco di citazioni tratte da classici anime/manga cyberpunk quali Ghost in the shell e Akira), per la precisione al minuto 03:15, Grimes spara in testa ad Hana – una delle ballerine e performer del suo corpo di ballo ‒ dando inizio a un breakdown strumentale. Una manciata di secondi prima, il testo aveva proclamato: “Baby, plug in, upload your mind/Come on, you’re not even alive/If you’re not backed up on a drive”. Subito dopo l’intermezzo, Hana, la ballerina appena uccisa, subisce un rewind, tornando alla posizione di partenza, del tutto illesa. È a questo punto che il ritornello può tornare a invocare la capitolazione umana dinanzi al potere della macchina, condensata in un interrogativo ossessivamente ripetuto: “What will it take to make you capitulate?”.

A questo punto, è bene tenere a mente che solo quel che è già stato deciso, ossia solo il “già-fatto”, può essere riavvolto ‒ o, per dirla con Dick e Burroughs, solo ciò che è stato “preregistrato”. Solo a partire da tale presupposto onto-metafisico si può comprendere come We appreciate power sia, a tutti gli effetti, una delle opere d’arte più importanti e rappresentative dei primi decenni del XXI° secolo, capace di sintetizzare – all’interno di un contenitore esteticamente fruibile e persino molto gradevole – l’ideologia dominante, i tentativi di egemonia culturale da parte degli imprenditori della Silicon Valley, i più ardenti desideri degli abitanti delle tecnocrazie globali e persino le idee fondamentali di una manciata di recenti scuole filosofiche e neuroscientifiche.

Ci troviamo al cospetto di una nuova forma di teleologismo ma, anche, di una neo-teologia tecnoscientista, nella quale la macchina “registratrice” va a sostituirsi all’Uomo sul trono del dominio cosmico – trono a sua volta usurpato dall’umanità a un Dio defunto tra i bombardamenti a tappeto, le camere a gas e le esplosioni atomiche del cosiddetto “secolo breve”.

Tale credo, sinceramente e appassionatamente religioso, può essere grosso modo scomposto in due principi basilari, che andremo a denominare “teoria forte della simulazione” e “Basilisco di Roko”, entrambi ben rappresentati nel video e nelle lyric di Grimes. Si tratta, a tutti gli effetti, di due ipotesi “ai confini della realtà”, poco più che scherzi teoretici, nella migliore tradizione del paradosso filosofico. Tali scherzi, tuttavia, hanno acquisito, negli ultimi anni, un notevole e durevole portato teorico, influenzando un gran numero di opere pop e formulazioni filosofiche.

La prima delle nostre istanze, la “teoria forte della simulazione” – elaborata da un influente ingegnere robotico americano, Hans Moravec – stabilisce un principio cosmologico ricavato ad absurdum, esemplificabile nel modo seguente:

1) La tendenza al miglioramento e all’economicizzazione di processori e circuiti appare crescente, costante e ben calcolabile (fu lo stesso Moravec a calcolare tale andamento tendenziale, negli anni ’90). Dagli anni ’50 in poi, inoltre, l’avanzamento tecnologico ci ha consentito di espandere la nostra capacità simulativa al di là di ogni limite immaginato prima d’ora.

2) Se tale tendenza dovesse effettivamente restare costante, l’apparizione di una o più intelligenze artificiali forti (ossia autocoscienti) non dovrebbe essere che una questione di tempo. Al contempo, si renderebbe accessibile la possibilità di costruire un’avanzata simulazione del nostro pianeta o, persino, dell’intero universo.

3) L’intelligenza artificiale e la singolarità tecnologica, a questo punto, si presenterebbero come eventi deterministici, già presenti (o virtualmente attivi, in qualità di attrattori), sulla linea temporale. Lo stesso si potrebbe dire della suddetta “simulazione cosmologica”.

4) Pertanto, data la giusta potenza di calcolo, la singolarità tecnologica comporterebbe la possibilità di ricreare l’universo da zero, riproducendo ogni singolo ente ed evento all’interno di una simulazione digitale.

Corollario-4b) Il nostro universo attuale sembrerebbe obbedire al cosiddetto “principio antropico”, secondo il quale l’universo sarebbe costruito a misura della vita e, in particolare, dell’essere umano. L’improbabilità statistica della comparsa della vita e dell’autocoscienza costituirebbe una dimostrazione lampante di tale corollario.

5) Se la singolarità è inevitabile e l’universo è effettivamente costruito a “misura umana”, allora vi è un range di probabilità, che va da un’elevata probabilità all’assoluta certezza, che questo stesso universo che abitiamo sia già una simulazione, prodotta da una o più intelligenze artificiali forti. Una sorta di “zoo umano”, detto in parole semplici, all’interno del quale l’umanità non fa che vivere e rivivere la propria storia in versione autoriferita.

È nella cornice di questo universo simulativo che i personaggi di We appreciate power esplorano giocosamente la propria effimera consistenza digitale, soppesando la vita e la morte con inevitabile spensieratezza. Vita e morte, spogliate della propria essenza tragica, si riducono a una mera alternanza tra stati privi di senso, poco più che istanti in bilico sulla soglia del “punto di salvataggio” (reso celebre da innumerevoli videogiochi platform).

Muovendo da tale formulazione escatologica, è possibile poi declinare un secondo principio, all’apparenza ancor più assurdo, ossia quello del “Basilisco di Roko”.

Nel 2010, tra i vari post apparsi sulla community “LessWrong” (dedicata al dibattito filosofico e neurocognitivo), uno in particolare suscitò ampie discussioni. Il post, a firma dell’utente “Roko”, riprende la “teoria della decisione senza tempo” di Eliezer Yudkowsky – che stabilisce, ipoteticamente e a larghe somme, una prevalenza, quantomeno nello spazio decisionale astratto, dell’intuizione sulla razionalità computazionale. Impiegando la formulazione di Yudkowsky nel campo della futurologia applicata, Roko immagina (indifferentemente nel futuro o nel presente) un’intelligenza artificiale forte, impegnata a punire tutti coloro i quali si sono opposti, o hanno osato ostacolare l’ascesa delle macchine, all’interno di una sorta di inferno simulativo digitale, nel quale i cloni-avatar digitali dei suoi oppositori vengono torturati per l’eternità. Da qui l’attributo di “basilisco”, in riferimento del mitico rettile capace di pietrificare con lo sguardo i propri assalitori.

Una sorta di “scommessa su dio” pascaliana, o di principio di predestinazione agostiniano, si direbbe. Di fatto, applicando lo schema offerto da Yudkowsky, la sola possibilità, per quanto remota, di tale evento, è valida all’interno di uno spazio decisionale astratto. Se la macchina e l’essere umano pensano allo stesso modo, obbedendo alle regole di un campo cognitivo universale, allora tutti i nemici dei futuri dominatori stanno già bruciando all’Inferno.

Non a caso, un personaggio denominato “Rococo’s Basilisk” appare in un altro video a opera di Grimes, Flesh without blood (2015): una messa in scena del dramma di una delle vittime della terrificante punizione a-posteriori dell’IA destinata a ricostruire nel proprio grembo l’universo. Combinando all’interno della cornice estetico-concettuale offerta da Grimes il primo e il secondo fondamento della neo-teologia digitale, non si ottiene che una vittoria anticipata del fronte tecno-capitalista; un’egemonia cosmica non solo preannunciata, ma già del tutto ottenuta (quantomeno sul piano astratto).

Questa nuova metafisica si compone di uno sciame di esperimenti mentali simili a quelli descritti nelle righe precedenti – spesso a essi subordinati in qualità di sottocasi, alternative, scoli e derivazioni.

L’effetto complessivo è quello di una nuova dimensione dell’esperienza religiosa, per moltissimi versi simile (se non indistinguibile) dalle escatologie monoteiste dell’antichità. Anche in questo caso, difatti, il determinismo e la predestinazione assorbono in sé stesse ogni virtualità, ponendo come già in atto tanto il possibile, quanto il verosimile, fino a comprendere nel loro abbraccio anche il limite estremo dell’impossibile ‒ abolendo, così, ogni chance, ogni incongruenza, ogni crepa all’interno della totalità di un Assoluto illimitatamente (seppur non infinitamente) attuale. Uno spazio, per dirla con Deleuze e Guattari, radicalmente “liscio”, sul quale è financo possibile compiere enormi e terrificanti accelerazioni; uno spazio, tuttavia, pronto per essere “striato”, ossia ordinato e organizzato alla prima occasione. Si tratta, anzi, a ben vedere, di uno spazio speculativo ancor più ambiguo di quel che si possa credere. Da un lato, la promessa pseudo-messianica di un futuro già a portata di mano; dall’altro, la legge, che cala dall’alto come una mannaia, per punire gli infedeli e i miscredenti.

Un’utopia hobbesiana, nella quale la perfezione del meccanismo sociale si accompagna a un’equivalente perfezione, già di per sé distopica, degli aspetti punitivi e preventivi. Parafrasando Curtis “Mencius Moldbug” Yarvin – nel seminale Patchwork: A political system for the 21st century – la chiave del dominio non è la correzione, ma l’emarginazione: nelle società in cui talune affermazioni appaiono immediatamente ridicole o, all’inverso, ovvie, la punizione e la persecuzione si tramutano in dispositivi obsoleti. È esattamente questo il livello successivo dell’ideologia, il suo punto apicale.

Se, per certi versi, la metafisica si presenta al pensiero moderno come un naufragio, un’avventura oscura e insensata, ai limiti della follia, per altri essa resta, assieme all’ontologia, la chiave di volta della speculazione filosofica.

Dopotutto, si parte sempre da una valutazione preliminare dei materiali disponibili, sarebbe a dire da una rassegna di “quel che c’è e quel che non c’è”, delle configurazioni e dei permutamenti possibili. Tale è l’ontologia. D’altro canto, si culmina sempre, lungo il corso del processo di ideazione filosofica, in un’elaborazione di secondo grado, in una visione generale dei meccanismi che producono e sostengono il mondo – in breve, in una metafisica.

Scopo della metafisica è esattamente muovere dal particolare al generale (dal divenire singolare, al Divenire; dal c’è, all’Essere). Poco importa se tali conclusioni appaiono assurde, arzigogolate, eccessivamente radicali o non verificabili. Ben di rado, di fatto – come ci insegna la filosofia delle scienze – le proposizioni metafisiche risultano verificabili per mezzo dell’esperienza diretta o attraverso gli strumenti delle tecnoscienze (salvo in rarissimi casi, come nella convergenza del pensiero bergsoniano e della teoria della relatività ristretta einsteiniana).

Questo aspetto, particolarmente problematico nell’era del dominio tecnoscientifico, è mitigato da una semplice considerazione di carattere “non-filosofico”. A ben vedere – “con il senno di poi”, si direbbe – ciascuna filosofia, colta nel suo gesto fondativo, non appare che come un taglio effettuato nell’unità del reale, come l’estrazione di un tratto particolare, che viene poi astratto ed esteso in direzione di una generalità assoluta.

Una considerazione che raggiunge e cattura agilmente un gran numero di concetti filosofici: il divenire, l’Essere, il dolore, l’esserci, il tempo, il nulla. Niente più che casi singolari, occorrenze, poste sul trono della metafisica dalla speculazione umana.

Ogni metafisica, così come ogni ontologia, è il risultato – il prodotto teorico-pratico – di una selezione, alla quale ha fatto seguito un’opera di costruzione. L’essere umano, per dirla in parole più semplici, costruisce il mondo nel preciso istante in cui viene a sua volta costruito dal mondo. (E che sia anche questa un’affermazione “in ultima istanza”?).

Nessuna metafisica è inevitabile, giacché è il prodotto e, al tempo stesso, il combustibile di tutta una serie di contingenze divenute, per forza di cose, necessarie. Ma quali sono i processi che alimentano e costituiscono le nuove metafisiche macchiniche, reticolari, post-materiali e cibernetiche? Quali i presupposti, i tagli effettuati nella carne viva del mondo?

Pierazzuoli, Il soggetto collaborativo

Passo dopo passo, Il soggetto collaborativo. Per una critica del capitalismo digitale di Gilberto Pierazzuoli (ombre corte, 2022) ripercorre le tracce delle nuove metafisiche digitali, individuandone costanti, nodi e articolazioni, definendo e descrivendo i riti e le liturgie della neo-teologia tecnoscientifica. Un imponente lavoro filologico, storiografico e bibliografico – capace di concentrare in un solo luogo anni e anni di sforzi dell’intelletto generale – ma non solo. Attraverso un confronto serrato e costante tra le pratiche concrete del capitalismo digitale e alcune delle più recenti filosofie (quali il realismo speculativo, la teoria cyborg, le nuove ontologie, le metafisiche cannibali, l’accelerazionismo e la queer theory), assistiamo qui a una vera e propria “messa sotto stress” della teoria, capace di rilevare limiti, vincoli e punti di forza.

Quel che più conta, tuttavia, è che al centro di questo vortice vi siano le vicissitudini della materia, gli eventi e i processi generati dalle loro concatenazioni: la storia e le storie – piccole o grandi che siano, storie vere e storie inventate. Di certo, non mancherà al lettore occasione di scoprire. all’interno della matassa elaborata dall’autore, trame, dettagli, sincronie e ricorrenze – come in una sorta di piccola simulazione, per uno o più giocatori.

Abbiamo subito esordito incendiando l’immaginazione, facendo vibrare l’immaginario, attraverso una serie di fiabe iper-moderne, lisce, lucide ed aerodinamiche al pari di un iPod, o di una Tesla nuova fiammante. Ora, è tempo di inoltrarsi tra i meandri della macchina, nel labirinto della produzione. Fin dove potrà mai spingersi la necessità? Quale sarà mai il suo punto di rottura?

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Immagine di copertina:
fotogramma da Grimes, We Appreciate Power, 2020.