Riflettendo sul termine “condominio”, procedendo per associazione di immagini e non per corrispondenze reali, il pensiero istintivamente vaga verso alcuni celebri spezzoni. Le prime evocazioni riguardano la gamba ingessata di James Stewart che scatta foto per Alfred Hitchcock e la macabra scoperta di Carmen Maura nel grottesco La comunidad. Ridursi, però, solo all’immaginario cinematografico rischia di essere fuorviante; giusto scartabellare dentro la galassia affollata della letteratura. I responsi, altrettanto impulsivi e magari ovvi, sono i celeberrimi abitanti di Rue Simon-Crubellier ne La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec; oppure i piani del grattacielo abitato dai primitivi di James Ballard in Il condominio. In tutte queste pagine c’è un’ampia gamma di finestre, appartamenti, porte, ascensori, pianerottoli, che si potrebbe definire un campionario necessario di simboli. Buone proposte, ma prevedibilmente didascaliche, che costringono a considerare il concetto in modo più esteso, più allargato, meno limitato o limitante. Girando tra le mani il vocabolo è facile giungere alla dicotomia tra cum e dominium, che svela un ispiratore senso filosofico, nonché portatore di un’ancestrale condivisione del dominio, per l’appunto. Riducendolo a mero aspetto architettonico, dunque, si commetterebbe un azzardo, rendendo lo scenario smodatamente vincolante e materiale. È pur vero, comunque, che annullando simile simmetria la riflessione raggiungerebbe dimensioni cosmiche, inesplicabili in poche righe. Appare vitale, perciò orientarsi verso un concetto né troppo canonico, né cosmico. Servirebbe un “condominio” che non appaia tale, almeno non nell’immediato, ma al contempo visibile. Occorre un’idea diversa, non edificata sulla terra ferma, piuttosto eretta sopra uno scafo sospinto dal vento. Il campo di indagine si restringe e non rimane altro che prendere il mare per scoprire se laggiù si nasconda qualcosa di idoneo per afferrare il concetto.

Una volta salpati, nuovamente cinema e letteratura offrirebbero molteplici opzioni, indicando strumenti e suggerimenti preziosi alla ricerca. Dato che l’originalità rimane dote rarissima e, siccome sarebbe sgarbato rifiutare un secondo invito, ci si aggrappa al romanzo d’avventura, al legno immortale del Pequod, alla mano sicura di Melville. Affondare sarà più difficile, si spera. L’agguerrita ciurma a bordo della tenebrosa nave ben si concede all’analisi ed è, in fondo, un totem letterario degno di assoluto rispetto. Un librone di convivenza tra pelli dure, collezioni di cicatrici, facce aspre e pochissime parole; una storia tradotta in mito anche grazie alla barba mozzafiato di Gregory Peck. L’appello dei marinai è leggendario: il quacchero Starbuck, il misterioso Queequeg, l’allegro e magro Stubb, il burbero Flask, senza omettere l’epico narratore Ismaele e l’indemoniato Achab. Alla lista vanno aggiunti ancora personaggi come Tashtego, Pip, Fedallah, Perth, Deggu, più una mezza dozzina di temibili e spietati ramponieri. Una varietà umana multiforme, avvezza al peggio; condomini che affollano per tre anni una baleniera veleggiante tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico; temperamenti forastici dallo sguardo ruvido. Scopo della spedizione: uccidere la feroce Moby Dick e, se possibile, portare la pelle a casa. Un compito terribilmente semplice per cui servono centinaia di pagine e la conoscenza diretta dell’immenso cetaceo bianco, il quale si mostra poco, ma quando decide di farlo sono guai grossi.

Questo il romanzo, questa la storia, ma se Moby Dick non fosse un capolavoro di metà Ottocento, il Pequod, sarebbe l’esatta descrizione di un palazzo dei nostri tempi. È un caseggiato difficile quello ideato dallo scrittore newyorchese, regolato da rigidi turni, incombenze sgradevoli, scarsa igiene, odori malsani, insufficienza di spazi. Inoltre, l’imbizzarrita spianata blu che li circonda non concede sconti, rendendo il circondario oltremodo minaccioso e lugubre. Il Pequod non è l’unico condominio galleggiante della letteratura, a ragione altri romanzieri potrebbero rimanere offendersi la ciurma schiava degli umori sanguinari della demoniaca balena merita un nobile privilegio.

Quello che maggiormente interessa della convivenza tra Starbuck, Queequeg, Stubb, Flask, Ismaele e Achab tuttavia non è il modo di coabitare, bensì la vincolante condizione di costretti. La loro situazione è insolita, abitano un “condominio coatto”, un po’ come accade ai carcerati. Eppure non è soltanto questa particolarità a renderli inquilini atipici. Osservando attentamente simile stato, ci si accorge che i marinai di Melville condividono lo spazio, perché sono obbligati a condividere la finalità, ed è proprio questo obiettivo comune a incatenarli l’un l’altro. Vogliono cacciare Moby Dick non soltanto per quietare la sete di Achab e guadagnare qualche soldo, ma principalmente perché intendono tornare a casa, rispondendo all’elementare istinto umano della sopravvivenza. La loro condizione di locatari forzati a bordo di un condominio galleggiante, uniti contro un male feroce, quindi, allaccia un filo immediato con la realtà, con il nostro presente. La nave non appare stabile come il Pequod, neppure lo spazio a disposizione lo è, ma la traversata è altrettanto pericolosa e tragica, inoltre le latitudini non sono quelle tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, bensì tra il nord Africa e la Sicilia. Sponde, quest’ultime, talmente vicine quasi da sfiorarsi, visibili all’orizzonte nei giorni sereni, raggiungibili con un salto a piè pari; che oggi, invece, appaiono minacciosamente separate. Tra l’equipaggio di Melville e quello dei profughi che fuggono dalle barbarie della guerra si avvista un fattore comune, qualcosa che li colloca tutti “sulla stessa barca”. Appaiando marinai ed esuli emerge la stessa fremente sete di sopravvivenza, il medesimo cieco tentativo, l’identico disperato viaggio. Entrambi pregano di restare a galla e toccare terra, implorando il mare affinché li lasci passare; disposti pure a sopportare, con disgraziato coraggio, un condominio: sovraffollato, invivibile, bestiale. Sulla barca, poi, conoscono la paura di un Male infinito, la fame di una brutalità vendicativa della quale potrebbero diventare incolpevoli vittime, ma indietro non è concesso tornare. Sarà Moby Dick, la simbolica entità del male melvilliano, a trascinare negli abissi il Pequod, lasciando in vita soltanto Ismaele, il giovane personaggio a cui spetterà il compito di tramandare. Quella foga selvaggia che fracassa il Pequod, seppur monito chiaro dell’incontrollata violenza ferina, rimane un atto letterario, uno splendido sforzo creativo; al contrario, le zattere dei fuggiaschi del Duemila galleggiano veramente, riempiendo non pagine di romanzi, bensì di cronaca. In tante disperate traversate del Mediterraneo non compaiono balene a rivoltar le onde, i pericoli sono altri; il rischio non ha sembianze eppure è sempre attorno. Basta nulla, un alito di vento più forte, un carico eccessivo o mal disposto per cadere in acqua, o peggio, per essere scaraventati oltre il parapetto. La minaccia è a bordo, oltre che tra i flutti, la difesa resta un esperimento improbo, la disperazione un remo spesso insufficiente. Per quanta crudeltà regni sulla baleniera, non c’è posto per la disumanità, i marinai di Melville saranno pure un’accozzata marmaglia, ciononostante restano fedeli a un principio di solidarietà che li eleva dal rango di bestie. Malauguratamente, però, sono eroi nati dalla penna e navigano in oceani di carta, nei mari fatti di acqua: la realtà è esattamente opposta.

I giornali riportano notizie di condomini galleggianti che sbarcano sulle coste sicule, nonché l’elenco delle barche alle quali il destino non ha concesso approdi. Nonostante i frequenti crudeli epiloghi, in alcuni casi succede che un profugo si salvi e, come Ismaele, si ritrovi con il compito di narrare. Il risultato prodotto è la cronaca luttuosa di una sciagura, la relazione di un disastro, la somma sbagliata di un’epoca: la nostra. Un’epoca definita moderna, sviluppata, tecnologicamente evoluta, ma non meno abominevole e sadica di altre. Una nave che cola a picco è il fallimento di una condivisione di intenti, una morte collettiva di speranze, un affondamento abissale delle attese. Confidare che simile carneficina cessi, e con essa i conseguenti strascichi razziali, è un’affermazione tanto irreale da risultare stucchevole. Opportuno, semmai, proporne una che trovi nella traccia romanzesca i giusti auspici.

Uno dei significati di Moby Dick è mostrare quanto la furia del Male sia violenta, come sappia montare all’infinito, estirpare ogni speranza, deviare qualunque manovra. Nel 1851 Hermann Melville si prefisse di raccoglierlo in un libro, sperando che l’insegnamento fosse tramandato. Evidentemente la lezione non è stata recepita, così i cum dominium galleggianti, oggi diversi nelle forme e nelle rotte, proseguono ad affondare assieme alla speranza di sopravvivere. Un approccio utile sarebbe, quantomeno, di abituare l’occhio a fotografare le cose con uno sguardo più ricettivo alla cum passione, in tutta l’accezione filosofica del termine. Con il tempo, educando con zelo la cum passione, quando dagli orizzonti limitati della tv avvisteremo simili “condomini”, ci scopriremo preparati a un nuovo modo di vedere, una diversa maniera di dubitare dell’ovvio. Magari ci mostreremo pronti a un pensiero meno claudicante dell’andatura del capitano Achab, capaci di contemplare una forma diversa di coabitazione, quella del “condominio coatto”, un concetto, nostro malgrado, disgraziatamente nuovo, terribilmente vecchio.

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Immagine di copertina:
Alessandro “Alo” Pastori, Achab, 2021 (particolare).