Quello tra musica e cinema è, come si è soliti dire, un legame indissolubile. È anche vero che questa armoniosa relazione, pur esistendo sin dalle origini della settima arte, si è modulata negli anni in tonalità anche molto diverse tra loro, per restare nella metafora. Sin dalle primissime proiezioni pubbliche alla visione del film si affiancava il semplice accompagnamento, normalmente un pianoforte che suonava dal vivo, ma si arrivò presto ad avere una vera e propria orchestra per le serate più importanti. Tutto ciò, grazie allo sviluppo delle tecnologie di registrazione diventerà la colonna sonora. Il sonoro si era dimostrato perciò nel tempo il più fedele alleato dell’immagine, accompagnandola ovunque, e ribadendo quindi il legame tra l’occhio e l’orecchio durante le rappresentazioni. Il suono però si conquista rapidamente anche un ruolo da protagonista, contribuendo alla nascita di quello che verrà poi chiamato film musicale, una formula che comincia il suo cammino traghettando sugli schermi spettacoli precedentemente rappresentati a teatro e utilizzando, in modo spesso a dir poco audace, materiale rubato al varietà, al vaudeville, all’operetta e anche alla lirica. Il musical, per tutto il Novecento e fino ai giorni nostri, ha rappresentato una delle principali espressioni della materia cinematografica su cui si è costruito il successo delle major hollywoodiane, da Ginger Rogers a Jesus Christ Superstar, da Judy Garland ai Blues Brothers, da Liza Minnelli al Rocky Horror, da All That Jazz a Cats, dai cartoni disneyani a Hair, il grande e appassionato amore tra il cinema e la musica ci ha regalato alcune delle più belle pagine create dalla più popolare delle arti, spesso sottovalutata al rango di successo commerciale, senza indagare il forte feedback mediatico e sociale che il musical possiede.

Un discorso più specifico va fatto però per i film che non solo utilizzano musica e canzoni come strumenti per rappresentare altre storie, ma in cui è la musica stessa a diventare soggetto e oggetto della pellicola. Film in cui il concerto viene ripreso non perché ci deve raccontare altro, bensì perché è lo spettacolo stesso a essere oggetto della narrazione. Non sono molti i registi che hanno indagato questo genere, e fra tutti spicca senza alcun dubbio Martin Scorsese, che, a partire da The Last Waltz, ha costruito una vera e propria scuola del film-concerto, dedicandosi tra gli altri a George Harrison, ai Rolling Stones e a Bob Dylan, a cui ha dedicato le sue opere più riuscite. A essere precisi Scorsese era già aiuto regista durante le riprese del padre di tutti i concerti in film, ovvero Woodstock, e difatti si riconosce nelle regie che lo seguirono, la lezione imparata in quei tre giorni, ovvero in primis la necessità di improvvisare anche quando si è dietro la macchina da presa. Il cameramen deve avere ben chiaro che in un concerto non si fanno diversi ciak, nulla viene ripetuto a uso e consumo delle riprese, e quindi, se qualcosa non viene colto in presa diretta, è perduto, come d’altronde è l’anima e l’idea stessa del concerto, un’esperienza elevata dalla sua unicità. La storia della musica rock si incrocia continuamente con quella del cinema, sin dalle origini. Si pensi ad esempio alla lunga liaison tra Jean-Luc Godard e i Rolling Stones, nel tentativo di far sì che il totale fosse maggiore della somma delle parti, come avrebbe detto il regista francese. Nella maggior parte dei casi si tratta però di opere-rock, racconti musicati con un piglio e uno spirito legati al genere, se non addirittura di spazi di promozione per la canzone, come accadeva ad esempio nel caso di Frank Sinatra, di Dean Martin e più avanti per Elvis Presley. Nel decennio seguente tra le opere-rock spiccano, ad esempio, i film degli Who, Tommy e Quadrophenia, ma anche alcuni dei film dei Beatles, come Help, Magical Mistery Tour e Yellow Submarine. Come si è detto altro discorso si deve invece fare per i film concerto, come The Song Remains the Same dei Led Zeppelin, Pink Floyd at Pompei, o Rattle & Hum degli U2, fino al più recente Buena Vista Social Club di Wim Wenders. Oggi il più quotato emulo dello Scorsese regista di concerti, discendenza spirituale da lui stesso rivendicata, è Thom Zimny, giunto alla notorietà filmando Bruce Springsteen, e che oggi gode di un più ampio spettro di ricerca, dopo aver incentrato i suoi lavori più recenti su Elvis Presley, Johnny Cash e Frank Zappa.

È in questo mare piuttosto burrascoso e spesso impuro ma certamente molto pescoso che lega musica e cinema da ormai un secolo, e chiaramente ancora in gran parte da esplorare, che si va a misurare l’ultima fatica di Peter Jackson. Il regista neozelandese ha convinto Ringo Starr, le eredi di John Lennon e George Harrison, ma soprattutto Paul McCartney, a lasciargli accesso all’archivio delle ore registrate per l’album Let It Be e per il film omonimo diretto da Michael Lindsay-Hogg, e oggi totalmente dimenticato. Si trattava di sessanta ore di girato e di oltre centocinquanta di sonoro, che Peter Jackson ha montato aggiungendo, seppur in minima parte, materiale di altra provenienza, ottenendo così alla fine una miniserie lunga poco più di sette ore. È chiaro che ogni taglio, ogni montaggio, ogni scelta, sottende una interpretazione, e difatti le prime parole che Peter Jackson inserisce nei titoli di testa, prima ancora del disclaimer per i minori, sono proprio dirette a chiarire questo aspetto e a sottolineare che gli autori hanno fatto ogni sforzo possibile per avvicinarsi a un ritratto obiettivo di ciò che accadde, ma è altrettanto sottointeso che si tratta solo di uno dei possibili approcci, e che la verità dei fatti rimarrà un oggetto mitologico e irraggiungibile.
Il materiale è enorme e le problematiche da affrontare sono moltissime, visto che l’oggetto musicale che si cerca di indagare è la parte conclusiva del cammino condiviso della più grande band di tutti i tempi, tema su cui è stato scritto l’impossibile. Probabilmente sarebbe stato più semplice girare un docufilm sull’assassinio di Kennedy, cosa che d’altronde non si può certo escludere che Jackson abbia in mente, visto il suo amore per il cinema estremo. Il regista, che ha passato ben quattro anni a selezionare il materiale girato, dopo il successo mondiale delle due trilogie tratte da Tolkien non ha di fatto più affrontato il tema del racconto, spostando la sua attenzione proprio sul documentario, e cercando di forgiare la sua visione del momento esclusivamente tramite le tecniche cinematografiche: ogni montaggio è una interpretazione, ogni scena una scelta e ogni angolatura nasconde qualcosa.

«La fine dell’estenuante impresa tolkieniana non aveva chiarito se Peter Jackson si sarebbe mai disintossicato dal gigantismo dell’epopea. Il fatto che il cineasta neozelandese non si cimenti con un film di finzione da sette anni fa pensare che questo processo sia ancora lungo. La scelta di dedicarsi nel frattempo al restauro e alla ricostruzione di materiale storiografico dimostra la sua necessità concreta di cambiare rotta» (Sentieri selvaggi).

In questo senso Peter Jackson segue le orme di Werner Herzog, da molti anni dedito quasi integralmente al documentario. Entrambi probabilmente sono partecipi della convinzione che la mitopoiesi transiti analogamente sia dalla visione della realtà – e di conseguenza da ciò che ci appare come l’essenza della verità si – sia dalla narrazione epica e fantastica. È quindi necessario chiedersi quale sia l’orizzonte di Peter Jackson, al di là della passione musicale, che è evidentemente una dichiarazione partigiana, mentre qui assistiamo alla ricerca di un universale. Nel corso della visione ci si rende conto che Jackson pone, all’interno del flusso temporale delle riprese, alcuni elementi come statici: immediatamente si notano gli adepti Hare Krishna, in attesa di George Harrison, Yoko Ono, ombra di Lennon, e un non detto terrificante, ovvero l’eroina di cui fa uso lo stesso Lennon. A ciò si aggiungono le terrificanti dinamiche del music business, che, come un gigantesco caterpillar, tentano di travolgere qualsiasi elemento artistico o in ogni caso non finalizzato alla conclusione del progetto. Quella dei quattro si rivela quindi una battaglia di resistenza, un tentativo straordinario di portare in alto nella lista delle priorità la musica e l’amicizia, anche se a discapito del lavoro. Di questi elementi non si tratta, se non in particolari situazioni che ne esaltano il valore simbolico, sono il substrato non detto, la sua accusa verso quel mondo. Se l’apriori del lavoro di Peter Jackson fosse stata la ricerca di un cinema-verità, come se si fosse trattato di una sorta di inchiesta, di un meccanismo costruito per restituire alla storia ciò che è accaduto in quelle settimane, e su cui si è lungamente dibattuto anche in modo feroce, tutto ciò in coerenza dovrebbe portarci a concludere che si tratta di un fallimento. Quando scorrono i titoli di coda, ancora una volta lo spettatore è costretto a constatare che le domande rimangono più delle risposte, e che quello che gli è stato mostrato è tutt’altro che una razionale operazione commerciale, quanto piuttosto il tentativo prometeico di mostrare la genesi di un’opera d’arte, l’azione della poiesis che sorge dall’empatia e dall’amicizia tra quattro ragazzi.

Il film è una miniera di informazioni, fatti, idee, racconti. La genesi di alcune delle più belle canzoni del gruppo viene mostrata in diretta, l’uovo si schiude sotto i nostri occhi, ed è come scavare in un giacimento di pietre preziose. Emergono i caratteri e le difficoltà, e il loro dialogo interiore, sia ciò che si dicono sia – soprattutto – quello che tacciono, seppur ben noto a tutti, il narcisismo e il desiderio di intraprendere percorsi individuali, il rancore di Harrison. Eppure, sopra a tutto ciò, è la genesi del processo creativo a restare l’axis mundi del film di Jackson, e quando scorrono i titoli di coda dell’ultima puntata è un grande freddo quello che resta, poiché non sembra vero che davvero tutto sia potuto finire così. Dopo lo scioglimento del gruppo Paul McCartney per decenni è stato visto come una figura ossessionata, causa implicita della fine prematura della band, incapace di accettare la follia creatrice di John Lennon così come la spiritualità vissuta da George Harrison. L’ex ragazzo di Liverpool, permettendone la pubblicazione, ha certamente visto in questo film anche l’occasione della catarsi, la possibilità che gli veniva presentata, ormai anziano e dedito alla memoria e alla nostalgia, di deporre il fardello che ha portato in questi lunghi anni, acuito dalla impossibilità di rivivere ancora una volta il passato con l’uomo della sua vita. D’altronde il film è costellato di momenti in cui è evidente il richiamo di una adolescenza perduta in cui lui e John erano solo due figli della working class che saltavano la scuola per ritrovarsi a scrivere centinaia di canzoni. Pezzi che ancora in quel momento, oltre dieci anni dopo, costituiranno il serbatoio da cui attingere per costruire quello che sarà il loro ultimo album. Paul, supportato in questo da Peter Jackson, che aderisce a questa scelta interpretativa, si dimostra proustianamente alla fine della sua recherche, ma il suo non è certo uno stile primo Novecento, e l’anima libertaria del rock & roll con cui sono cresciuti, con il passare delle ore prende sempre più il sopravvento, e lo spettatore realizza che è quello il luogo in cui le due anime si incontrano, lo spazio sonoro dove gli sguardi si scoprono quelli di due bambini. Nonostante l’India, nonostante Yoko Ono, nonostante il business, il cinema, l’eroina, i soldi, la regina, i bobbies, la EMI, nonostante il mondo intero, restano John & Paul, due quindicenni che suonano il Rock & Roll, e che non sono mai cresciuti: Two of Us. È per questo che Let It Be, Across the Universe, Get Back e Something appaiono come delle canzoncine abbozzate, improvvisate e quasi poco considerate, per poi emergere improvvisamente come le colonne portanti della loro musica. È come se, in fondo, la musica non fosse altro che il modo prediletto da dei ragazzi per stare insieme. Poco importa il risultato, ciò che conta è quello che vedo nei suoi occhi, quello che lui vede nei miei.

———

Immagine di copertina:
fotogramma da Peter Jackson, The Beatles: Get Back, 2021.