Unità stratigrafiche di Laura Liberale (Arcipelago Itaca, 2021) è un bel libro. E come tutte le cose belle, appare immediatamente tale; ecco la prima impressione. Ma è davvero un bel libro, e appare tale anche privato del primo abbaglio: lo riapri, rileggi qualche verso che ti è particolarmente piaciuto (perché ti tocca, a volte ti strattona), rileggi qualche passo non proprio a te chiaro: ricerchi. Dopo una prima lettura, più che risposte il volume ti pone domande; così come a seguito della seconda; alla terza, non placandosi la curiosità per il lavoro di scavo che la silloge propone, contatti l’autrice. Lei la trovi gentile come ti aspetti, risponde alle tue domande, riapre faglie semantiche nella rilettura: non c’è che dire, è davvero un bel libro Unità stratigrafiche di Laura Liberale.

Laura Liberale, Unità stratigrafiche

Il seguente lavoro di recensione si avvale della collaborazione dell’autrice, la quale ha risposto a una serie di domande.
Il libro è diviso in tre sezioni più una quarta dal titolo Fuori sezione Per F.B. (1998-2020). Le tre sezioni si intitolano rispettivamente Tanatoestetica, I Mezzi, Animal-Animot-Animort.
L’autrice è tanatologa, una studiosa della morte.
Cosa significa studiare la morte? Cosa offre la morte a chi la studia?
E la risposta è stata la seguente:

I miei studi sono di tipo filosofico-antropologico e l’interesse per la morte e il morire è, anzitutto, personale, esperienziale. “Studiare la morte”: si studiano le rappresentazioni della morte, la letteratura intorno a essa, i discorsi, le narrazioni, i vissuti, il rimosso, i rituali, gli approcci al mistero. Questo “studio” elargisce molti doni: primo fra tutti un costante, impegnativo lavoro su sé stessi.

Vero. Sapere di dover morire è un impegnativo lavoro su sé stessi, su cosa fare di sé stessi, su come recuperare il rapporto coi morti: spesso non ce ne ricordiamo, socialmente tentiamo di rimuovere la morte, mentre il memento mori potrebbe divenire una possibilità di vita.
Nella raccolta appaiono con frequenza i morti e la morte; mi sento di domandare:
La parola “morte” ricorre molto spesso; è necessario a suo avviso dire la morte, non usare eufemismi nei suoi confronti? Può essa oggi, studiandola, far meno paura? (voglio dire: stare vicino ai morti – ne sono sicuro – ci migliora umanamente: è certamente un bene non rimuoverla dalla vita, lei cosa vorrebbe dire a riguardo?)

E Laura:
Gli eufemismi, così come le tabuizzazioni linguistiche, fanno parte di quelle tecniche umanissime (e antichissime) di “domesticazione” del negativo, del minaccioso, dell’ignoto. Ma oggi più che mai è necessario un lavoro di ri-comprensione di tutto il campo semantico della morte nel nostro linguaggio e nel nostro ragionamento. Evitare l’evitamento, le dicotomie; fronteggiare le nostre paure; attivare percorsi educativi sin dalla prima infanzia (la cosiddetta Death Education); riallargare lo sguardo a includere la visione della nostra mortalità (dove “mortalità” non significa necessariamente “transitorietà”); recuperare una qualche forma di spiritualità (dove “spiritualità” non significa affatto “religiosità”).

Il titolo ricorre all’archeologia, come mai questa scelta?

Le rispondo con una citazione che racchiude il senso del titolo, insieme a quanto scriveva Coccioli, in Piccolo karma, a proposito degli animali, considerati dai più come semplice archeologia rispetto a quel “fiore” evolutivo che è l’uomo:
“La profezia della caduta del cielo […] è un tema ricorrente in diverse escatologie amerindie. In generale questi crolli, che possono essere associati a cosmografie stratificate, con differenti ‘cieli’ e ‘terre’ impilati l’uno sopra l’altro, sono fenomeni periodici, parte di grandi cicli di distruzione e di nuova creazione dell’umanità e del mondo. È comune che tali nuovi ordini stratigrafici siano attribuiti all’invecchiamento del cosmo e al peso crescente dei morti (sia il peso dei loro corpi dentro la terra, sia quello delle loro anime nello strato celeste)” (Danowski, Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, p. 160).
Le stratificazioni al limite del pensabile che formano il nostro ambiente vitale. Il peso della memoria. L’incombere attuale della catastrofe (e l’immaginare nuove configurazioni di esistenza e nuove forme di speranza). Il torto, continuo, incommensurabile, inemendabile inflitto agli animali non umani.
Questo, in breve.

La prima sezione, Tanatoestetica, prende avvio da un reale lavoro sul campo della tanatoestetica, l’arte di preparare la persona morta per l’ultima visita prima della chiusura nello zinco o della cremazione. Si comprende dalla lettura dei testi che l’autrice abbia assistito effettivamente a pratiche del genere, e la conferma arriva dalla mia domanda:
quanta esperienza sul campo c’è per dare vita all’opera? Mi riferisco alla sezione Tanatoestetica in primis, ma risponda come meglio sente.

Risponde Liberale:
I testi di apertura della sezione in discorso sono nati “sul campo”, dove per “campo” intendo una sessione di tanatoestetica tenuta da un’esperta in obitorio. Io ero tra i partecipanti; ho accompagnato i corsisti del master in cui insegno (Death Studies and the End of Life, diretto dalla prof.ssa Ines Testoni, Università di Padova).

Peculiarità della sezione prima è il punto di vista tutto materiale del defunto. I morti, rigidi e non senzienti di per sé, restano presenti in tutta la loro fisicità. A volte sembra, con un brivido, di entrare nel corpo del morto, sentire i minimi movimenti “della disaggregazione”.

[p. 10]

pensare di chiamarla la “non più mano”
per la definitiva cessazione funzionale

ma finché alla signora S. stendiamo sulle unghie
lo smalto rosa a coprire il vecchio rosso smangiato
finché teniamo tra le nostre le sue dita artiche
finché persiste un qualche tipo di commercio fra vivi e morti
quella della signora S. continua indiscutibilmente a essere
una mano

[p. 12]

l’idratante dalla formula segreta che spiana il corruccio alla signora S.
e a seguire la base coprente lilla

quando riascolteremo la lezione registrata
puoi giurarci che la voce morta della signora S.
finirà per sovrapporsi alle nostre voci vive:

smettetela di sussurrare per abitudine al rispetto
schiamazzate invece senza sentirvi in colpa perché ancora fate rumore
perfino io faccio rumore
anche se il mio è il rumore cavo della disaggregazione
e vi assicuro che non è bello da sentire

Non soltanto i morti cercano di parlare ai vivi dalla loro corporeità che si raffredda: a p. 18 si legge di morenti, così come alle pp. 27, 28, 34

i morenti se ne vanno
facendo sbattere finestre a chilometri di distanza

al fremito dei vivi rispondono:
se ci sentiste dentro anziché fuori
(nel sangue che rallenta
nel fiato che s’ingorga nella gola)
sarebbe forse minore lo spavento?

La pratica della tanatoestetica, avevo scritto, è un’arte. Una riflessione nasce dal testo a p. 36; su cosa l’arte possa o debba essere, su cosa e come è stata definita tale, su come vogliamo che sia oggi. Liberale ci narra di una ragazza suicida di diciotto anni finita a Parigi come opera d’arte nel 1867. Tecnicamente fu la copia in gesso del viso della defunta a finire a Parigi, ma con alcune modifiche autoriali quali un serpente uscente fuori dall’orbita cava dell’occhio sinistro. Un vero vanto della tannizzazione, per l’epoca, un motivo di visita all’opera per la morbosa curiosità dei visitatori, un monito macabro, anche, perché la ragazza era una suicida. Un vero vanto di Unità stratigrafiche è l’anelito alla conoscenza che offre: il lettore ignaro della vicenda, non rimanendo indifferente, cerca, si domanda, scopre; elabora. Stesso stimolo offrono testi come quello a p. 35 su Henrietta Lacks e un altro a p. 42, intitolato cinguettii. Si riporta il testo di p. 35:

a diciott’anni si dovrebbe andare a Parigi tutta intera
non solo con la pelle della faccia tannizzata
passeggiare lungo la Senna
non essere uncinata e tratta fuori da un canale
e poi peccare peccare ripetutamente peccare
non raffigurare il peccato:
qualche goccia di cera a fare il sangue bruno, tra i rami
dei nidi non di Arpie ma di serpenti

Leggendo Unità stratigrafiche sembra quasi che l’autrice abbia svolto una operazione simile a quella di altri autori: i morti di Liberale però sono differenti da quelli di Edgar Lee Masters, ancora gravidi delle passioni mai sopite; sono differenti anche da quelli di Chandra Livia Candiani, autrice cui si potrebbe pensare per l’affinità tematica della raccolta Bevendo il tè con i morti; sono diversi anche da quelli di Gabriele Galloni appartenenti alla silloge In che luce cadranno; i morti qui posseggono una vivida corporalità e interagiscono, pur dalla loro posizione, creano una continuità, instaurano un rapporto con noi. (testo di p. 26)

Se un morto, il giorno delle sue esequie
ti colora di azzurro il parabrezza
sorridendoti nel centro
è per dirti due cose:

il tuo ritorno a casa filerà liscio

quando perderai di nuovo qualcuno – e lo perderai presto –
cerca di ricordare quel che ti ho mostrato oggi

La ricerca sul rapporto che è possibile instaurare ancora con i defunti va oltre la misura del terreno. La seconda sezione dell’opera, I Mezzi, raccoglie testi “…nati parallelamente a un progetto di ricerca col GRIM (Gruppo di Ricerca Italiano sulla Medianità)”. I mezzi sono i medium, persone ritenute capaci di comunicare con i morti. Le figure medianiche, avvolte da un guardingo mistero, vengono chiamate per sottoporsi a un progetto scientifico: parte dei risultati sono pubblicati qui Stage 1 Registered Report: Testing mediumship accuracy with a triple-blind protocol.
L’autrice precisa quanto segue a partire dalle mie domande:

Il GRIM è il Gruppo di Ricerca Italiano sulla Medianità di cui, oltre a me, fanno parte Patrizio Tressoldi e Fernando Sinesio. Abbiamo messo a punto un protocollo scientifico di verifica delle capacità dei cosiddetti “medium” e stiamo cominciando a diffondere le nostre ricerche in una serie di articoli. I “mezzi” sono appunto i medium. Ho scritto dei flash relativi ad alcuni miei incontri con loro.

Dei flash sono proprio i testi della seconda sezione, nove in tutto, caratterizzati dalla brevità e da un religioso e profondo senso di mistero. Tutti i testi tranne uno iniziano allo stesso modo: articolo più la parola “Mezzo”.

Un Mezzo in particolare lo pensi
come una colonna di luce
intorno a cui si accalcano i morti falene

Un Mezzo scrive rapidissimo
quello che lui solo sente
dopo penserai agli infrasuoni degli elefanti
agli ultrasuoni dei pipistrelli e derattizzatori
ti chiederai quale sia la frequenza dei morti
quell’onnisuono inaudibile

Un Mezzo attraversa la laguna
alla turista che si accascia dice
qualcosa che le strappa dalla faccia
la paura e la ferma nei tratti
primi da bambina

L’ultima sezione presenta un titolo che, inizialmente, potrebbe sembrare un gioco di parole: Animal-Animot-Animort. Il senso di queste va ricercato: si tratta di neologismi coniati da Jacques Derrida. Animot è anche una rivista patrocinata dall’Università di Torino, “[…] che esplora il tema dell’animalità alla luce degli Animal Studies, in un dialogo tra filosofia e architettura, scienze naturali e storia dell’arte, teoria politica e letteratura. L’animalità diventa, dunque, chiave di lettura di un’infinita gamma di questioni teoriche che assumono una luce nuova e inaspettata. Non si tratta di ripensare, attraverso le diverse angolazioni da cui osservare l’animalità, il nostro rapporto con gli animali non umani ma, innanzitutto, la nostra idea di umanità e la nostra essenza animale; da questa prospettiva, tutta la filosofia e la cultura, assumono un diverso aspetto, crocevia essenziale per la vita che verrà e che siamo in grado di immaginare”.
Noti dunque i nomi e i principi dietro i quali si cela il titolo della terza sezione, si rivela la sua missione: offrire non soltanto squarci di bellezza poetica, ma anche riflessione; proporre un nuovo modo di vivere nel mondo insieme a questi compagni incapaci di parola (ma non per questo legittimamente sfruttabili). Un sentimento di rispetto e fratellanza nei confronti degli animali è presente in tutta l’ultima sezione di Unità stratigrafiche, che trova, tra i suoi protagonisti, il cane Laika inviato nello spazio nel 1957, (p. 60) il topo transgenico MITO-LUC (p. 61), la pietà di chi irruppe nell’arena nel 2015 per abbracciare un toro (p. 62), la pecora Dolly, primo clone ufficiale della storia (p. 66) ed altri animali meno tristemente noti. La domanda posta all’autrice diviene quasi retorica a questo punto:

grandissima attenzione viene dedicata agli animali. È necessario rifondare una società partendo dall’attenzione nei confronti di questi esseri dotati come noi di soffio vitale?

Laura risponde così:

È necessario rifondare una società che includa a pieno titolo gli animali non umani quali soggetti attivi, desideranti, senzienti, pensanti, giuridicamente riconosciuti.

Giunti a questo punto si preferisce concludere con un solo commento al testo seguente, per poi lasciare al lettore le parole dell’autrice.

[p. 71]

Come svanisci, amato
ti nebulizzi piano
particole di te si innalzano
frammiste ai vortici di polvere
vai disperdendoti
ed è impossibile afferrare
i tanti in cui ti sfai, tenerti

si guarda ciò che accade
senza saperti dire se la luce
viene da te, dal tuo pulviscolo
o dalla lampada, o da entrambi

Poesie come questa fanno ancora ben sperare in un utilizzo sapiente delle figure retoriche, del respiro metrico-prosodico sulla base dell’endecasillabo e del settenario, (i novenari sono effettivamente endecasillabi mancati, fermati sull’ottava) mostrando palesemente quanto la metrica della tradizione, associata alla sensibilità poetica, sia ancora in grado di parlare ed emozionare; per di più, con rarissima levità, Liberale scrive un testo quasi interamente fondato sull’enjambement, che diviene forza portante, portando in sé leggerezza e insieme perdita, costringendo a soffermarsi sull’ultima parola del singolo verso, che vibra di una luce tutta propria; a ciò si aggiungano le assonanze interne, la scelta di un lessico che graviti intorno al campo semantico dello sfarsi: ecco una gemma.

[p. 73]

Forse tutti ci spegniamo accendendoci di azzurro
propagando dal ventre un’onda
un bengala di fine festa

lo suggerisce la chimica di un verme
morire, inglobandosi nello spettro della luce

[p. 74]

E mentre l’universo si scuoteva
ai colpi e ai dardi dei servi di Māra
soltanto in due non fecero una piega:
Siddhārtha dalla volizione chiara
e il gatto concentrato sulla preda

[p. 41]

Poiché non ti sognavo
poiché tu non venivi in un sentore o un segno
poiché il giorno non mi alzava più dal letto
in chroma key accarezzo l’aria
nel verde sfondo

[p. 33]

Capita che le giovani figlie
nel sonno muoiano improvvisamente
e che il mattino prima
mentre gli pettinate i capelli
piangano improvvisamente
chiedendo di essere tenute strette

non sottovalutiamo la tristezza
che sia a poche ore o ad anni di distanza
è sempre un presentire la morte

———

Nota: nel volume i titoli sono in maiuscolo.

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Immagine di copertina:
particolare di una foto di Carlo Vannini, Lodovico Brunetti – La suicida punita, Museo di Anatomia Patologica “Morgagni”, Padova. Tratta da Ivan Cenzi e Carlo Vannini, Sua maestà anatomica, Logos 2016.