[Da qualche giorno ci ha lasciato Sylvère Lotringer, persona straordinaria, docente di letteratura francese alla Columbia University, creatore delle edizioni Semiotext(e), quindi responsabile della divulgazione della French Theory negli Stati Uniti come nessun altro. Autore di testi importanti su Antonin Artaud e altri margini letterari, amico di Jean Baudrillard, Pierre Guyotat, Gary Indiana, David Wojnarowicz e promotore della loro opera e di quella di molti altri autori. Per ricordarlo pubblichiamo il suo intervento apparso nel libro collettivo Louis Wolfson: Cronache da un pianeta infernale, curato da Pietro Barbetta e Enrico Valtellina per Manifestolibri, che ringraziamo. Si tratta di un’intervista con Duccio Fabbri, autore di Squizo, film recente su un autore straordinario come Louis Wolfson. Sylvère lo aveva conosciuto a New York nel periodo raccontato in Mia madre musicista… e lo aveva invitato alla storica convention Schizo culture, a cui parteciparono filosofi francesi come Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jean-François Lyotard, antipsichiatri inglesi e artisti americani come John Cage e William Burroughs. Enrico Valtellina].

Louis Wolfson, Cronache da un pianeta infernale

Full Stop to an Infernal Planet
Sylvère Lotringer (conversazione con Duccio Fabbri per il film Squizo)

Ho sentito parlare di Wolfson come tutti, attraverso il saggio di Deleuze in Critica e clinica. Ed erano notizie di prima mano. Nel 1973 trascorsi un anno in Francia e divenni molto prossimo a Gilles Deleuze, ma soprattutto a Félix Guattari. Ebbi l’idea di organizzare una conferenza, “Schizo-culture”, su manicomi e prigioni. Stavo cercando di mettere insieme filosofi e artisti francesi e americani. Wolfson era un americano che stava scrivendo in francese per il rifiuto, almeno così sembrava, della sua lingua madre, per cui era una situazione che mi sembrava gli fosse perfettamente adeguata. Ho incontrato prima i filosofi francesi in Francia, e mi aveva colpito il fatto che le riflessioni di John Cage, pubblicate in Francia in un libro dal titolo For the Birds (Pour les Oiseaux, che in francese non aveva senso perché significa “per niente”), sembrassero molto prossime ai nietzscheani francesi, Foucault, Deleuze e Guattari, che avevo invitato alla conferenza a New York. For the birds era un libro di interviste con il musicologo francese Daniel Charles, ma Charles aveva perso i nastri originali in inglese. Feci così ritradurre il testo dal francese, e paradossalmente fu il primo libro “francese” che Semiotext(e), una rivista che avevo creato in quel periodo, pubblicò in America. Così l’idea che il francese e l’inglese stessero entrando in una sorta di strana danza era presente fin dall’inizio.
Invitai quindi Louis Wolfson all’evento di quattro giorni che organizzai alla Columbia University, quando vi insegnavo letteratura francese, nell’autunno del 1975. Come Le Schizo et les langues, la conferenza aveva a che fare tanto con la cultura francese quanto con quella inglese, e il tema principale era prigioni e schizofrenia. Erano presenti coi francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari, Michel Foucault e Jean-Francois Lyotard, anche John Cage e William Burroughs, che era appena tornato dall’esilio autoimposto in Inghilterra. Così si potrebbe dire che l’intero evento, che presto si rivelò essere molto polarizzato e rissoso, e che coinvolse, inaspettatamente, circa duemila persone, fu un’estensione del lavoro di Wolfson. Infatti, lo “schizo” fu la prima persona che incontrai arrivando la mattina della conferenza. Vidi un uomo con delle specie di strani aggeggi nelle orecchie (il Walkman non esisteva ancora) in piedi nel corridoio di fronte al muro, apparentemente indifferente a tutto ciò che stava accadendo intorno a lui. Per quanto avevo letto, poteva essere solo Wolfson. Andai da lui e gli proposi di farlo incontrare con Deleuze. Era un contesto perfetto, l’andirivieni continuo tra le lingue, traduzioni su cui la gente non era d’accordo e su cui discuteva animatamente, in un’escalation di violenza da entrambe le parti. L’incapacità di comunicazione tra i filosofi francesi e gli psichiatri radicali e i marxisti a l’américaine era al suo giusto esordio, e ci vollero una o due decadi perché si realizzasse compiutamente.

Il procédé di Wolfson, il procedimento o protocollo che adottò, era in un certo modo qualcosa che sviluppò a New York, e più precisamente nel Bronx, dove è cresciuto. Ed era molto strano per uno come lui, che aspirava a essere uno scrittore, uno studente di lingue, come suggerisce ironicamente nel titolo del suo primo libro, essere trattato come un autistico, o uno psicotico, da persone rispetto a cui si sentiva decisamente superiore. Non era un professionista, in verità, ma era diventato a suo modo un esperto, giocando con una mezza dozzina di lingue al fine di cancellare la sua propria. E lo trovai interessante. Non credo che intendesse dedicare la sua intera vita alla lingua, ma piuttosto che volesse diventarne padrone (master). E penso che, attraverso il suo protocollo, non volesse solo imparare le lingue, ma piuttosto sperasse di trasformarle in una sua creazione. E questo avvenne tra i due libri che ha scritto. Era “uno studente di lingue”, poi, dopo la morte, sua madre divenne il mondo. In ciò è qualcosa di simile a quello che Allen Ginsberg aveva fatto con “Howl”. Il suo urlo fu così forte che soffiò via la madre. E quando si ammalò di cancro, avvenne miracolosamente per giustificare la sua ipotesi sulla natura cancerosa del mondo intero, e sulla sua necessaria destinazione verso lo stadio terminale, il suo punto finale.

Come Rimbaud, Wolfson voleva diventare un altro. Quello che mi ha colpito quando ho letto Le Schizo era il fatto che stava parlando di se stesso in terza persona, come se stesse parlando di qualcun altro. Quello che mi interessava non era tanto il procedimento linguistico che Deleuze ha analizzato, quanto la posizione che Wolfson prendeva in relazione al linguaggio. Il fatto che parlava la lingua di altri, che stava raccogliendo la posizione degli altri contro se stesso. Mi ha fatto pensare non solo ad Artaud e a tutti gli schizofrenici emergenti, ma a Kafka. Kafka ha detto una cosa che mi ha sempre turbato: “Nella lotta fra te stesso e il mondo, asseconda il mondo”.

Deleuze ha scritto su Wolfson al meglio quando non ne scrive direttamente. Quello che mi ha sorpreso è stato che Deleuze sembrava valutare la qualità del delirio di Wolfson mettendola in raffronto con altri noti scrittori irregolari che trasformarono la lingua in una esperienza delirante, come Pierre Brisset e Raymond Roussel. Penso che Kafka sarebbe il primo scrittore-schizo che userei perché Wolfson assecondò, si schierò con il mondo, al punto di diventare più esperto di schizofrenia di quanto mai sia riuscito agli psichiatri stessi.
Nel suo saggio Per farla finita con il giudizio, in cui non menziona Wolfson, Deleuze ne dice cose massimamente penetranti. Quello che ha scritto sul ‘combattimento’, in contrapposizione alla guerra, penso che si adatti perfettamente a ciò che lo studente schizofrenico stava cercando di fare. Wolfson non era in guerra con sua madre, non era in guerra con la sua cultura, ma li stava assecondando, schierandosi dalla parte della madre e con gli psichiatri con una lingua che non era la sua, con cui non era in guerra, ma con cui stava cercando il combattimento. Nel corso di tale processo, è diventato più madre che la madre stessa, è diventato più psichiatra che gli psichiatri stessi, e infatti li rendeva tutti impotenti. Invece di esserne invaso, li invase, invase la madre, invase la lingua inglese, che era la sua lingua madre. E ricorse al francese per invadere l’inglese, non per distruggerlo, ma per riappropriarsene. Wolfson ha provato a diventare schizofrenico perché non lo era. Stava solo cercando di ribaltare a suo favore l’etichetta che gli era stata imposta. Portava la schizofrenia come un distintivo, come un titre de noblesse, al fine di autorizzarsi a scrivere. Artaud non stava cercando di distruggere Dio, ma era il suo giudizio ciò contro cui scatenava la sua rabbia, e per questo doveva diventare Dio stesso.
Ciò che ha reso famoso Wolfson non era quello che Deleuze ha scritto di lui, ma quello che ha scritto su altri scrittori. Qui c’era uno spostamento. Wolfson è dovuto passare attraverso la lingua francese, per diventare uno scrittore, così come Deleuze è dovuto passare attraverso Artaud per parlare di Wolfson. Lo scopo di Artaud non era quello di distruggere Dio più di quanto quello di Wolfson fosse di distruggere la sua lingua madre, per non parlare di sua madre, ma di riappropriarsene. David Rattray, che è stato il migliore traduttore di Artaud, mi chiese una volta se poteva accorciare il titolo di Artaud, Per farla finita col giudizio di Dio e tradurlo più direttamente con “Per farla finita con Dio”. E certamente avrebbe avuto più impatto, ma la verità è che Artaud voleva farla finita col giudizio, non con Dio. Artaud aveva bisogno di Dio per combatterlo. Così dissi a Rattray di andare avanti e abbreviare il titolo, ci teneva molto che Artaud la facesse finita con Dio. Un traduttore di prima mano può permettersi di essere un traditore. E non mi sono mai pentito che egli l’abbia fatta finita con Dio per Artaud. Rattray è rimasto fedele alla rabbia che Artaud gli aveva comunicato, come la peste. E poi, come Artaud ha osservato altrove, chi ha mai detto che ci sia mai stato un giudizio primo con cui cominciare.
Benché Artaud abbia proclamato “l’abolizione della Croce”, aveva bisogno di Dio per poterlo fare. E lo stesso accade con Wolfson. Aveva bisogno del francese per eradicare la lingua inglese perché non si sentiva titolato a scrivere nella sua lingua madre. Era una questione di titolarità. Non era titolato ad essere normale, e doveva studiare tutte queste enciclopedie e libri di medicina per sapere che cosa la schizofrenia fosse per gli psichiatri, e quindi utilizzare il loro linguaggio per parlare di se stesso. Ma quando ha utilizzato quella lingua, non stava condannando se stesso, stava dandosi la licenza di ridere del modo semplicistico in cui gli psichiatri parlavano degli schizofrenici, come gli scimpanzé di Kafka prendono in giro l’accademia mostrandogli il culo. Wolfson voleva diventare un vero schizofrenico come Artaud, e non il tipo che gli psichiatri stavano descrivendo nei loro libri.
Per Wolfson, rivendicare il distintivo della schizofrenia significava ricorrere, per rivolgersi ai dottori a quello che Artaud chiama “umorismo letterale radicale”, un umorismo tanto tagliente da diventare impercettibile. Era il tipo di umorismo che coltivava Kafka stesso, così che non si poteva sapere con certezza se stesse prendendo in giro quello di cui stava scrivendo o assecondando il suo valore nominale. Mi fa pensare a ciò che Henri Pichette mi ha raccontato di Antonin Artaud. Pichette era un giovane e promettente drammaturgo quando incontrò Artaud poco dopo la sua dismissione dal manicomio di Rodez, e quello che mi ha detto è stata una di quelle chiavi che spalancano la porta. A volte è bene avere una frase che ti mette nella giusta posizione in relazione al lavoro. Da lì non c’è più bisogno di interpretarlo o di criticarlo. Tutto diventa di una chiarezza cristallina. Come in un’anamorfosi, il dipinto appare per ciò che è solo se lo guardi da un determinato punto di vista. Se si guarda da qualsiasi altra posizione non si vede ciò che è nascosto. E la frase più illuminante che io abbia mai sentito su Artaud è stata quella riferitami da Henri Pichette. Mi disse: “Se si pensa a quanto fossero limitate le risorse di Artaud, è incredibile quanto sia riuscito a fare”. Forse Pichette si stava prendendo gioco di me? Il suo giudizio era l’esatto opposto di ciò che tutti avevano detto su Artaud. Ma poi si è rivelato illuminante. Mi ha permesso di pensare ad Artaud in modo differente. È vero che Artaud balbettava, inciampava, il suo corpo era in un dolore totale, camminava come un automa, era un pessimo attore, e poteva rappresentare solo se stesso in qualunque pièce o film in cui si trovasse. Pichette non intendeva sminuire Artaud, voleva mostrare quanto Artaud abbia dovuto lottare per creare il suo proprio lavoro, se mai vi sia riuscito.
Artaud ha dovuto combattere con se stesso per riuscire in qualunque cosa. Ha dovuto diffidare della propria mente, controllare le sue parole per assicurarsi che realmente appartenessero a lui. Doveva fare tabula rasa di tutto ciò che pensava fino a quando non era veramente convinto che qualcun altro non gli stesse suggerendo. È come la politica della terra bruciata, i russi in ritirata di fronte agli eserciti di Napoleone che bruciano ogni cosa alle loro spalle per prevenire la distruzione. Era un combattimento, vedi, un combattimento, non una guerra. Ed è esattamente quello che Wolfson ha fatto con il linguaggio, con la psichiatria, con sua madre. Ha deterritorializzato tutto, ha preso la posizione che gli altri avevano quando lo stavano giudicando e ha diffidato del suo linguaggio, fino a quando lo ha ricreato da frammenti e pezzi strappati agli altri linguaggi. Il suo inglese era terra bruciata e prese così a deterritorializzarlo fino a che fu preservato nel francese e in altre lingue. E la metamorfosi stessa era solo transizionale. Deleuze si sbagliava quando si rammaricava del delirio originale di Wolfson. Quando Wolfson spende quaranta o sessanta pagine per parlare della parola “believe”, è come Artaud che si costringe a ispezionare ogni singola sinapsi nel suo cervello per essere sicuro che ciò che stava pensando fosse realmente il suo pensiero. Come Wolfson, si sentiva spossessato del proprio linguaggio.

L’aspetto grammaticale nella scrittura di Wolfson non era davvero l’essenziale, non più di quanto le Parole inglesi fossero davvero ciò che interessava Mallarmé (che scrisse un trattato sulle parole inglesi dallo stesso titolo). Era ciò che era accaduto alle parole francesi ad essere oggetto della sua preoccupazione, e come estrarre dal francese qualcosa di equivalente al latino della messa. Penso che sarebbe più interessante confrontare l’ambizione di Brisset a reinventare il linguaggio partendo dal francese, e non dal latino, con il desiderio manifestato da Mallarmé di “remunerare il default del linguaggio” le carenze della lingua francese. Perché voleva farlo? Perché il francese era diventato un linguaggio inadatto a essere usato come lingua sacra, come poesia, come musica in una messa cattolica. La lingua stava diventando profana, era utilizzata per comunicare. Era diventata il linguaggio della “tribù”, dei giornali, del commercio.
Così Mallarmé, dolorosamente, ha dovuto creare un linguaggio che non sarebbe stato francese, ma il francese come l’avrebbe creato Dio, una sorta di latino in francese. Voleva ricreare dal francese il latino che il francese aveva perduto così come Brisset voleva separare il francese dal latino e restituirlo ai francesi. Il francese non era nato dal latino, era nato da sé, autotelico. Un linguaggio assolutamente puro. Ed è quello che anche Wolfson voleva fare: voleva purificare l’inglese così da potervi trovare il suo posto. Ma per riuscirci doveva farlo a pezzi, farlo sparire ricoprendolo con altri idiomi. Sterminando la propria lingua, Wolfson si è dato l’autorità, la titolazione di cui aveva bisogno per iniziare a scrivere in francese. L’inglese, sua lingua madre, era una lingua in cui è stato giudicato inadatto a essere uno scrittore, ed è per questo che al suo posto adottò il francese.
Non è stato l’unico ad averlo fatto. Molti scrittori americani, a partire da Hemingway, sono andati a Parigi per sentirsi titolati a scrivere in inglese. C’era bisogno di una distanza. Paradossalmente Wolfson andò a Parigi stando a Brooklyn, si è esiliato nel suo paese, nella sua lingua. Eppure, in ultima analisi, ciò che voleva era scrivere un libro su Ma Mère.
Le schizo et la langue non era un libro sul linguaggio, era un libro su come diventare uno scrittore, ma non era quello il tipo di scrittura che intendeva realizzare. Wolfson ci ha dato un protocollo di trasformazione, una grammatica come Les Mots anglais di Mallarmé, ma scritto in francese. Il suo libro si sarebbe potuto chiamare French Words. Ma è riuscito ad estrarne solo una narrazione a getti. La trasformazione linguistica si impone nel libro. Prima di incontrare Wolfson, gli ho scritto in francese e ho cominciato a parlargli in francese al telefono. Ed egli mi disse: “Non c’è bisogno di parlarmi in francese, non parli inglese?”. Risposi: “Come? Non parla più francese?”, riprese, “No, perché? Posso parlare inglese”.

Doveva essere il periodo in cui ha iniziato a scrivere Ma Mère. Era riuscito a uccidere simbolicamente sua madre, a eradicare in se stesso ciò che le doveva. E questo ancor prima di sapere che sarebbe morta di cancro. La madre divenne la sua nuova narrazione. Lei divenne lui, lo nutriva in modo che potesse diventare lo scrittore che voleva essere. Questo è ciò che Wolfson ha tentato di fare con il suo primo libro: darsi un linguaggio in cui avrebbe potuto scrivere come scrittore. Non credo che fosse un tentativo di distruggere la lingua di sua madre, ha dovuto passare attraverso la lingua madre per padroneggiare la propria e dire la verità infernale sul mondo. Su un mondo che era avviato ad auto-distruggersi, a distruggere se stesso con le radiazioni, con un’esplosione atomica. E quando sua madre miracolosamente divenne cancerosa, si aprì una nuova fase nella sua vita, che che le avrebbe permesso di essere miracolosamente trasformata in arte.
In Le schizo et la langue, stava cercando di scrivere la sua biografia, ma che infine sarebbe stata qualcosa di molto più che la sua. Questa era un’altra ragione per parlare di sé in terza persona. Gli ha permesso di fare della sua vita e della sua relazione con la madre qualcosa che stava al di fuori di loro e che riguardava l’intero universo. E credo che in ciò stia la bellezza del suo tentativo. Ed è per questo che non è importante valutare i suoi libri nei termini della qualità del linguaggio. Ciò che voleva era trasformare la sua vita in arte, e dovette passare attraverso quel processo per riuscirci.
Voglio parlare ancora di Artaud in relazione a Wolfson e di entrambi in relazione alla psichiatria. Sulla via del ritorno dall’Irlanda, dove affermò di restituire il bastone di San Patrizio agli irlandesi, Artaud, in stato di delirio, venne rinchiuso nel manicomio di Sainte-Anne a Parigi per circa sei mesi. Sainte-Anne funzionava come centrale di smistamento per i malati di mente e lo scopo di questi soggiorni era quello di valutarli e dirigerli verso l’istituzione più appropriata. Jacques Lacan era tra quelli che vedevano i pazienti e aveva ideato un modo molto opportuno per farlo, che chiamò: “interviste veloci (fast interviews)”, proprio come il fast food. Avrebbe parlato con il paziente per cinque minuti ed espresso il suo giudizio. E il giudizio era definitivo, proprio come il giudizio di Dio. Così sottopose Artaud alla breve visita, quindi emise il suo referto: “Questo paziente è finito, il suo delirio è fissato. Non potrà mai più scrivere”. L’idea di Lacan era che tutto ciò che Artaud avrebbe potuto fare in seguito era ripetere la stessa storia, ma sarebbe stato incapace di qualsiasi atto di innovazione. Quello che non aveva previsto era che, una volta trasferito nel manicomio di Rodez, ad Artaud sarebbero stati somministrati elettroshock in dose massiccia e che questi avrebbero allentato il delirio, e la sua capacità di innovazione. Ciò non significa che Artaud sia stato liberato dal suo delirio, ma che divenne in grado di usarlo in modo più creativo. Il dottor Ferdière, il direttore del manicomio, diede nome a questa condizione: parafrenia. Marthe Robert, la giovane amica di Artaud, che fu determinante per farlo liberare da Rodez, mi ha raccontato anni dopo di una passeggiata che fece con lui a Parigi. Artaud si lanciava in racconti deliranti: “Quando sono stato inchiodato sulla croce duemila anni fa…” Poi spiegava che non era Cristo stesso, ma uno dei due ladroni crocifissi con lui. E Marthe Robert, che lo conosceva bene, gli disse: “Allons Artaud, è abbastanza”, al che lui rispose: “Va bene, va bene…”. Voleva solo testare se lei pensava che fosse pazzo, cosa che non gli ha impedito di venire da lei considerato un pazzo autentico.
E questo mi riporta a Wolfson. Wolfson non voleva sciogliere la lingua in modo metaforico, stava prendendo una posizione nei confronti di linguaggio che ha permesso di essere più di quello che era. Ha usato il linguaggio per trasformarlo in qualcos’altro. Non voleva essere un grammatico, una finalità per lui troppo limitata. Non voleva diventare uno psichiatra, la psichiatria era una scienza troppo inesatta, allo stesso modo in cui la Langue era un costrutto impreciso. Quello che voleva fare era remunerare il “default”, il difetto della lingua, il default della psichiatria. E doveva remunerare il default di essere nato americano quando in realtà avrebbe voluto nascere in qualunque altro posto e, perché no, essere uno scrittore francese. O avrebbe voluto essere nella posizione dello scrittore americano, un expat, un esule: espatriarsi. Così si è esiliato nel suo paese, nella sua lingua. Invece di andare in Francia come Hemingway, è rimasto negli Stati Uniti e ha svuotato la lingua di fronte a lui e ha svuotato questa donna, la madre, di fronte a lui, fino a quando è riuscito a trovare una giusta posizione da cui potesse scrivere.
Wolfson non aveva titolo per scrivere nella sua lingua e nel proprio paese perché era stato condannato dalla società ad essere un imbecille, uno schizofrenico. Era, ovviamente, molto intelligente, ed era sempre il primo in tutto ciò che faceva. Ma aveva adottato il punto di vista della società contro di lui. Se egli non aveva titolo per scrivere nella sua lingua madre, allora avrebbe scritto in una lingua propria, che avrebbe compreso una serie di altre lingue. Avrebbe trovato un modo per scrivere in inglese in absentia, sostituendolo con pezzi di altre lingue, e per lo stesso motivo doveva diventare un esperto in lingue. Un simile detour gli era necessario.
Ed è una cosa che meraviglia. Che divenne un miracolo, la sua vita, incluso vincere cinque milioni di dollari alla lotteria e perderli con la stessa velocità. Tutto nella sua metamorfosi in scrittore fece in modo che la sua vita confermasse il proprio delirio. Ed è quello che è successo anche ad Artaud. Il delirio non è una fantasia, la vita stessa diventa il delirio, il delirio diviene un modo per diventare se stessi. Sai, occupando una posizione che non ha mai avuto la possibilità di occupare in precedenza, così che la sua vita divenne il suo delirio.

Wolfson è riuscito a trasformare il grammatico in un enciclopedista e l’esperto di lingue in uno scrittore, che è quello che voleva essere. E non è che volesse solo essere uno scrittore, ma anche prendere la sua vendetta contro ciò che la vita lo aveva costretto ad essere. Qualcuno che si ritiene essere deficiente, che si ritiene essere un imbecille, qualcuno che avrebbe dovuto essere anormale. Se era anormale, allora avrebbe sfidato il mondo ad essere più anormale di lui, così che sarebbe stato l’unico sano di mente in un mondo impazzito.
E aveva senz’altro ragione. Viviamo in un mondo che si sta autodistruggendo. Stiamo creando il tipo di mondo che corrisponde alla profezia di Wolfson sulla fine-del-mondo e che dà al giudizio di Wolfson sulla società che lo circonda l’anello della verità. Ed è riuscito nella sua vita ad essere l’unico il cui giudizio si adatta ad un mondo in cui si è trovato per errore.

Deleuze ha detto che il pensiero non viene fuori dal niente, procede sempre da una situazione data. Deve essere impegnato in un contesto determinato che problematizzi ciò che si pensa. Wolfson non parlava nel vuoto. Alla fine degli anni sessanta e settanta improvvisamente la follia è diventata un problema. Non un problema per la psichiatria, ma la psichiatria stessa era diventata qualcosa che doveva essere problematizzato. Allo stesso modo in cui Foucault aveva iniziato a fare questione delle carceri. “Perché mettiamo la gente nelle galere? Sono sempre esistite o sono apparse per accidente?” (Vennero create dalla polizia francese). Si mette in questione l’ovvio, perché l’ovvio è esattamente quello che non possiamo vedere. Si deve prenderne distanza. Bisogna tornare un po’ indietro nella storia per essere in grado di vedere ciò che il presente è veramente, al fine di problematizzare il presente che si sta sperimentando.
E negli anni settanta, improvvisamente si fece questione di molte cose che erano date per scontate nella società, l’idea che la follia è il folle, che il carcere è legittimo. E furono questioni per lo più sollevate da Michel Foucault, all’inizio, ma R. D. Laing e David Cooper contemporaneamente avevano portato attenzione agli stessi temi in Inghilterra, ricorrendo all’esistenzialismo come base per la loro riflessione. All’improvviso ci fu la sensazione che molte distinzioni che erano state date per scontate stavano cominciando a dissolversi. Era l’inizio di un processo di deterritorializzazione. La società dei consumi stava avanzando, il capitale aveva cominciato ad abolire tutte le barriere tra le classi, tra i generi, tra ciò che è permesso e ciò che non lo era, tra privato e pubblico.
Era in questo periodo che la follia divenne essenziale, perché per lungo tempo la follia è stata un modo per sapere ciò che era la normalità. Così, quando si è cominciato a fare questione della follia, di fatto la normalità perse ogni criterio per definire se stessa. E ciò ha attraversato la liberazione della follia. Era un tempo in cui la gente cominciava a guardare le istituzioni manicomiali domandandosi cosa avevamo fatto con queste persone, o meglio a queste persone, perché ciò che avevamo fatto era “renderli pazzi”, trasformarli in folli, rifiuti istituzionali. Lasciati soli sarebbero riusciti a tirare avanti.
New York era una città tanto meravigliosa perché niente, al tempo, era “normale”. Si poteva vedere la gente in pigiama che andava a fare compere e dire “ok, questo è ciò che vuole. Non c’è problema”. E si poteva incontrare gente nelle cabine del telefono che parlava con Dio, e Dio era in linea, o forse no. Non erano fatti che riguardassero gli altri. Ma sposta questi “eccentrici” in un villaggio a Perigueux in Francia o a Fairfield in Iowa e verrebbero immediatamente messi in galera o in un manicomio. New York era un posto così affascinante perché era rovinata e a pezzi e la follia era scatenata. Tutta la città era folle, ma nessuno faceva caso alla follia degli altri. Si badava a se stessi e si lasciava che ciò che doveva accadere accadesse.
In Francia, in Inghilterra, in paesi che erano molto più strutturati, molto più storicamente fondati dell’America, si stava verificando una specie di allentamento. Fino ad allora sapevamo quello che la gente pensava delle prigioni, ma non sapevamo cosa ne pensassero i prigionieri. Sapevamo quello che gli psichiatri pensavano della follia, ma non sapevamo cosa i pazzi pensassero delle istituzioni per malati di mente in cui erano rinchiusi. Artaud è stato uno dei primi a mettere in discussione le prerogative degli psichiatri. Dimesso da Rodez nel 1946, passava il suo tempo a infuriarsi contro di loro, e questo è esattamente ciò che molte persone stavano facendo negli anni settanta. Non c’era più ragione per tenere qualcuno in manicomio, nessuna ragione per tenere qualcuno in prigione.

Di fatto, gli psichiatri francesi scoprirono ciò quando tornarono dalla guerra. Uno di loro, Tosquelle, era stato in un campo di prigionia in Germania, e quando tornò comprese che il manicomio era un campo di concentramento. I pazienti psichiatrici erano malnutriti durante la guerra, ottantamila malati mentali vennero uccisi dalla fame. Di regola nei manicomi francesi i pazienti non venivano trattati, ma semplicemente lasciati marcire. Si limitavano a tenerli fuori dal mondo. Gli veniva negato qualsiasi valore. Non c’era nessuno che li ascoltasse. Erano in realtà i depositari di alcune verità sulla società, ma nessuno le voleva ascoltare. E negli anni Settanta, improvvisamente, le voci che uscivano dalle prigioni e dai manicomi hanno iniziato ad essere ascoltate. Questo è ciò di cui si occupava la conferenza “Schizo-Culture” a New York. In Italia gli operaisti ascoltarono le voci dei giovani lavoratori del sud rinchiusi nelle fabbriche della Fiat e costretti nelle catene di montaggio. E questi giovani protestarono ad alta voce. “No, non vogliamo stare in catena di montaggio, non vogliamo vivere come schiavi. Vogliamo una vita!”
E anche il paziente mentale voleva vivere, i prigionieri volevano vivere, e la divisione tra ciò che era represso e ciò che non era represso, veniva messa in discussione. Le delimitazioni stavano crollando. La follia stava diventando parte della società. Tutti loro reclamavano il diritto a vivere in società, e a dire qualcosa sulla società più vero di quanto potrebbe dirne chi viene considerato normale. Era un contesto sociale in cui sia la follia che la prigione erano state messe a nudo. Gente come Foucault e Guattari chiedevano di liberare i pazienti mentali dai manicomi, per dar loro la possibilità di vivere in ciò che Ronald D. Laing ha chiamato case a metà strada (halfway houses), luoghi in cui le persone considerate folli potevano essere protette dalla società. Sarebbero stati nella società, non fuori, ma dovevano essere difesi contro la mancanza di titolazione (entitlement), il giudizio di cui erano stati gravati e la repressione che avrebbero sperimentato se fossero stati abbandonati nella società senza venirne protetti. Era la società che costituiva il problema, era la società ad essere pazza, e si doveva proteggerne i matti.
In un tale contesto per esempio Jean Paul Sartre pubblicò in Les Temps Modernes un pezzo chiamato L’uomo col magnetofono, di Jean-Jacques Abrahams. Era stato diagnosticato schizofrenico e seguiva incontri con uno psichiatra. Un giorno gli venne questa strana idea di portare un magnetofono, un piccolo apparecchio, nella sua analisi, e ciò che seguì fu decisamente strano. Lo psichiatra gli impedì di usarlo. Così Abrahams disse “no, no, voglio registrare la nostra conversazione”, lo psichiatra tentò di afferrare la macchina e lui: “Non voglio!” Era come un film muto, in cui si rincorrevano intorno a un tavolo dello studio dello psichiatra a Bruxelles. Lo psichiatra stava cercando di prendere la macchina e urlava al paziente, minacciando di chiamare la polizia. E mentre tutto questo accadeva, la piccola macchina stava quietamente registrando tutto. È stato il primo documento antipsichiatrico. Con una piccola macchina, il paziente è riuscito a portare in luce l’intero aspetto repressivo della psichiatria.
La macchina era lì a parlare al posto del paziente. E ciò che la macchina ributtava era in effetti il discorso dello psichiatra arrabbiato. Dietro il paziente c’è sempre uno psichiatra, dietro il poliziotto, c’è sempre un carcere. E ciò che avevamo là era il linguaggio reale, il linguaggio folle di una società che deve condannare la follia, a diventare follia, e condannare i prigionieri a diventare criminali. Le prigioni rendevano i criminali criminali, il manicomio trasforma lo schizofrenico, lo schizofrenico florido e inventivo, lo schizofrenico con accesso a tutto il mondo, all’intero cosmo, e che ha una visione di ciò che la società in realtà è, in un oggetto psichiatrico, in un internato psichiatrico, in un catatonico, qualcosa di cui gli psichiatri possano parlare tra di loro. E gli schizofrenici dovevano al riguardo rimanere muti.
Nei tardi anni sessanta e settanta, tutti i manicomi d’Europa si aprirono. Ricordo quando andai con Guattari in Italia, al manicomio di Basaglia a Trieste. Franco Basaglia aveva aperto l’istituzione, ma erano rimasti ancora alcuni pazienti residenti che ci guardavano, ci guardavano andare su e giù per la collina su cui è sito l’istituto e in cui si teneva la conferenza. E i pazienti ci guardavano e pensavano “cosa stanno facendo? cosa vogliono?” Si supponeva che dovessimo parlare di follia, e i folli erano proprio lì che ci guardano senza dire niente.
Negli Stati Uniti, quello che è successo è che hanno aperto tutte le istituzioni, venduto gli edifici per enormi quantità di denaro (New York era in pieno boom edilizio, il neoliberismo era in marcia, e buttarono fuori i pazienti limitandosi a imbottirli di cose chimiche per tenere sotto controllo il loro delirio. Laing avrebbe voluto che fossero istituite delle case a metà strada, halfway houses, dove potessero rifugiarsi contro la società, ma gli psichiatri si limitarono a gettarli nel mondo senza supporto. Fecero alla lettera quello che volevano gli antipsichiatri: “Vuoi liberare la follia, sii mio ospite!” New York improvvisamente divenne il ricettacolo di tutti i pazienti mentali espulsi dagli istituti e che divennero come homeless che ciondolavano ovunque, in metropolitana, in strada. Divennero oggetti istituzionali senza il costo dell’istituzione. Così sono diventati i folli che la società voleva che fossero, persone che non erano titolate ad essere niente.
Era anche il tempo dei movimenti di liberazione: liberazione delle donne, liberazione dal lavoro, liberazione dalla società. E, naturalmente, la società ha girato tutto in senso inverso. Sei contro la censura? Bene. L’intera società diventerà pornografica. Non c’era alcun motivo per reprimere qualcosa perché società stessa aveva trasformato la repressione nella normalità. Non erano più necessarie le istituzioni psichiatriche, perché tutta la società era diventata un manicomio.
Anche Wolfson aveva con sé una piccola macchina. Per primo ha anticipato il Walkman. Stava, in effetti, anticipando ciò che adesso chiamiamo normale, tutti ora sono in multitasking, incollati al computer. Sempre sempre con un input, un output da un programma, passando costantemente dal cellulare all’iPod, sentendo voci, le molte voci del Grande Fratello… Siamo diventati tutti schizofrenici! Wolfson non era matto, era semplicemente un po’ più avanti del suo tempo, della cultura tecno-capitalista che stava per manifestarsi. Aveva già anticipato che l’unico modo per essere normali in una società anormale sarebbe stato diventare anormale a propria volta, secondo il modo in cui la società voleva che tu lo fossi. Aveva girato il tavolo della società, così come Abrahams aveva fatto con il suo psichiatra.
E le macchine stesse, ciò che erano considerate le macchine al tempo, sarebbero diventate più umane di noi, perché avrebbero anticipato ogni cosa. La borsa valori, il cuore del sistema capitalistico, non sarebbe stato gestito da persone, ma da macchine elettroniche. E le macchine sarebbero diventate troppo veloci perché se ne possa tenere il loro passo. Non solo traducono quello che stiamo dicendo, ma anticipando quello che diremo. Le macchine sarebbero state più avanti di noi. E essere umani adesso significa fondamentalmente essere schizofrenici. In altre parole per farsi parte dell’enorme macchina che la società è diventata, bisogna diventare macchinici. Dobbiamo abitare un pianeta infernale senza termine.
In questo pianeta la tecnologia avrebbe dovuto aiutarci a diventare onnipotenti, tanto potenti da farci lentamente scomparire. Wolfson era troppo presente al modo in cui la nostra società si sta evolvendo, perché la sua scrittura allora potesse essere tollerata.
Essere uno studente di schizofrenia significava essere uno studente della società in cui ciascuno stava diventando schizofrenico. Ed era l’unico a capire che la sua follia non era solo sua, ma era una follia che la società non era disposta a riconoscere a sé. La nevrosi pervasiva era una difesa contro l’universo psicotico che avevamo creato.

Sto cercando di ricordare l’aspetto di Wolfson. La cosa strana è che quello che ricordo meglio è quando l’ho visto girare il viso alla parete durante la conferenza “Schizo-Culture”. Ricordo la sua schiena, mi è sempre molto difficile ricordare il suo volto. E più ci provo, più tende a scomparire. Ho difficoltà a ricordare i nostri incontri. È è come se non avesse una faccia, come se stesse svanendo. Burroughs chiamava se stesso hombre invisible, l’uomo invisibile. Appariva così normale che svaniva nella folla. Questo mi ricorda un cameraman per il procuratore distrettuale di Brooklyn con cui ho lavorato per qualche anno, che aveva ideato una tecnica per rendersi tanto familiare alle persone che doveva riprendere da scomparire ai loro occhi.
E questa è una sensazione che provo ora quando cerco di ricordare Wolfson. Posso vedere dove ci siamo incontrati, se ci penso. Era in un negozio di riviste all’angolo tra la settima avenue e la dodicesima strada a Manhattan, dove sembra si fosse trasferito al tempo, ricordo il negozio, ma lui non riesco a visualizzarlo. È come se il mio sguardo lo avesse attraversato. Ciò che più ricordo è una telefonata di quelle che ci scambiavamo di quando in quando. Erano così “wolfsoniane”. Ricevevo una chiamata inattesa, e cominciava a parlare come se riprendesse una conversazione in corso, come se non avessimo mai smesso di essere in contatto e volesse solo raccontarmi cosa gli girava per la testa e dibattere tra sé per poi staccare allo stesso modo. L’hombre invisible.
E quello che stavo vedendo attraverso di lui era New York, e attraverso la sua voce non era la sua voce che stavo ascoltando, ma il linguaggio che stava parlando. Parlando in francese, parlando in inglese, non è più importante. Quello che diceva scompariva esattamente come lui. Abbiamo parlato del suo manoscritto qualche volta, naturalmente. A proposito del suo nuovo libro che non era davvero nuovo. Il modo migliore per descrivere Wolfson è che è riuscito rendersi anonimo.
Parlare con lui al telefono era probabilmente il modo per averlo più presente. Pensiamo sempre che le persone siano riconoscibili dal loro volto, ma penso che il suo volto non fosse esattamente ciò che egli era. Forse non era nemmeno il suo. Il modo migliore per descrivere Wolfson è che gli è riuscito di rendersi anonimo. Abbiamo parlato del suo manoscritto varie volte, naturalmente. Voleva che lo pubblicassi. Ma il nuovo libro non era in effetti nuovo. Il titolo era Full stop to an infernal planet. E mi spedì una bozza corposa (in francese) che aveva appena ricevuto dalla Germania, ed era lo stesso libro, ad eccezione di alcuni passaggi apocalittici sulla bomba atomica e la distruzione del pianeta, che ho pubblicato nel numero di Semiotext(e) dedicato a “Schizo-Culture”. E mi ricordai Lacan e la sua diagnosi “veloce”. Sembrava che anche il delirio di Wolfson fosse fissato.
Disse, tra l’altro, che la madre era morta di cancro nel 1977. Morì nel momento in cui era finito il suo apprendistato come scrittore e come psichiatra, e poteva iniziare a scrivere. E lo fece. Cominciò a scrivere come il cancro stesso, metastatizzando il corpo del linguaggio. Così come Mallarmé ha gettato i dadi in faccia al caso e trasformato il linguaggio quotidiano in una massa bianca, come Rimbaud è riuscito a trasformare la sua vita in poesia e non avere più bisogno di scrivere, e condurre la vita di qualcun altro. Per Wolfson è stato il contrario e tutto quello che ha fatto prima di diventare un altro gli ha permesso di essere quello scrittore incredibile che è.
E ha cominciato a scrivere un libro completamente differente dedicato a sua madre. Immagino che la morte di sua madre lo abbia sbloccato in tempo, come gli elettroshock avevano fatto con Artaud. Scrisse Mia madre, musicista, è morta di malattia maligna martedì a mezzanotte nella metà di maggio nel moritorio del Memorial a Manhattan.

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Immagine di copertina:
un ritratto di Sylvère Lotringer del 2010, da The European Graduate School / EGS.