Collocare su un piano politico l’insieme di questioni aperte dal tema della “salute mentale”, che per ora accettiamo provvisoriamente come sintetico concetto-ombrello, è uno dei compiti più urgenti dell’attualità. Il manifesto Psicoanalisi e rivoluzione. Psicologia critica per i movimenti di liberazione di Ian Parker e David Pavón-Cuéllar (ombre corte, 2021) costituisce un importante strumento per articolare questo compito, rivolgendosi direttamente a chi pratica la psicoanalisi e a chi si impegna per superare le varie forme di oppressione politica, economica e sociale che caratterizzano la vita sotto il giogo del capitalismo. La discussione che crediamo il libro possa alimentare, dato che è la questione che tiene insieme i vari elementi trattati nel testo stesso, riguarda la possibilità di decolonializzare, depatriarcalizzare e in generale sottrarre alla riproduzione delle strutture di oppressione le pratiche di cura.

Questa domanda, nella sua formulazione così ampia, tiene insieme i due interlocutori principali del discorso degli autori: chi pratica la psicoanalisi e i movimenti. In entrambi i casi si tratta di target la cui posizione è specificamente contradditoria: da una parte, chi pratica la psicoanalisi è interno a paradigmi terapeutici variamente compromessi con il controllo, l’esclusione, la medicalizzazione e l’adattamento; dall’altra, i movimenti di liberazione sono impegnati a collocare le proprie pratiche nella tensione tra istituzioni esistenti e la necessità di una possibile collettività che si realizza come emancipatoria, fuori – e per questo naturalmente oltre – l’istituzione attuale. È poi importante notare che sia il discorso di questo testo che quello di noi che lo commentiamo vanno intesi principalmente a partire dalle condizioni di possibilità in cui si situano e per gli effetti che producono. Per questo, non cercheremo di fa emergere un’ermeneutica specifica, elencando le varie autorialità che popolano la continuità del discorso, ma proveremo piuttosto a essere attraversati da questo, per saggiare i possibili esiti che esso può produrre se usato come arma. (Si raccomanda di consultare le “Letture di base” in coda al testo e la post-fazione di Pietro Bianchi, per collocare l’opera all’interno di un più ampio dibattito).

Psicoanalisi e rivoluzione

Da una parte, il manifesto compie uno sforzo pratico per ricollocare sul terreno del reale la psicoanalisi reinterpretando in modo socialmente situato la sua origine e i quattro concetti chiave di inconscio, ripetizione, pulsione e transfert. Contemporaneamente sfonda lo spazio della clinica per far risuonare le stesse questioni nell’azione politica, richiamando le strutture di militanza a considerare vari aspetti di una possibile tendenza a reiterare la sconfitta, riproducendo al proprio interno e nella propria pratica le strutture di oppressione che si dichiara di voler combattere.

Per fare un esempio della complessità dei temi trattati dal libro, partiamo dal concetto di salute mentale. Esso è l’orizzonte in cui, ambiguamente, si pongono oggi alcuni promettenti sforzi dei movimenti e, altrettanto ambiguamente, si collocano le pratiche psicoanalitiche, confuse con l’universo delle discipline psicologiche, psichiatriche e psicoterapeutiche. L’ordine del discorso della salute mentale appare subito criticabile secondo due tagli: da una parte la salute mentale è oggi un preciso prodotto istituzionale, che opera indicando chi è adattə o adattabile ai processi dello sfruttamento capitalista, nella misura in cui quest’ultimo assume un metodo “inclusivo” nella produzione e nel consumo. Dall’altra, l’idea del “mentale” riproduce il modello dell’individuo isolato su cui si fonda l’ideologia dominante, quella cioè che spoliticizza ogni questione riducendola al compito infinito della performance privata. Inoltre, collocare nella “mente” la funzione dell’individualità oscura il posizionamento reciproco dei soggetti e la dimensione relazionale della soggettività: l’essere in un sistema di affezioni e affetti relativi al posizionamento rispetto ai confini e alle soglie di oppressione che abitano il mondo. Questo oscuramento fa parte, per gli autori, della distorsione conservatrice della psicoanalisi. Allo stesso modo ad essere reiterata in questa distorsione conservatrice è l’idea di un “profondo”, che sia “dentro” l’individuo, cui si deve applicare il concetto di inconscio: ciò che invece gli autori riconoscono in questo concetto sono la storia, la geografia, le tribù, il deserto, i popoli, le razze, il clima: la memoria oscurata degli sforzi cooperativi di emancipazione, i tentativi e le sconfitte, il reiterarsi, in esse, dei sistemi di oppressione e alienazione.

Il manifesto di Parker e Pavón-Cuéllar mette così in dialogo le varie forme di attivismo e una psicoanalisi spogliata dalla sua declinazione conservatrice, riproposta come pratica emancipatoria, opportunità di liberazione per la sua radicalità critica. Nell’ultimo capitolo si legge:

«viviamo in un mondo in cui la psicoanalisi è necessaria ma impossibile. Di solito viene realizzata in modo da impoverirla e sfigurarla fino a rovesciarla. Alla fine è molto meno e perfino il contrario di quello che avrebbe potuto essere. Invece di essere una teoria e una pratica rivoluzionaria, si riduce a essere una tecnica di adattamento. Inoltre, è confinata all’individuo e degenera in una pratica privata segnata dal suo conservatorismo, un punto di collegamento per idee reazionarie su sesso e genere e molto altro».

Questo oggetto polemico, la deriva dello psicanalismo, tendenza che si è esacerbata in ogni psicologia del profondo e in ogni psichiatria istituzionale, viene qui attaccato ma anche riconosciuto nella sua determinazione storicamente situata e insieme come tendenza sempre possibile: ogni movimento, ogni struttura militante, ogni gruppo impegnato in lotte di emancipazione è sempre sulla soglia di questa possibilità, di questa coazione a ripetere.

Nella militanza, per esempio, questa prende le forme dell’impedimento all’insorgere dell’imprevisto, della riproduzione di sé stessi per il godimento della propria identità, della rinuncia a modificare il sistema, poiché anche nel ruolo di militanti si può ripetere l’istituzione, rinviando a una specificità identitaria che si radica sul piacere del riconoscimento. Si soffre, ma si riproducono anche gli stessi errori perché, in qualche modo, non ci si saprebbe rapportare con la radicale alterità delle cose davvero cambiate. A non riuscire è la disindividualizzazione, ci si innamora del potere. Mentre, in questo testo, gli autori sembrano dirci che il modo in cui si svolge la lotta non solo “allude a” ma implica già in sé, micropoliticamente, gli esiti della lotta stessa.

E il rischio è lo stesso per chi la psicoanalisi la pratica: riproducendo la sua forma conservatrice, avallando la pratica di potere dello scavo, dell’interpretazione, del rivolgersi verso un “interno” depoliticizzato e individualizzato, le cui chiavi sono a disposizione del proprio sapere o tecnica, a identificare i professionisti “psy” e riprodurre il discorso psicologizzante come dispositivo dello status quo capitalista, sessista e patriarcale. Mentre invece, la mossa di Freud, che qui potrebbe apparire come un dark Freud, era stata, per quanto limitata dalle condizioni di imbricamento ideologico nelle quali è sorta, un tentativo di liberazione invece che la creazione di una tecnica. Così potremmo immaginare anche un dark Lacan, che da queste pagine ci parli di una possibilità della pratica non risolta e non colta, di una emancipazione possibile anche e soprattutto da sé stessi.

La psicoanalisi dark che da queste pagine emerge è sempre storicamente situata: in comunità ebree marginalizzate, in fuga dal nazismo o nei movimenti sudamericani di liberazione, riproduttrice o critica della ideologia patriarcale, borghese e razzista in cui è immersa. Nelle contraddizioni ogni volta riemergenti ritroviamo rischi e tentazioni che possiamo leggere anche nelle nostre biografie: la volontà di inscrivere le intuizioni liberatorie in un ordine totalizzante e gerarchizzante, la tendenza a creare con la propria pratica un nuovo ordine di discorso che sgomberi l’es dai territori illegittimamente occupati e vi inscriva il possesso di sé dell’io, il perdere di vista gli intrecci tra potere, sapere e godimento che banalizza l’analisi, oscurando le dimensioni produttive che sempre si accompagnano a quelle repressive. Si intravede così la possibilità di superare lo psicanalismo come dispositivo individualizzante e spoliticizzante, di suscitare la differenza dalla ripetizione, di essere contro il simbolico come luogo della mistificazione.

Bello che Enrico Valtellina abbia tradotto questo testo in italiano: un contributo alle possibili pratiche di liberazione dal capitalismo, dal colonialismo e dal sessismo, necessario nel nostro ambiente culturale, in cui le questioni confusamente connesse con il desiderio sono ancora molto lontane dall’essere oggetto di pratiche politiche emancipatorie. Si pensi solo a quanto la riflessione contro la famiglia monogamica non sia ancora sufficientemente sviluppata nei movimenti, a quanto il dibattito proponga spesso in termini ideologici la questione delle “identità come recinto” invece di coglierne la sfida insurrezionale posta alla norma, a quanto ancor sia scarsissimo l’interesse per i disability studies e per il movimento delle neurodivergenze cui tocca ancora scontrarsi, tra compagnə, con visioni intrise di paternalismo gramsciano che vorrebbero insegnare a tuttə come si fa davvero politica, ma che finiscono solo per invalidare i processi emancipatori che ciascunə mette in atto rivendicando la propria identità (a quest’ultimo tema corrisponde la possibilità di dialogo tra movimenti della neurodiversità e psicoanalisi, opportunamente evocata da Alessandro Siciliano nella sua recensione su DinamoPress).

Sul piano clinico, speriamo che questo libro funzionerà come un promemoria: contro le distorsioni, prima di tutto politiche, del “transfert”; per ricordare che il rapporto tra immaginario e reale va guardato attraverso la lente del concetto di ideologia; per evitare di trasformare la psicoanalisi in una visione totalizzante e fascista del mondo, sistemandosi nel mercato delle professioni psy rivolte all’integrazione. Speriamo che ne esca definitivamente affossata l’immagine dello psicanalista che in ogni contesto parla “al posto di”, sospinto dalla pulsione di sapere e soprattutto di vedere riconosciuto quel sapere con un corrispondente ruolo sociale di rilievo.

Un’ultima questione, su cui riteniamo utile che da subito si inizi a riflettere nei movimenti e nei gruppi che in questo periodo si stanno apprestando ad affrontare la questione del disagio psicologico ed esistenziale, elaborando strategie in cui a vari livelli si mescolano pratiche di supporto specialistico, con una platea ampliata o a più bassa soglia rispetto all’esistente, forme di mutualismo, percorsi collaborativi, rivendicativi o vertenziali per modificare le istituzioni esistenti, sia che queste siano identificate come la causa di un disagio che potrebbe essere evitato, sia che esse siano demandate a farsene carico. Bisogna rivendicare la carica eversiva della condizione esistenziale a cui ci si accosta. Che la leggiamo come disagio, malessere, persino come malattia: non siamo chiamati a fare una esegesi tecnica del sintomo ma a dislocarci nella relazione, a fianco della possibilità di discorso che essa fa emergere. In questo senso gli autori di Psicoanalisi e rivoluzione riprendono il titolo di una pubblicazione del collettivo socialista dei pazienti psichiatrici tedeschi del 1973: «la malattia è da usare come un’arma». È un tema che ugualmente ritroviamo nel dialogo con chi invece rifiuta il modello medico di definizione di una condizione esistenziale – ci riferiamo ai movimenti per la neurodiversità. In questo caso siamo propensi a credere che la “neurodivergenza”, più che avere a che fare con una descrizione oggettiva – a rilevanza eziologica – di come una certa tipologia di cervelli siano strutturati, abbia a che fare con una pratica, situata ed eventualmente sistemica: il “neurodivergere” come concreto rifiuto dei sistemi di aspettative che rendono oppressive le relazioni, suffragando la norma con una qualche definizione ideologica di scienza e riproducendo l’ordine produttivista, colonialista ed eteropatriarcale.

Ian Parker e David Pavón-Cuéllar richiamano a questo proposito la lezione dell’insurrezione delle isteriche, le prime militanti dell’antipsichiatria. È sul gesto delle isteriche, di produzione di un corteo di sintomi disambientato rispetto ad ogni nosografia, all’incrocio tra paranoie di verità assicurativa (paranoie relative alla simulazione e all’assenteismo dei lavoratori) e nuove pulsioni di sapere possibilmente emancipatorie in quanto svincolate dalla psichiatria manicomiale ottocentesca, che possiamo tornare a riflettere per dialogare con gli attuali atti di fuga rispetto a classificazioni e ruoli normalizzanti. Questo pone direttamente in questione i nostri spazi e le nostre modalità di organizzazione.

La psicoanalisi è per adesso restata al di qua del principio di analogia. Nella prestazione freudiana, l’ambigua collocazione della pulsione buca e approfondisce la superfice su cui è territorializzato il confine tra natura e cultura, biologico e storico. Il piano, invece di essere risucchiato dal buco e riemergerne striato, increspato e irriconoscibile, si riterritorializza creando sia la regione psy, la quale si presenta oggi come un ambito abilista di performance dei corpi, sia la coscienza sua abitante, un tribunale che obbliga sempre a una confessione, e davanti ai giudici si giura sempre di dire la verità, tutta la verità, anche dei sintomi. In questo manifesto rivoluzionario, invece, l’analisi anti-istituzionale della clinica, e del potere dello psicanalista che ne struttura lo spazio definendo i confini di quella peculiare presa di parola, ci spinge a provare qualche passo avanti con una nuova analogia: “clinica” può essere anche quello spazio safe che sempre cerchiamo di costruire nei nostri contesti e che vorremmo veder diventare le nostre città? In questo senso, quello della clinica, non diventa immediatamente un compito politico? In che senso questo apre ad una pratica trasformativa nei gruppi di militanti, nelle organizzazioni comunitarie, nel municipalismo diffuso? In che modo, attraverso quale disindividualizzazione, dei saperi tecnici possono entrare nella costruzione di queste realtà?

———

Immagine di copertina:
Dark analysis, un meme di Ezra.