[Pier Paolo Di Mino e Veronica Leffe sono gli autori de Il libro azzurro, un interessante esperimento narrativo comparso recentemente in rete, di cui pubblichiamo un estratto preceduto da una intervista di Claudia Boscolo].

“Il libro azzurro” è uno pseudobiblion, ovvero un libro immaginario che viene citato all’interno di un romanzo inedito come se esistesse davvero. Appartiene quindi a una tradizione letteraria di vecchia data, di cui abbiamo numerosi esempi nella letteratura italiana (dal manoscritto di Turpino a quello da cui prende le mosse la vicenda de “I promessi sposi”). Come è nata l’idea di iniziare a parlare in rete di un libro inesistente?

[Pier Paolo] La tradizione degli pseudobiblia, italiani o stranieri o classici, è vasta, e ora non saprei fare un ragionamento esaustivo sulle motivazioni e le finalità di cui autori diversi di epoche differenti si sono dotati facendo ricorso a questo strumento letterario, ma mi sembra che si possa dire, grosso modo, che un libro inesistente, di solito, sia utilizzato per fornire alla narrazione un’autorevolezza chimerica e sfuggente, e, quindi, inconfutabile. Quanto a Il libro azzurro posso affermare con sicurezza che, però, deve la sua esistenza a una necessità opposta. Per spiegarmi devo sprecare alcune parole sul romanzo a cui accennavi, che si intitola Lo splendore. Questo lungo racconto è chiuso in un quadrato temporale che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del nostro secolo, e segue le vicissitudini di un personaggio (si chiama Hans Doré). Per raccontare questo delimitato lasso della storia umana, però, mi è sembrato necessario raccontare anche tutto il resto del tempo che ci siamo presi la briga di attraversare come specie animale, facendo rientrare in quel quadrato temporale anche gli eventi che vanno dalla comparsa della prima scimmia fino al completamento della sua evoluzione; non diversamente, per raccontare Hans ho sentito il bisogno di raccontare anche la storia di chiunque abbia avuto direttamente o indirettamente a che fare con lui. Partendo da questa necessità, ho pensato: mantenere la concentrazione narrativa dovendo gestire una serie potenzialmente infinita di digressioni mi sarà possibile solo ancorando fermamente il corpo della storia alle sue digressioni. Deciso questo, si trattava di trovare gli strumenti migliori per questo ancoraggio, strumenti che si sono rivelati essere il sogno e quel congegno insuperato per le pratiche telepatiche che è il libro: è attraverso i sogni raccontati e i libri citati nel romanzo che gli snodi meno visibili e gli intrecci più tenaci della trama si formano. In particolare, ne Lo splendore vengono citati tre libri, del tutto inesistenti, e, fra questi, Il libro azzurro riveste un ruolo abissale e centrale. Ora, questo piccolo libro inesistente viene descritto nel romanzo appunto come inesistente, o quanto meno difficilmente esistente, o esistente in modo improbabile: nessuno, o quasi, lo ha mai visto; i pochi che lo hanno tenuto in mano, o che affermano di averlo fatto, non sono sicuri di cosa sia passato sotto i loro occhi. Secondo costoro il libro cambia a seconda di chi lo legge, è mutevole e instabile, paurosamente illimitato. Penso si possa dire che Il libro azzurro è il fondamentale elemento disgregatore su cui si salda tutto il romanzo: dopo averlo letto, tutto si autodistrugge. (Presumo che avere messo in piedi questo gioco sia il mio modo di soddisfare l’idea platonica secondo la quale un saldo Stato si possa fondare solo sul dilaniante nulla dionisiaco). Ed eccoci alla pubblicazione telematica. A un certo punto della stesura de Lo splendore mi ha divertito l’idea di dare un’esistenza al meno esistente degli oggetti, e mi è sembrato evidente che, considerate le caratteristiche essenziali di questo oggetto, la forma migliore di pubblicazione fosse una piattaforma come Facebook o Instagram, ossia un congegno per la disgregazione e la nullificazione delle informazioni e della conoscenza.

[Veronica] All’interno della narrazione de Lo splendore viene descritto un libro che muta a seconda di chi lo guarda: un lettore lo apre e vede alcune immagini, ma se il libro è tra le mani di un lettore diverso, le immagini possono diventare altre, perché Il libro azzurro muta e si trasforma a seconda della persona che gli sta di fronte. Nel romanzo, dunque, si racconta di un libro fatto di immagini dagli strani poteri, che coinvolgono il lettore in una specie di rapporto magico. Una bella sfida voler dare vita e presentare un libro di tal fatta, e per giunta inesistente. Una sfida che in qualche modo, però, la rete rende più facile. In rete tutto è frazionato, isolato e dominato dall’algoritmo. Ogni momento è nuovo. L’informazione è distrutta e ne nasce un’altra. Ma questo è proprio Il libro azzurro! Tutto questo mi fa venire in mente la tecnica dell’affresco. Vediamo. Un tempo agli artisti si commissionava la realizzazione di grandi scene narrative da dipingere sulle pareti di chiese, palazzi comunali, ville signorili: macchine narrative che dovevano veicolare contenuti religiosi, filosofici, culturali, politici. La tecnica dell’affresco permetteva agli artisti di realizzare composizioni molto grandi e complesse, brulicanti di personaggi animati in sequenze e passaggi narrativi diversi, tutto all’interno di un’unica scena, tutto messo sulla stessa parete. L’artista realizzava l’opera con una tecnica pittorica che gli permetteva di gestire e tenere sotto controllo una tale complessità grazie alla suddivisione del lavoro nelle cosiddette ‘giornate’: quotidianamente l’artista stendeva sulla parete l’intonaco sufficiente per eseguire un pezzo di lavoro in modo che, a fine giornata, la parte trattata si era mantenuta fresca per accogliere il colore. E così l’artista aveva aggiunto un pezzetto della composizione, allargandola e rendendola più complessa. Un affresco è qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno, immagine dopo immagine. Oggi un artista può dare vita ancora a queste grandi visioni d’insieme? È questo il lavoro che proviamo a fare sui social de Il libro azzurro. Questo lavoro, quindi, è l’affresco che Il libro azzurro mi permette di realizzare.

Il progetto nasce su Facebook, attraverso una serie di riflessioni di ispirazione neoplatonica associate alle immagini. È quindi un artefatto immateriale di natura filosofica che unisce arte e letteratura. Quali sono, se esistono, i modelli a cui vi ispirate, sia per la parte letteraria sia per quella figurativa?

[Pier Paolo] Quando ero adolescente incappai in Plotino, e trovai, forse, delle somiglianze caratteriali con lui che mi parvero ombre ambigue e torve calate sul mio destino, ed espressi il desiderio di allontanarmi immediatamente da quei paraggi spirituali: troppo disprezzo per il corpo; e poi quei paludamenti orientali e oracolari, quegli sfinimenti teurgici (per non parlare delle pericolose concessioni al cristianesimo) che non possono non inflazionare la tendenza all’astrazione di cui tutti, in misure diverse, soffriamo. Detto questo, però, il neoplatonismo storico e quello fiorentino del Rinascimento, con il loro amore appassionato per l’anima, la bellezza, la cultura, la civiltà ci hanno salvato, almeno fino al ’500, da quell’abbacinante meccanismo di degradazione della ragione in positivismo logico e dall’instaurarsi di un regime mentale di devastante proattività titanica che proviene da quell’odio per l’uomo e il mondo, e per l’organizzazione del primo in seno al secondo, tipico del pensiero gnostico. Potrei anche dire che è un mero fatto di interesse personale, per chi abbia intenzione di praticare la bellezza e produrre cultura, riferirsi all’unico baluardo congegnato durante l’era volgare per arginare il secolare piano economico dei marcioniti a diverso titolo e di differenti sette finalizzato allo sfinimento per mezzo della noia. (Quando i cristiani devastarono Delfi, l’ultimo sacerdote ci avvisò tutti: comincia un’epoca di buio mentale, e non sarà facile, non sarà bello). Inoltre, secondo me, il neoplatonismo, nel lungo corso della sua storia, non solo ha allontanato tanti mali, ma ha anche riparato alla sua ombra un determinato bene rappresentato da un certo numero di espressioni letterarie, espressioni che io ho probabilmente preso a modello per l’elaborazione del mio lavoro. Penso al racconto di Boezio che viene salvato da una donna meravigliosa, Filosofia; penso alla fiorita trama delle imprese arturiane, con le sue donne floride e ricche di malizioso ingegno, a Galvano che diventa un vero cavaliere sbagliando tutto e cedendo a ogni peccato, a Ginevra che dimostra ai baroni di avere fatto bene a tradire il re con Lancillotto, che ha le caviglie sottili poco adatte ai combattimenti ma apprezzabili in amore, e che, comunque, è “lascivo come un cane”; e poi penso alle liriche e ai racconti persiani, screziati e infinitamente intrecciati lungo il filo della voce di una principessa che ricorda Persefone; penso all’esibizione della più alta filosofia, incarnata superbamente da una rosa, nel romanzo che ne porta il nome; penso a Beatrice: e, per ultimo, penso al fiore che non rinascerà mai più (è scoccato il sedicesimo secolo) dell’Hypnerotomachia poliphili. So che il mio è un canone letterario fantastichello e privato, ma ha avuto e ha per me un valore attivo.

[Veronica] Ho questo ricordo di me piccolina, quattro o cinque anni, sdraiata sul pavimento di legno della camera da letto di mia nonna materna. Sto sfogliando un vecchio catalogo a colori, ipnotizzata dalle foto de “La primavera” di Botticelli contenute nella collezione di libri d’arte che mia nonna aveva acquistato con costanza negli anni, dimostrando, pur avendo fatto solo la terza elementare, di possedere un sicuro, innato senso per la vera bellezza. Credo che ogni artista subisca un imprinting fin da piccolo: ci sono immagini che ti restano impigliate nell’anima, immagini che il cuore guarderà per sempre con desiderio infinito. Quando, anni dopo, adolescente mi ritrovai agli Uffizi di fronte alla tavola originale di quest’opera strabiliante, il mio desiderio fu enormemente accresciuto dalla presenza reale e dalla grandezza di quelle figure: ebbi netta la sensazione che quell’oscuro pittore di fine Quattrocento, la cui carriera si era chiusa in declino e in aspra polemica verso gli assunti razionalisti degli artisti di maggior successo, fosse riuscito, prestando la sua arte al pensiero neoplatonico di Marsilio Ficino, a cogliere le vere figure del divino. Da allora, cerco di tornare di fronte a tanta bellezza appena posso. Botticelli, tra le tante opere realizzate, non disdegnò di lavorare anche a opere di respiro diverso, come i disegni per la Commedia di Dante, incisioni per un libro stampato, dimostrando, così, che anche prestando la propria arte alla narrazione di uno scrittore, questa non sarà mai mera decorazione se lo spirito che la anima è quello giusto. Quello che fu dato fare ad alcuni artisti del Rinascimento Neoplatonico, mantenere intatto lo spirito di una visione così grandiosa della bellezza del mondo e dell’uomo, in seguito non è stato facilmente ripetibile. Se Michelangelo e alcuni manieristi, da Andrea del Sarto a Pontormo a Rosso, riuscirono ancora (seppure già in sofferenza) a incarnare quella figura di artista a servizio della bellezza della filosofia e del desiderio, riportando nell’arte la carne luminosa del più splendido paganesimo greco, con la Riforma e la Controriforma le cose precipitarono nel buio. Si salvò Caravaggio con la sua visione morale dell’uomo e del divino, e forse, più avanti, anche Tiepolo con la sua gioiosa, sensuale pittura pagana. Per lo più, però, fino alla fine del Settecento, il Barocco diede vita ad un’arte moralista e pubblicitaria. Dobbiamo aspettare l’inizio del XIX secolo (pochi gli artisti all’altezza), per tornare a un’arte di visione e al brivido del desiderio: l’arte di Francisco Goya, l’arte di William Blake, o quella sperimentata da Victor Hugo nel periodo del suo esilio. Anche il resto del XIX secolo, per la verità, fu un periodo molto interessante: quegli artisti che seppero sfruttare la tecnica messa a punto dagli impressionisti (un’arte puramente visuale, la loro; meramente borghese), e la piegarono a una visione più profonda come Odilon Redon, Van Gogh e Gauguin, ma persino Rousseau il Doganiere, costoro, ecco, riconciliarono il ruolo dell’artista con qualche cosa che per me è fondamentale: la ricerca della vera bellezza che è memoria, sogno, immaginazione, pensiero. Nel difficile secolo breve, il Novecento, questa capacità, spesso camuffata con il sarcasmo e l’ironia, la ritroviamo intatta nell’opera dei due più grandi artisti di questo periodo: Duchamp e Max Ernst.

Attualmente esiste la possibilità di acquistare il primo capitolo de “Il libro azzurro”, dal titolo “Ma l’amor mio non muore”. Avete quindi deciso di renderlo anche materiale, e quindi di fatto esistente. Cosa vi ha portato a realizzare quest’opera?

[Pier Paolo] Ne facevo cenno sopra: fin dall’inizio il nostro divertimento è consistito nel dare esistenza a un oggetto inesistente in maniera tetragona. Per farlo abbiamo pubblicato su diverse piattaforme telematiche lacerti del libro, così come le sue note di lavoro, e le riflessioni su questo, e, nel contempo (finché è stato è possibile) abbiamo portato queste note, queste riflessioni, questi lacerti in luoghi fisici, in presenza di persone (teatri, librerie, associazioni) o in assenza di persone (scegliendo siti congeniali per espletare riti minimi di stretta osservanza immaginale), affiggendo le immagini di Veronica nelle pubbliche vie, e stampando in formato cartaceo diverse versioni, nessuna uguale all’altra, del primo capitolo del libro. Devo osservare questo: a un certo punto l’edizione stampata del primo capitolo ne ha cristallizzato il racconto, che, da un po’ di tempo, circola non variato e identico a sé stesso. Voglio sperare non sarà per sempre.

[Veronica] Trasformare Ma l’amor mio non muore (il primo capitolo de Il libro azzurro), in un libro materiale è la cosa che maggiormente avvicina la nostra pratica artistica e letteraria a quella del pittore e del filosofo rinascimentale. Tenendo in mano il libro, scorrendo i suoi testi e le sue figurazioni, chi guarda e legge spero si trovi ad affrontare un’esperienza simile a quella di chi si trova di fronte a un affresco. Chi guardava quelle scene sulle pareti, conosceva il codice iconografico e narrativo che ne era alla base, e, istintivamente, le fruiva: sapeva riconoscere metafore e rappresentazioni anche molto complesse, e sapeva cogliere molteplici riferimenti filosofici sovrapposti. Chi guardava poteva spaziare, saltare da un episodio all’altro, o fare una carrellata, soffermarsi su una singola scena, su un singolo personaggio o sul brano di un paesaggio, insomma tanta, tantissima roba tutta insieme, un grandissimo divertimento da ogni punto di vista. Nel nostro piccolo speriamo di riuscire a offrire un gioco immaginativo analogo.

Il libro azzurro

Le trenta figure femminili che animano il capitolo “Ma l’amor mio non muore” sono sia figure letterarie (ad esempio Circe, Calipso, Penelope, Euridice, Medea, Didone, ecc.), sia storiche (come Ildegarda da Bingen, Giovanna d’Arco, Veronica Franco, Simone Weil, Joyce Lussu, Josephine Baker e molte altre). Si tratta di vite esemplari, che raccontano una storia culturale dell’occidente in controcorrente rispetto a quella ufficiale. Come avete selezionato queste figure e cosa hanno in comune?

[Pier Paolo] Questa non è una domanda facile a cui rispondere in maniera completa. È chiaro che, almeno per me, queste donne rappresentano una vittoria su quell’abbacinante meccanismo di degradazione della ragione in positivismo logico, e via dicendo, di cui parlavo sopra: ma la cosa è molto meno programmatica di come potrei raccontarla. Quanto alla loro selezione, non è stata una selezione: è stato un gioco erotico. Nella sapienza mistica ebraica, persiana, e anche cristiana, figure come queste servono alla filosofa o al filosofo per esprimere i propri sensi spirituali, ora identificandosi con esse, ora assumendole a oggetto del proprio desiderio passionale. Detto fuori dai denti: fin da ragazzo ho una cotta per Penelope e la Sulamita; con Shahrazād, invece, mi identifico (e, benedetto sia il suo nome, la prendo a nume vigilante sul mio lavoro letterario); non mi dispiacerebbe, un giorno, diventare splendente di saggezza come Joyce Lussu; c’è qualcosa di ferito in me di cui posso parlare solo con Medea, Euridice e Didone.

[Veronica] Selezionare le trenta Maestre è stato un compito arduo e complesso, un lungo, lento, appassionante rito, un’amorevole gestazione. Devo ammettere, ci siamo divertiti parecchio. Ricordo le prime: Ipazia, Giovanna d’Arco, Cristina di Belgioioso, Simone Weil e Josephine Baker approdarono sulla nostra riva trovando forma e sostanza con molta facilità. Ma a questo nucleo iniziale composto di personaggi storici, a più riprese si sono aggiunte anche figure della mitologia greca, della tradizione ebraica e cristiana, e altre dalla tradizione letteraria. Una prima versione del libro raccoglieva storie e ritratti di ventiquattro donne, da Eva fino ai giorni nostri. Possiamo dire che la caratteristica principale che ci ha spinto a scegliere una donna piuttosto che un’altra, è stata la presenza costante del desiderio nella sua storia: quell’amore che non muore mai, un filo rosso che lega le une alle altre in una dimensione esistenziale fondata sulla capacità di ciascuna di vivere e lottare e morire per una causa, per un talento, per un desiderio, per uno slancio mistico, per una passione. Tutte combattenti, insomma, ognuna a suo modo. Più tardi, e più recentemente, siamo arrivati alla versione attuale del capitolo, arricchita da sei figure inventate dalla penna di Pier Paolo: nuove incarnazioni luminose e sfrontate di questo meraviglioso potere femminile. Dare un volto a queste trenta ‘ragazze’ è stato per me uno dei lavori più appassionanti fatti finora.

Eva

In un contesto editoriale come quello italiano in cui assistiamo a una continua, estenuante ricerca di riconoscimento per una narrativa che sembra destinata alla ripetizione di tematiche trite, un esperimento come Il libro azzurro è controcorrente, e forse si potrebbe affermare che è in aperta polemica contro la saturazione del mercato editoriale. Quale è il messaggio volete trasmettere con la vostra opera?

[Pier Paolo] Temo di potere rispondere a questa domanda circa il rapporto che intercorre fra la letteratura e l’editoria solo in maniera sommaria e riduttiva: la mia mente, forse, tende a semplificare, se non a banalizzare, ma penso di potere dire che l’editoria è uno strumento utile ma non necessario per la letteratura; e che la letteratura sia l’oggetto necessario per l’attività editoriale. Le mie cognizioni sull’argomento si fermano qui. Non ho mai riflettuto molto su questa cosa. Io, diversamente da Platone e Cicerone, non reputo che pubblicare i propri scritti sia un fallimento (non del tutto) rispetto a una più ampia e generosa operazione pedagogica, culturale e politica; né vivo questa come l’oppressione di un dovere avvilente, come fu, per esempio, per Isidoro di Siviglia, ma, devo ammettere, il piacere crasso che provo quando faccio il racconto di un pensiero o di una storia a lungo è stato guastato dall’idea di pubblicare: il sospetto che quanto lasciato scritto sia usato male, malissimo, da persone mai incontrate, e il terrore superstizioso che le parole, congelate in una forma fissa impressa su carta, muoiano mi facevano stare male. Ho superato tutto questo: da un po’ mi piace l’idea di essere frainteso, e va bene pure che le parole muoiano un poco, se questa morte (direbbe Giordano Bruno) è viva. E, quindi, arrivato a questo, vedo bene che, presto o tardi, dovrò riflettere più seriamente sul rapporto che intercorre fra editoria e letteratura. Visto da vicino non è facile. A chi scrive, un tempo, poteva capitare di finire sotto la benevolente promozione editoriale di un circolo o di un mecenate dotati di motivazioni ideali di cui l’autore benevolmente promosso poteva perfino non essere a conoscenza: Catullo, forse, non capì mai di lavorare per Cesare, e morì beatamente convinto di essere riuscito a ferirlo elegantemente con la sua disdegnosa indifferenza. Peggio ancora è la situazione dello scrittore che, specie nell’epoca del capitalismo classico, poteva dare vita alle sue opere solo per tramite di aziende editoriali che mescolavano motivi ideali a questioni di profitto, o per le quali contavano solo queste ultime. Terribile è poi il destino dello scrittore in certe epoche terminali, quelle in cui il capitale rinuncia a procurarsi profitti attraverso le merci, e produce direttamente denaro per comprare denaro che serve a comprare altro denaro, finché su tutto si stende un silenzio tombale: in epoche come queste un libro, in quanto merce, ha a malapena un valore simbolico, ma più che altro numerico, utile a uno scambio di crediti che serve a tenere in piedi, finché può, un sistema che non ha nessun sistema. È la condizione che vivono oggi gli scrittori. Posso dire che, negli ultimi anni, ho potuto leggere, appassionandomi, con entusiasmo, i lavori di scrittrici e scrittori che hanno dimostrato in maniera ferma di possedere una voce e un pensiero vivi, allarmati eticamente, acuminati intellettualmente, ricchi di esperienza umana e letteraria; e ho perfino osservato progetti editoriali desiderosi di trovare una via virtuosa, ma, malgrado tante realizzazioni letterarie preziose e importanti, e malgrado molte proposizioni di intenti editoriali interessanti, tutto questo rischia di rimanere la somma irrealizzabile di una serie di contenuti la cui realtà, in mancanza di un contenitore, è solo potenziale. È meno di un sogno. Sicuramente questo è un peccato, che una volta confessato, non trova soluzione nel mero ambito letterario ed editoriale, ma solo e soltanto in una più vasta sede politica e, prima ancora, culturale. Detto questo, allora, non penso che ci sia un messaggio nascosto dentro la modalità editoriale congegnata per Il Libro azzurro capace di offrire soluzioni per un settore industriale: alla fin fine possiamo solo constatare che non c’è bisogno che i libri esistano perché esistano, e che tutto è ancora possibile.

[Veronica] Quello che vale per l’editoria (valendo per ogni settore della nostra società), vale anche per il mondo dell’arte, dove le opere oggi sono solo l’escrescenza materiale di un valore finanziario astratto gestito in borsa. Il libro azzurro, dunque, più che un esperimento controcorrente, più che un atteggiamento in polemica con la saturazione del mercato vuole essere un invito a fare arte a tutti i costi, ostinatamente.

Veronica Leffe, Sakina

PROLOGO

Gli studenti finalmente si zittirono, e il maestro Achiba disse: Dio, vedendo che il mondo era così bello, decise di crearlo. Perché decise di crearlo? Perché nulla può continuare a vivere se non viene creato di continuo. E questo è detto lì dove è scritto che Dio fece il mondo in sette giorni. Dio lavorò tutta la settimana. Dio lavora tutti i giorni della settimana. Creare il mondo significa lavorare tutti i giorni della settimana. È un lavoro che non finisce mai. Come è possibile?, chiederete voi. Non sopraggiunge mai il sonno e la stanchezza? Il muscolo della volontà, necessario a lavorare, non si stanca e rompe mai? No, tutto questo sarebbe ben detto solo di un lavoro che stanca, che richiede stanchezza e volontà. Ma si potrebbe davvero chiamare lavoro un lavoro che richiede stanchezza e volontà? Avvicinatevi, e osservatelo con i vostri occhi riflettendo nella vostra mente. Un lavoro che porta alla stanchezza e al sonno, serve solo alla stanchezza e al sonno. Serve a dormire. Dunque, non è un lavoro. Un lavoro che implica la volontà, serve la volontà. Serve solo a muovere i muscoli. Dunque, non è un lavoro. Se il lavoro che fate porta al sonno, è solo una distrazione. Se il lavoro che fate implica la volontà, serve solo a fare attività muscolare. Ed è comunque una distrazione. Un lavoro che si possa chiamare davvero lavoro, invece, deve tenervi sempre svegli e concentrati. Come se foste cacciatori che seguono una preda. Un lavoro che possa essere chiamato davvero lavoro implica una sola cosa: l’amore. Per questo motivo dice bene chi dice che Dio, vedendo che il mondo era così bello, decise di crearlo, e poi aggiunge: con l’amore. Ma allora, mi chiederete voi, l’amore non può finire mai? Sì, è così: l’amore non può finire mai. Avvicinatevi, e guardate. L’amore è ciò che spinge ogni creatura verso le altre creature. Per mezzo di cosa l’amore spinge ogni creatura verso le altre creature? Per mezzo del desiderio. Una creatura contempla un’altra creatura, e in lui si accende il desiderio. Il desiderio, allora, ci spinge al possesso. Ma cosa scopriamo? Scopriamo che, una volta posseduto ciò che desideravamo, ora desideriamo un’altra cosa. Scopriamo che, se non possediamo ciò che desideriamo, continuiamo a desiderarlo all’infinito. Scopriamo, infine, che ciò che conta è desiderare all’infinito. E questo desiderio infinito che viene dalla contemplazione è l’amore. Lo sa bene il cacciatore che segue nel folto del bosco la preda temendo e sperando insieme di perdersi con lei. Ed è detto bene lì dove è scritto che Dio, con grande arte poetica fece il mondo in modo ben ordinato, il cielo sopra e l’acqua sotto, e le stelle meravigliose e fredde a corona del mondo, e ogni creatura, così viva, al suo posto, e per ultimo l’uomo, e, infine, la donna. Dio, infine, il sabato fece la donna. Perché fece la donna e la fece di sabato? La fece di sabato perché il sabato è sacro, e in quel giorno a tutti è vietato fare un lavoro che implichi stanchezza e volontà. Il sabato nessun uomo può lavorare la terra e commerciare i beni, e la terra è libera di essere meravigliosa e i beni sono di nuovo davvero un bene. Il sabato non si può lavorare a diventare ricchi, e nessun uomo può rendere povero un altro uomo. Il sabato non si può lavorare a governare, e nessuno uomo può rendere schiavo un altro uomo. Il sabato non si possono fare queste cose. Il sabato bisogna lavorare davvero. Bisogna fare l’amore. Ed è scritto bene, allora, lì dove è scritto che il maestro Gesù insegnava: ogni giorno deve essere sabato. Ma perché è scritto che Dio fece la donna? Perché proprio la donna? Avvicinatevi, e guardate. Cosa suscita maggiore desiderio in un uomo della donna? E, allora, pensate a Dio quando ha fatto Adamo, e, pensando di avere fatto una cosa buona e giusta nel crearlo, si disse che, però, ora, doveva fare una cosa bella e viva, piena di desiderio, che, per mezzo del desiderio, lo suscitasse alla bellezza e alla vita. Ma certo!, si disse Dio, qui ci vuole un amore che non finisca mai. Seguite bene, adesso, cosa segue.

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Immagine di copertina:
Venere in battaglia, illustrazione di Veronica Leffe.