Ines Testoni è docente di Psicologia sociale e direttrice del master in Death Studies & The End of Life presso l’Università di Padova. Autrice di numerosi articoli e saggi, è riconosciuta tra gli scienziati più importanti a livello nazionale. Ho avuto l’onore e il piacere di intervistarla dopo l’uscita del suo ultimo lavoro, Il grande libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg edito da il Saggiatore (2021), che così lo presenta ai lettori:

«Solenni processioni funebri, pianti rituali, sacrifici e offerte in onore dei defunti, complesse pratiche di purificazione, sepolture, cremazioni e mummificazioni, necropoli grandiose erette a immagine e somiglianza delle città dei vivi: ogni società, ogni popolo del pianeta, sempre e a ogni latitudine, si è confrontato con la morte e ha cercato di renderla meno traumatica, facendone un momento di passaggio condiviso all’interno delle comunità. Oggi invece l’Occidente, accecato dall’illusione di un benessere infinito, opera una rimozione sistematica della morte dalla vita quotidiana e dall’esperienza di tutti, tramutandola in un fantasma indicibile con cui ciascuno si trova a combattere da solo.
Il grande libro della morte ripercorre i miti, i riti, le credenze e le tradizioni funebri che hanno accompagnato l’umanità fin dall’alba dei tempi. Esamina come nel tempo sono cambiati gli atteggiamenti individuali e collettivi nei confronti della morte, vista come un confine naturale dell’esistenza nel mondo antico e nel Medioevo per poi diventare un tabù nell’età moderna. Racconta la lunga tradizione di filosofi e scrittori che hanno sottolineato come l’accettazione della nostra mortalità sia la chiave per dare un significato alla nostra esistenza. Rintraccia gli influssi della morte sull’arte figurativa, sul cinema e sulle serie televisive. E approda all’oggi: un’epoca in cui i progressi della scienza e della tecnologia ci spingono a ripensare in nuovi modi l’essere umano, e figure ibride come i cyborg e il movimento del transumanesimo aprono le porte a possibili forme di parziale immortalità. Un’epoca in cui è sempre più pressante la richiesta di un supporto medico e psicologico per i morenti e i loro cari; in cui è più che mai necessario ristabilire un rapporto maturo e consapevole con la morte.
Il grande libro della morte ci sfida a caricare nuovamente di senso la nostra più grande paura, restituendo l’antico alone di sacralità a questo confine e, al tempo stesso, pensandolo come un passaggio naturale dell’esistenza. Perché è solo guardando negli occhi la nostra fine che possiamo vivere pienamente.
Riti e tabù, miti e film, l’immortalità dell’anima promessa dalle religioni e l’immortalità della mente promessa dalla tecnologia: questo libro racconta la morte ieri, oggi e domani».

Ines Testoni, Il grande libro della morte

D: Rispetto ai tuoi ultimi due libri, editi da Bollati Boringhieri, ovvero L’ultima nascita e Psicologia palliativa, il taglio dato a quest’ultima opera è sicuramente più divulgativo, con concessioni alla tua storia personale e familiare e immersioni, molto belle e appassionate, non tanto mediate dall’aura professionale, nel tuo pensiero, nelle tue convinzioni, nelle tue “battaglie”. Ti chiedo quindi come mai hai sentito il bisogno di questa scelta e di questo taglio, appunto, che peraltro è efficacissimo.

R: Cara Laura, sì è verissimo ciò che dici. Il cambio di registro è dovuto a Damiano Scaramella, editor de Il Saggiatore, il quale mi ha guidato, con grande accortezza e passione lungo questo percorso in “semi-soggettiva”. In verità non sentivo il bisogno di scrivere con questo stile, perché non avevo ancora scritto un libro così. Ho sempre trovato difficile calibrare la competenza che viene garantita da studi e ricerche scientifiche con l’opinione e l’esperienza personale. Il rischio è quello di generalizzare indebitamente questioni personali. In effetti, dovendo discutere un argomento universale come è quello della morte, il pericolo principale che ho cercato di gestire con estrema attenzione è stato quello di essere autoreferenziale facendo riferimento a lutti personali o a esperienze cliniche che, per quanto mi abbiano insegnato molto, rimangono contenuti ancorati fortemente alla mia storia individuale. Diciamo che ho tentato in tutti i modi di parlare di ciò che di più universale si possa dire della morte, facendo riferimento alla mia esperienza quando questo aveva un valore narrativo consono alle esigenze dell’argomento. Ora però che ho scoperto questo tipo di scrittura, sento il bisogno di affinarlo e quindi sto già lavorando a un nuovo testo, per affrontare argomenti che fanno perno su quelli discussi ne Il grande libro della morte, ma che interessano un universo simbolico apparentemente molto distante.

D: Intanto la struttura dell’opera: venti capitoli tematici (che si addentrano in filosofia, mitologia, antropologia, etnografia, ritualità, teorie scientifiche, scenari più o meno futuristici, ecc.) che, maieuticamente, accompagnano il lettore nell’incontro col perturbante, col limes, la soglia, il passaggio, il varco. Vorrei ribadire, da subito, il tuo “lignaggio” di appartenenza, che è quello che da Severino – il Grande Imprescindibile delle tue pagine – corre indietro a Giordano Bruno, Galileo Galilei, Gioacchino da Fiore. Il come e perché di queste presenze, emergeranno leggendo il libro, ma vorrei che indicassi, a beneficio dei lettori, cosa accomuna, nel tuo ragionamento, queste figure.

R: Il filosofo e studioso tedesco Thomas Sören Hoffmann, professore di filosofia all’università di Hagen, nel libro Philosophie in Italien: Eine Einführung in 20 Porträts (trad. Filosofia in Italia. Una introduzione in 20 ritratti) afferma che la scuola di pensiero italiana è la più antica ancora attiva, facendo riferimento alla coerenza che si delinea tra gli autori da lui descritti, fino a Severino. Ho seguito questo percorso per mettere in luce gli aspetti che risultano in continuità con il grande filosofo bresciano. In effetti, la traccia che si può intravvedere riguarda l’importanza della condizione immanente, che in Severino guadagna un valore assoluto. I filosofi italiani ai quali ho preferito fare riferimento hanno tutti in comune il coraggio e la determinazione nel voler rivendicare, contro la verità imposta dall’autorità e dal pensiero egemone dominante delle loro epoche, un pensiero radicalmente critico, che non dà per scontato niente e che svincola i loro argomenti dall’obbedienza e dalla convenienza personale. Sì, questo è certamente qualcosa che mi accomuna a tutti loro.

D: Scrivi: «Gli abitatori dell’Occidente – le cui rappresentazioni della morte stanno modellando l’immaginario dell’intero pianeta – sono sempre più ricchi e insieme incapaci di tolleranza, magnanimità e compassione. Affidano ad abitudini su cui hanno perso il controllo le loro azioni quotidiane, nutrendo risentimento per tutto ciò che disturba il loro superficiale divertimento, utile solo a coprire malamente ciò che non vogliono vedere. L’inevitabilità della morte» (p. 354).
Potresti, sempre a beneficio dei nostri lettori, fare una sintetica esposizione di come siamo arrivati a tutto ciò, al radicale nichilismo, a partire dagli albori della nostra filosofia? E ti introduco citandoti: «Se esiste il divenire, inteso come il venire e il tornare nel nulla in cui consiste la precarietà del mondo, tutto può oscillare, quindi non c’è bisogno di ipostatizzare l’esistenza di alcun Dio per spiegare l’origine e il fine del mondo e di chi lo abita. Se nasce dal nulla e muore nel nulla anche un solo uomo, tutto l’universo può subire la stessa identica sorte» (p. 271).

R: Questo è il nodo cruciale su cui fa perno tutto il volume. Si tratta di uno dei passaggi più cruciali dell’indicazione di Severino, il quale, a partire da Parmenide, diagnostica il grande errore di base di tutto il pensiero occidentale, che, volendo indicare la verità e superare il mito, di fatto ha invece costruito un grande apparato di ragionamenti fallaci. L’errore sostanziale consiste nel credere che la trasformazione di ciò che appare testimoni la creazione e l’annientamento. Severino mostra, con argomentazioni inconfutabili, basate su un rigore logico tanto granitico quanto illuminante, che né creazione né annientamento sono possibili. Peraltro mette in luce come qualsiasi forma di differenza ontologica prevede che ciò che appartiene al mondo sia l’oscillante tra essere e niente. L’episteme metafisica avrebbe voluto salvare l’uomo dal nulla in totalità, ovvero dall’annientamento della morte, ma – e qui Severino nella sua bellissima opera L’anello del ritorno si rifà a Nietzsche – se qualcosa è annientabile e creabile, allora tutto è annientabile e creabile quindi non abbiamo bisogno di ipostatizzare l’esistenza di alcun Dio. Il Big Bang è appunto la teoria scientifica che ammette la creazione dal nulla senza fare riferimento ad alcun Dio. Ebbene, questa visione è radicalmente errata perché stabilisce in forma drammaticamente illogica l’identità tra essere e niente. Severino dice in modo nitido che ammettere che esista un tempo in cui l’essente (ciò che è) è niente significa essere convinti che l’essere sia niente. E questa è follia, ovvero le convinzioni che spacciamo come certezza senza essere consapevoli delle loro implicazioni e del loro significato autentico.

D: Ci racconti chi e cosa è stato Emanuele Severino per te?

R: Emanuele Severino è stato ed è tuttora un Maestro di insuperabile levatura. Oggi non siamo più abituati a valorizzare coloro che ci aprono la mente e il pensiero. Mi è capitato di incontrare “piccoli uomini” dotati di potere (uso questo termine nell’accezione di colui che ha coniato tale espressione, Wilhelm Reich) che si divertono a fare ironia rispetto all’uso di questo termine. Come dice Reich, il loro potere non li rende più grandi, rimangono comunque piccoli, e neppure, aggiungo io, la loro ironia. Mi piace citare la questione del «piccolo uomo», perché è da tempo che vado dicendo che il potere affidato a piccoli uomini – i quali tentano sempre di umiliare i grandi che risultano a loro scomodi – è pericoloso, come dimostrano Socrate e Giordano Bruno. Piccoli uomini dotati di potere possono farsi gioco di grandi persone e pensieri e questo è sempre molto pernicioso. Poi la storia fa il suo lavoro, ma nel presente gli effetti possono essere estremamente nefasti… Peraltro, mi preme sottolineare che da una parte ci sono grandi menti che possono aprire gli orizzonti anziché soffocarli e dall’altra devono esserci però anche coloro che sanno vedere le aperture e, riconoscendo i Maestri, procedere. Platone insegna.

D: Scrivi, parlando della Terror Management Theory: «La verifica empirica conferma l’ipotesi secondo cui le persone, ogni volta che si accende la consapevolezza della morte in loro, attivano strategie utili a rimuoverla dalla coscienza, potendo così ripristinare una sensazione di invulnerabilità che le rasserena. Dal momento però che siffatte difese sono deboli (…), basate su ragionamenti pseudo-logici, e dunque richiedono un costante lavoro di ristrutturazione per mantenere accesa la sensazione di poter dominare la precarietà della vita, attribuendole prevedibilità e significatività, l’angoscia si manifesta comunque con le più disparate bizzarrie che caratterizzano il comportamento umano» (p. 47).

R: Faccio riferimento a questi ricercatori, con i quali peraltro collaboro, perché i loro studi sono ormai di un numero incalcolabile e tutti mostrano con una certa chiarezza che il terrore della morte può spiegare quasi totalmente il comportamento umano. Questa teoria viene definita experimental existential psychology, per differenziarla da altre forme di riflessione sull’esistenza umana e sulla sua condizione di sofferenza. “Sperimentale” perché i loro rigorosi studi vengono realizzati con osservazioni sistematiche di laboratorio e sul campo. Alla base delle loro indagini c’è la convinzione che il successo di molte ideologie e fedi sia legato al rapporto fra la paura della morte e la consolazione.

D: Vorrei che spendessi qualche parola sulla logica del sacrificio sostenuta dalla religione. Leggo: «Ogni potere religioso è fondato sulla dialettica colpa-sacrificio vincolata alla speranza di espiazione per la salvezza, quella che garantisce la gioia oltre la morte. Al dolore patito sulla terra corrisponde la felicità presso il Dio al quale si è sacrificata la vita con privazioni e sofferenze per la Sua gloria. Questo significa che per il riscatto dall’ipoteca dell’esistenza contratta con quel Dio, dobbiamo costantemente pagare con la rinuncia alla vita il nostro stesso vivere» (p. 285).

R: Il Dio al quale mi riferisco in senso critico è quello che è stato pensato fondandone l’esistenza sul presupposto metafisico, che statuisce una invalicabile differenza ontologica tra Lui e gli enti che abitano il mondo fisico e che dipendono totalmente dalla Sua volontà. Tutti gli altri dèi, quelli mitologici, hanno un valore filosofico meno pregnante, quindi possiamo considerarli precursori del Dio metafisico che li ha facilmente sbaragliati. Le religioni che hanno eretto sulla base di questa idea di Dio la propria morale giocano tutto sulla seguente euristica: a) esiste il divenire quindi la morte è annientamento, b) l’unica salvezza dall’orrore dell’annientamento in totalità (morte) è il Dio assoluto dotato di una volontà personale, c) se vuoi salvarti devi assecondare la volontà personale di Dio, il quale richiede dei sacrifici (rinunce) importanti; d) il Dio mostra la propria volontà affidandosi ai ministri che Lo testimoniano; e) l’obbedienza ai ministri è garanzia di salvezza.
Il pensiero del disincanto, o pensiero critico – pensiamo a Marx, Feuerbach, Schopenhauer, Nietzsche e, seguendo Severino, anche a Leopardi e Gentile –, stabilisce che coloro che, socialmente autorizzati a farlo, si annunciano come testimoni della volontà di Dio di fatto fanno solo gli interessi di una classe privilegiata alla quale appartengono. Molto concretamente, costoro non testimoniano alcun Dio assoluto, ma facendo leva sulla speranza di salvarci dalla morte, garantiscono un certo funzionamento sociale nel rispetto di norme utili a mantenere privilegi a determinate classi sociali dominanti. Non a caso tutte le religioni metafisicamente fondate sono terribilmente interessate alla politica, ai centri di potere e all’economia.

D: «È possibile pensare Dio come assolutamente in grado o addirittura promotore di tutte le logiche di liberazione dall’oppressione che caratterizzano i passaggi più belli e più importanti della storia dell’umanità (…). Nessun sacrificio ci è richiesto per pensarci immortali» (p. 301). Vuoi spiegarci questo passo?

R: Grazie per questa richiesta di chiarimento. Ebbene sì, se pensiamo a Dio come all’Essere più grande che sia pensabile, quindi inevitabilmente quello che riconosce nella propria eternità anche quella di tutti gli essenti, che non oscillano tra essere e niente, è inevitabile che nessun ricatto morale può più fare paura, come sapeva Giordano Bruno. Questo Dio è il Dio che non muore, neppure sotto i colpi del Martellatore. Anzi, ad ogni tentativo di picconata contro questa indicazione del divino, il piccone si rivolge contro sé stesso.

D: Un capitolo che mi è particolarmente caro è il decimo, Una nuova fratellanza, in cui tu parli della reificazione dell’animale non umano, di specismo e antispecismo, di antiche teofanie animali, di totem, di darwinismo, della Queer Animal Theory, delle visioni egemoni costruite dai monoteismi e dai danni da esse arrecati. Nel capitolo seguente, poi, estendi il discorso a tutto l’universo umano delle minoranze, dei discriminati, dei soggetti ritenuti in varia misura “inferiori”, e spesso deumanizzati con delle metafore animalistiche. Tutto ciò si collega naturalmente anche al tuo percorso di attivismo femminista. Vuoi parlarci di come hai collocato questo fondamentale discorso nel testo? Leggo ancora un tuo passo: «Concepita come fessura affacciata all’infero, la donna ha dunque subito le attribuzioni peggiori inerenti al suo lato oscuro che ospita una natura generatrice senza freno né regola: eunuco invidioso, maschio imperfetto o uomo mancato, infirmitas sexus, e défaillance della natura, affetta da imbecillitas mentis, nonché ventre itinerante biologicamente inferiore, strega isterica, alleata di Satana, peccatrice o nemica di chi persegue il bene, preda del furore uterino, ninfomane, invasata e ossessa. È così che negli spazi per soli uomini dedicati alla cultura cui non le era permesso di accedere, la donna è stata considerata come l’oscurità materica, la gelida lontananza dalla luce divina e del sapere, e dunque usata come strumento passivo e ottuso» (p. 253):

R: Rispetto a questi temi mi riferisco a ciò che consideriamo giusto a partire dalle convinzioni metafisiche che sono state ammantate di razionalità e che invece sono solo miti o certezze senza fondamento. Faccio un lungo discorso, nel libro, sul palinsesto e la palinodia, ovvero sulle strategie che sembrano fondare razionalmente una credenza consolidata nel tempo rileggendola come necessariamente vera. Porto l’esempio di Aristotele al quale dobbiamo la convinzione che pensare alla donna come inferiore all’uomo è un discorso razionale dato per accertato. Ma anche di Hitler, che ha sistematizzato il pregiudizio nei confronti di ebrei e omosessuali. Se un piccolo uomo dotato di potere di persuasione compie operazioni intellettuali simili, le conseguenze storiche sono terribili per le persone e le categorie che vengono prese di mira. Sono le religioni metafisiche e la metafisica stessa che stabiliscono a priori una differenziazione di status ontologico classificando gli essenti: l’uomo vale più della donna e degli animali, quindi può disporne come meglio crede. E da qui hanno preso forma tutta una lunga serie di discriminazioni che hanno decretato per un verso la giustificazione di violenze inaudite e per l’altro lo scempio della natura al quale assistiamo quotidianamente. In Occidente, la donna ha cominciato a liberarsi dalla subordinazione voluta da patriarcato e maschilismo egemone solo da pochi decenni, grazie alla scienza e alla tecnica, alla democratizzazione dei processi educativi e delle relazioni sociali. Nel resto del mondo si deve ancora cominciare.

D: Propedeutica alla morte; esercizi di morte; memento mori. Come pensare, o meglio, meditare profondamente la morte oggi, con quale dotazione, con quale consapevolezza?

R: Il grande libro della morte è un esercizio sistematico di morte e serve per scardinare le convinzioni che diamo per acquisite senza neanche sapere perché le accettiamo acriticamente. Si tratta di un vero e proprio viaggio razionale attraverso epoche, luoghi, culture e… convinzioni, appunto. Guardando il mondo dalla vetta cui si giunge alla fine del percorso, è possibile andare ovunque per ragionare, leggere, studiare e quindi capire. Il libro non risolve tutto, ma indica la direzione per esercitare il pensiero critico e l’autoconsapevolezza.

D: C’è un tuo passo molto bello a proposito del discorso che fai intorno al tema del suicidio: «Abitando una società ottusa (…) l’anima sceglie l’altrove, per poter riprendere a respirare, il più rapidamente possibile. Non esiste altra prevenzione al suicidio che aprire le finestre e lasciare che l’anima voli e raggiunga i livelli di coscienza di cui ha bisogno per poterlo fare. Impedire all’anima di riconoscersi, togliendole il vento dalle ali, significa portarla a desiderare di abbandonare questo mondo» (p. 327).

R: Il suicidio è il grande problema con il quale tutte le società hanno dovuto e devono confrontarsi. Il dolore che tale scelta causa nei sopravvissuti è smisurato e questo inevitabilmente ci induce ad affrontare il difficile compito di comprendere come sia possibile preferire la morte alla vita. In ogni epoca si è cercato di trovare risposte che rendessero comprensibile siffatta “soluzione”. Da sempre, dolore e sofferenza per la malattia, prigionia, tortura o terrore e persecuzione hanno reso giustificabile il gesto estremo per eccellenza. Il problema diventa meno facilmente gestibile quando alla base agisca la discriminazione sociale, quella che rende insostenibile la vita, perché vengono chiusi gli orizzonti del pensiero, delle relazioni e delle scelte. Hitler diceva che l’unico ebreo che poteva accettare era quello suicida. Quanti ebrei nel periodo nazista hanno preferito suicidarsi piuttosto che essere massacrati dai nazisti? In questo caso, le dinamiche sociali e culturali sono fortemente responsabili e conviene tenerle sempre democraticamente e culturalmente sotto controllo. In realtà l’idea che l’anima con il suicidio voglia liberarsi da una prigionia che non riesce più a sopportare non è mia ma di James Hillman, al quale rimando suggerendo la lettura del suo libro Il suicidio e l’anima.

D: Come si può mantenere un salutare rapporto coi defunti?

R: Lasciandoli andare per la loro strada e non continuando a tormentarli con richieste di conferma della loro esistenza. Non sono loro che possono rispondere ai nostri dubbi e non possono neppure restituirsi a noi per non farci soffrire. È importante sapere che ci ritroveremo e sapremo tutto di tutti. Ci vuole forza, certo, ma sapere che l’annientamento è l’impossibile aiuta moltissimo a gestire il dolore.

D: Cos’è oggi la “buona morte”?

R: In realtà in Occidente stiamo morendo ogni giorno nel modo migliore possibile, grazie alla medicina, alla scienza e alla tecnica che tutelano al massimo la nostra salute valorizzando tanto la vita quanto il benessere. Ma intanto stiamo man mano morendo. La differenza tra quando stiamo bene e quando siamo ammalati consiste solo nel fatto che nel secondo caso ce ne rendiamo conto, nel primo invece no.

D: «Sapere che il buio custodisce ciò che splende altrove» (p. 355): è lo splendido aforisma che secondo me sintetizza tutto il tuo lavoro, la tua missione intellettuale ed educativa. Vuoi parafrasare?

R: Non riesco a esprimere meglio questo concetto, ma posso dire che, se comprendiamo che il buio non è il niente e quando qualcosa viene oscurato alla nostra vista non per questo significa che è stato annientato, diventa più facile affrontare la morte.

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Immagine di copertina:
Edvard Munch, Den døde mor og barnet (La madre morta e la bambina), 1897-1899, Munchmuseet Oslo.