«Le donne studiano, sono brave, persino più degli uomini, finché vanno a scuola e all’università. Il talento per lo studio è un obiettivo effettivamente raggiunto, in parte e in certi luoghi. Ma quando si tratta di trasformare in opportunità di prestigio sociale e lavorativo questa bravura di base, di fare spazio, ecco che più si sale e meno si incontrano donne, soprattutto donne non anziane, vale a dire a uno stadio della carriera in cui possano ancora avere la forza di dare vita a una genealogia e a una prosecuzione di sé, anziché a un culto isolato di sé. Come se la fiducia sociale nei confronti della bravura e dei meriti delle donne non fosse ancora sentimento pensiero e discorso comune. Anche questo si chiama, in certi casi, violenza» (pp. 54-55).

Daniela Brogi ha recentemente pubblicato un saggio illuminante dal titolo Lo spazio delle donne (Einaudi), in cui sintetizza e analizza i principali ostacoli tuttora molto concreti all’emancipazione femminile, fornendo anche una preziosa bibliografia, per chi si avvicini alla questione. L’agile disamina delle questioni che ruotano attorno alla scarsa rappresentazione femminile nella storia della cultura italiana colpisce per lo stile limpido e la solida struttura argomentativa. Brogi formula un’ipotesi di inclusione che non abbia come obiettivo quello quantitativo di inserire opere nei curriculum scolastici e universitari o figure di donne negli ambiti della società dove sono scarsamente presenti. Piuttosto, propone di costruire insieme uno spazio che renda conto delle dinamiche attraverso cui si è realizzata nel tempo la costruzione di un femminile artificioso, inquadrato dall’occhio maschile.

Daniela Brogi, Lo spazio delle donne

Il capitolo terzo, Spazi e frasi fatte del maschilismo benpensante, contiene una timeline ragionata, in cui l’autrice fissa le date fondamentali del percorso di autodeterminazione delle donne nella storia della società italiana: dal 1946, anno in cui le donne hanno acquisito il diritto di voto, al 1996, quando lo stupro diventa un reato contro la persona e non più contro la morale pubblica. Brogi fornisce una cronistoria delle libertà negate, delle possibilità non concesse, degli ambiti in cui è stato compiuto abuso del corpo e dell’intelletto delle donne. Il capitolo tocca un picco di intensità con il racconto della vicenda del Circeo – «un nodo traumatico della memoria e dell’identità italiana del secondo Novecento, perché intreccia fascismo, sessismo e classismo» (p. 75). Sempre nello stesso capitolo, riporta la voce di Franca Rame, protagonista di uno snodo angosciante per la violenza con cui si sono svolti i fatti. Due eventi, questi, che hanno segnato in modo indelebile il femminismo italiano, perché si pongono all’intersezione di più direttrici: il tema della violenza più efferata è intessuto sia con quello simbolico dello stupro sia con quello dell’umiliazione gerarchica delle classi subalterne. Tuttavia, come sottolinea Brogi, nel trattare la vicenda del Circeo sui media dell’epoca:

«[p]ur attaccandolo, nessuno mise veramente in crisi uno sguardo del dominio per cui il corpo femminile resta pur sempre preda e campo di battaglia, non spazio di autodeterminazione offesa. […] Sarebbe interessante, quando si discute di morale, o del bene e del male in letteratura, costruire un fuori campo, e un controcampo critico […] anziché restringere l’indagine sul male alle perversioni sessuali di un io maschile che ci squaderna le sue letture sociologiche senza dar voce a ciò che è altro» (pp. 77-78).

È proprio sull’idea del fuori campo che Daniela Brogi costruisce la sua ipotesi di una ri-narrazione dello spazio delle donne nella storia sociale e culturale. Nel fuori campo risiede

«ciò che non viene mostrato ma che tuttavia esiste, perché vive nello spazio di cui l’inquadratura è solo una minima parte. Lo spazio delle donne costruito insieme può funzionare come fuori campo attivo, vale a dire come tipo di messa a fuoco dinamica che genera dubbi e domande intorno a ciò che si vede, creando una dialettica tra ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia è implicato» (p. 104).

Si tratta di una interpretazione che, se ha come implicito la teoria femminista della differenza (a partire da Speculum di Luce Irigaray), ne costituisce una naturale prosecuzione con l’ausilio di retoriche congeniali alla lettura di Brogi, specializzata in cultura visiva e già autrice di una straordinaria monografia sul rapporto fra la scrittura di Manzoni e l’arte di Caravaggio.

Lo spazio delle donne è quindi un fuori campo, dove accade molto più di quanto entri nell’inquadratura della narrazione dominante, cioè quella degli uomini. Il racconto degli eventi – la storia, la cronaca, la letteratura, l’arte – è da sempre filtrato attraverso lo sguardo maschile, teso a inquadrare solo ciò che è rilevante per il mantenimento dello status quo, in cui le mansioni tradizionali delle donne sono contraddistinte da un certo grado di maternage. Come l’educazione: Brogi porta infatti l’esempio della scuola, da sempre popolata da maestre e professoresse, addette all’istituzione che più di tutte è penalizzata da carenza endemica di fondi.

Ma il discorso di Brogi, pur parlando delle donne, include soggettività altre, la cui estromissione dal campo visivo è radicale. In questo senso, lo spazio delle donne non può che rappresentare una pluralità di soggetti, comunemente resi in modo parziale e attraverso codici di esclusione. Così, lo spazio delle donne è anche quello che permette di adottare prospettive che spalancano il senso ultimo delle questioni principali della contemporaneità. Una prospettiva fondata sulla complessità intrinseca dei retroterra invisibili, dei fuori campo che irrompono nell’inquadratura non può che essere inclusiva, con tutte le ripercussioni del caso. Uno spazio abitato dalla molteplicità necessita di un linguaggio idoneo a rappresentarla che stemperi gli assoluti maschili.

«Tutte le comunità abitate dalla pluralità stringono un patto di civiltà che si fonda anche sul politicamente corretto, che rimanendo nella lettera e nella sostanza dell’espressione, non è un’opzione, ma una condizione di esistenza e convivenza. […] Tutti gli ambiti dove non c’è, o non c’è più, un pensiero dominante in quanto unico, etnocentrico, difeso da una classe e una generazione di persone che parla solo di se stessa e in nome della propria purezza, adottano il politicamente corretto. Tutto il resto è per lo più retorica prepotente, disperata, talvolta persino imbarazzante» (pp. 107-108).

———

Immagine di copertina:
Jan Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra (particolare), circa 1657-59, Gemäldegalerie Alte Meister, Dresden.