[Il 9 e 10 ottobre si terrà a Roma il terzo AUTcamp, incontro con presentazione di contenuti a tema autismo da una prospettiva radicalmente altra da quella usuale, dettata dai modelli medico e caritativo della disabilità. A organizzarlo è l’associazione Neuropeculiar, creata da autistici e attiva nella promozione di attività e ricerche emancipative riguardo le disabilità relazionali dello spettro autistico. I relatori all’incontro, come per le precedenti due edizioni, sono per lo più persone autistiche. Clicca qui per il programma e le bio dei relatori. Qui invece ulteriori notizie sull’evento].

«Cerco l’autismo come lo conosco io in modo che possa sapere che altri spettatori possono capire meglio mio figlio e comprendere meglio alcune delle realtà quotidiane non spettacolari, le complessità e persino le gioie di vivere con l’autismo». 1

Ian Hacking nel 2010 parlava di un “boom” 2 dell’industria narrativa sull’autismo, facendosi profeta di una crescita divenuta oggi esponenziale. Si chiedeva perché prosperasse proprio nella nostra epoca e precisava: “La mia domanda non riguarda l’autismo, ma i nostri tempi”. In modo analogo i nostri interrogativi non lo riguardano come oggetto passivo del film ma potenziale soggetto attivo, “oggetto culturale” 3 metafora del cinema stesso. Ma per arrivare a una tale associazione, data l’interdisciplinarietà e il carattere introduttivo dell’articolo occorreranno più premesse, le quali lo suddivideranno in paragrafi. Riflettendo sull’interattività materiale e concettuale dell’“immagine” dell’autismo nella nostra cultura e sull’importanza del suo percorso di destigmatizzazione, la metteremo a confronto con la fissità di alcuni clichés cinematografici attraverso la voce di studiosi che vivono da vicino la condizione e riconoscono l’assenza di un’agentività autistica nel cinema, nonché di una relativa discussione accademica. Ma ipotizzeremo anche la presenza di un “fattore autistico” a livello drammaturgico, estetico e critico, e infine proporremo una metaforica lente neurodivergente: un “punto di vista” atipico, in antitesi allo sguardo hollywoodiano, ma anche rivisitazione del suo stesso stereotipo macchinico, un nuovo possibile “agente autonomo” 4 animista.

Patrick McDonagh (2008) riconosce una «intensità dell’interesse culturale per l’autismo», riflessa «nel numero sempre crescente di libri e film che se ne occupano, con particolare attenzione alla fiction, al documentario e all’autobiografia»,5 la quale continua a registrarsi non solo a livello produttivo, ma anche di gradimento, da record: la prima stagione della serie TV The Good Doctor 6 nel 2018 ha rappresentato «il miglior risultato per una serie tv sulla generalista dal 2013 ad oggi» 7 in Italia, mentre l’ultima della serie Atypical 8 nell’estate 2021 8 è stata nella Top 10 delle più popolari su Netflix. Il successo della relazione tra autismo e cinema (e, più in generale, produzioni audiovisive e immagini in movimento) è un dato di fatto tanto chiaro quanto ignorato, il quale ci invita a interrogarci sul valore che abbia nella nostra cultura visuale, al di là della moda che ormai rappresenta, ma cercando di romperne la patina per andare in profondità e su più piani di analisi, dal drammaturgico all’antropologico. Hacking ipotizza infatti che l’“autism fiction” non sia altro che «lo specchio di un decennio di internet», dunque il riflesso di un’intera società.

Dato sintomatico è che l’inizio della storia “ufficiale” (perché, ovvio, non ne esiste una sistematica) di tale successo si confonda con lo stesso stereotipo cinematografico al quale tutt’oggi viene ri(con)dotta: Rain Man 9 (L’uomo della pioggia) di Barry Levinson. È l’esempio cinematografico più banale che si potesse prendere – tanto che anche riconoscerlo stereotipo è diventato uno stereotipo –, ma perciò l’imprescindibile da cui partire per dare misura dell’impatto che il cinema ha avuto nella percezione sociale dell’autismo: quello che Anthony D. Baker (2008) chiama «potere definitivo del film». 10 D’altronde, come ci ricorda Stuart Murray (2008), «Rain Man […] è la storia rivoluzionaria che ha dato alla condizione un profilo pubblico quando prima era, in larga misura, vincolata a specialisti medici ed educativi e alle famiglie di quegli individui che aveva l’autismo». 11

Rain Man come lente sull’autismo

Nel 1988 esce Rain Man che, oltre ad aggiudicarsi quattro vittorie agli Oscar, due ai David di Donatello, un Orso d’Oro, e rivelarsi un trionfo indiscusso di pubblico, campione di incassi con ben 172 milioni di dollari, secondo Murray (2008a) «è il testo alla base di tutte le varie rappresentazioni contemporanee dell’autismo». 12

Il soggetto di Rain Man è scritto da Barry Morrow, ingaggiato dal padre di Kim Peek – detto “Kimputer” 13 per le sue straordinarie capacità di calcolo – al fine di «sensibilizzare l’opinione pubblica sulla disabilità intellettiva». Ma Raymond (Dustin Hoffman) come Shaun (Freddie Hightmore) e Kim, è un “savant”, “versione moderna degli ‘idioti’ prodigiosamente dotati descritti da clinici del XIX secolo” (Silberman, 2016). Seppur definito dal medico “autistico”, oltre a non riconoscersi tale nonostante disponga di abilità eccezionali, rappresenta un caso raro non solo rispetto alla società non autistica ma anche neuroatipica, che include persone con caratteristiche spesso – lo si dimentica – anche diametralmente opposte tra loro. Secondo Hacking (2009), «qualche savant è effettivamente autistico, ma quasi nessun autistico è savant». 14 E lo stesso Darold A. Treffert, psichiatra specializzato in sindrome savant ed esperto consulente per Rain Man, ammette che «l’incidenza stimata delle abilità savant tra gli individui con autismo è del dieci percento. Eppure tali film presentano questa minoranza come la norma per gli individui con autismo» (Baker, 2008, p. 236).

Rain Man, Barry Levinson, 1988
Rain Man, Barry Levinson, 1988

Dagli anni ’90 in poi, infatti, ci sarebbero sarebbero molte altre rappresentazioni 15 che avrebbero operato entro un discorso d’“informazione” della condizione, ma travisandola. Baker sostiene che «Diversi altri film 16 hanno echeggiato e rafforzato la caratterizzazione dell’autismo di Dustin Hoffman», includendo alcune caratteristiche ricorrenti 17 tra cui personaggi autistici con «poteri spettacolari». E riconosce che nelle opere cinematografiche, nei romanzi, nelle opere teatrali che descrivono un personaggio con una disabilità, questo ha il potere di «esemplificare le persone con quella particolare disabilità», dimostrando come «si comportano, sentono, comunicano, mostrano sintomi e sperimentano la vita. In breve, un personaggio con disabilità funge da lente attraverso la quale il pubblico può vedere e definire tale disabilità». E ce ne offre una testimonianza diretta:

«In diverse occasioni, quando ho condiviso la notizia che mio figlio è autistico, ho sentito: “Ho visto un film con Bruce Willis 19 dove c’era questo ragazzo geniale con l’autismo” o “Ho visto questo bambino autistico al telegiornale che suonava il piano da concerto.” Mi è stato chiesto se Jake è bravo in matematica, come se essere bravo in matematica fosse un premio di consolazione per essere autistico. Ho sentito: “Autistico? Oh sì, come Rain Man”. “No, non esattamente. Non come Rain Man» (Baker, 2008, p. 240).

Notiamo che tutti gli esempi citati da Baker fanno riferimento all’universo del media, non a caso. Ma se c’è un’affermazione che nel complesso e cangiante dibattito sul tema possiamo usare con certezza è quella di Roberto Keller (2016), per il quale: «Sarebbe infatti più corretto parlare di autismi, tante e diverse sono le forme con cui si manifesta» quella che da psichiatra, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta definisce «questa condizione umana» 18 come anche noi qui la intenderemo. Raymond, seppur ispirato a due uomini realmente esistiti, 19 insomma, rappresenta un uomo autistico, non l’autismo. Ma ormai scontato per molti, c’è ancora chi dichiara di non avere mai visto né poter immaginare un adulto autistico, se non come lui. Murray nota infatti che «le rappresentazioni culturali, in particolare il film del 1988 Rain Man» insieme ad altri, siano stati «fondamentali indicatori palesi dell’autismo per diverse generazioni».20 In effetti, per Baker, il film «funge da testo di definizione principale del pubblico per i disturbi dello spettro autistico. Le persone ora usano il termine ‘rain man’ per descrivere individui che mostrano caratteristiche autistiche; il termine indicizza l’autismo in generale». Con Rain Man, infatti, un film non solo diventa “testo”, e “di definizione”, ma per giunta “principale”, una sorta di DSM visivo che entra nella quotidianità: un nome, un personaggio, un’immagine, un fantasma, si sono fatti “tipo umano” reale, diventandone simbolo ed imprimendosi nell’inconscio collettivo. Un’immagine esterna è divenuta immagine interna. Ma corrisponde a una reale? Baker esprime dei dubbi alla base della nostra riflessione:

«Quando vedo personaggi autistici eseguire prodigi mentali sullo schermo, mi chiedo se mio figlio abbia abilità savant che non ho ancora riconosciuto. Forse dovrei guardare meglio. E se Jake non fosse bravo in matematica? O peggio: e se la matematica fosse la sua materia peggiore? E se non mostrasse alcuna attitudine o interesse a suonare uno strumento musicale? E se fosse solo normalmente autistico? Le persone oltre alla sua famiglia e ai suoi amici lo apprezzerebbero? Come? Perché?» (Baker, 2008, p. 240)

E il pubblico, le produzioni, la critica? È possibile un cinema “normalmente autistico” o rileggerlo in questo parametro senza che ci perda ma, al contrario, si arricchisca?

Interattività del concetto di autismo

A nostro avviso, alcune rappresentazioni cinematografiche avrebbero agito in noi come quelli che Gilbert Simondon (2008) chiama «oggetti-immagine» 21, ossia «portatori di significati latenti […] come degli organismi, dei germi capaci di rivivere e di svilupparsi nel soggetto». Ma il concetto stesso di autismo si presterebbe a una simile retroazione. Majia Holmer Nadesan (2008), infatti, facendo riferimento ad Hacking, usa l’idea di «tipi interattivi» per spiegare la mediazione delle idee socialmente costruite per cui il concetto di interattività, solitamente riferito alle cose, influenzando ciò che è classificato potrebbe applicarsi anche all’autismo, e quella di «looping effect», 22 per riferirsi al suo conseguente, singolare e continuo processo di ridefinizione. E cos’è un personaggio cinematografico (o l’opera filmica stessa) allora, in quanto oggetto-immagine fisico, se non un tipo interattivo nel senso più letterale?

Se come afferma la Nadesan l’autismo è una «differenza comportamentale e cognitiva su base biologica, ma socialmente modellata ed espressa» e il suo nucleo sta quindi nell’intersezione tra biologia e cultura, il cinema si rivela essenziale nell’interattività dell’idea di autismo, in quanto forma concreta e visuale di cultura, produttrice oggetti-immagine (Raymond è uno di questi) concettuali ma anche materiali, oltre che passivi o attivi. Non a caso anche un’attivista come Judy Singer, nel 1998, quasi in concomitanza allo storico articolo 23 in cui Harvey Blume metteva l’accento sul «legame, multidimensionale, con le tecnologie» 24 dell’autismo, si serviva proprio del riferimento a un film, non a caso ancora Rain Man (seppur usandolo come scarto), per riflettere sul nuovo concetto di “Spettro Autistico”. Esso avrebbe rappresentato l’“anticipazione” di quella che lei definirà «politica della neurodiversità» 25, nuovo criterio del «neurologicamente differente»:

Mentre l’autismo è associato nell’immaginario popolare a bambini con disabilità cognitiva e stereotipie, privi della dimensione emozionale, o a savant come Rain Man, un gruppo di persone senza problemi cognitivi, anzi a volte con un’intelligenza sorprendente, si riconoscono collocati in qualche posto tra la «normalità» e l’autismo classico». 26

Looping effect ed interattività dell’autismo si fanno infatti particolarmente manifesti proprio in quegli anni, in particolare dal 1994 in poi, col subentro nel DSM-IV della Sindrome di Asperger (AS), già denominata così da Lorna Wing nel 1981 e che – seppur estromessa dal DSM-V 27 ma ancora presente, come fenotipo, nell’ICD-10 e in più testi scientifici, oltre che nel linguaggio comune – è stata parecchio influente nel processo di “evoluzione” del concetto di autismo, non solo per aver sancito il passaggio dal “classico” a un più ampio “spettro” di possibilità, ma anche perché avrebbe dato avvio a quella che potremmo considerare una nuova svolta culturale. Un singolare dato di fatto messo in luce da Enrico Valtellina (2016) può ben simboleggiarla: col suo diminutivo “aspie” (esempio di “looping effect”) la sindrome ha rappresentato un “inedito assoluto”: «una catalogazione psichiatrica è stata rivendicata e coccolata con un vezzeggiativo». 28 Una categoria quindi, aggiungeremmo, per la prima volta è “trasmigrata” dall’accezione dispregiativa, stigmatizzante, “negativa” a cui da sempre si fa corrispondere l’etichetta psichiatrica, ad una percepita come “positiva” o almeno dignitosa se non, addirittura, identitaria. Di recente ampliato e riferito «specificamente alla variabilità illimitata della cognizione umana e all’unicità di ogni mente umana» (Singer, 2020) il principio di neurodiversità, in gran parte “umanistico” (in quanto concepito in senso sociologico e antropologico più che strettamente neurologico e biologico), nasce da uno medico, quello di spettro, ma quest’ultimo oggi si basa, a sua volta, sullo stesso presupposto di neurodiversità che, seppur utilizzato anche in ambito clinico, supera la concezione di una natura necessariamente clinica dell’autismo. 29 Intese nell’immaginario continuum di una storia della follia 30 “nell’età contemporanea” (seppur gli autismi, come vedremo, per certi aspetti siano più associabili a peculiari forme di lucidità), queste trasformazioni rappresentano un passo avanti non da poco di cui l’oggetto autismo si è fatto il tramite, producendo un piccolo capovolgimento culturale, un’umanistica inversione della classica relazione paziente-medico foucaultiana, una sorta di silenziosa rivoluzione, non più antipsichiatrica, ma tale in quanto collaborativa, tra parte medica e autistica: da un lato sempre più persone nello spettro contribuiscono all’informazione scientifica, 31 influendo sulla ridefinizione dell’autismo nel senso comune, dall’altra sempre più esponenti d’ambito scientifico, seppur non proprio identici a The Good Doctor, si dichiarano loro stessi nello spettro, compresi psicologi e psichiatri, oltre a professionisti dei più svariati ambiti culturali. Il cinema, come parte integrante della stessa cultura che ha prodotto tali mutazioni, non può ignorarle, ma potrebbe altresì rifletterne l’evoluzione.

La “misrepresentation” dell’autismo: tra potere dello sguardo, etica e disumanizzazione

Hacking, superando anche l’idea di spettro, pone una questione di interesse centrale per un discorso sulla rappresentazione:

«È una massima ricorrente, in molte comunità autistiche, che “se si conosce una persona con autismo, si conosce una persona con autismo”. Per la mente di un fisico o di un logico — che è la mia mente non molto neurotipica — gli spettri sono lineari e l’autismo non lo è. L’autismo è una molteplicità multidimensionale (manifold) di capacità e limitazioni» (Hacking, 2009, p. 131).

Questo presupposto, essenziale per un nuovo cinema sugli autismi o la rilettura del passato, d’altro canto sembrerebbe poter creare un problema ontologico di partenza per ogni opera: in quest’ottica ognuna ne mostrerebbe sempre e comunque solo un caso, isolato, diverso da tutti gli altri, dunque non riconducibile a una maggioranza rappresentativa. Infatti, se l’autismo è una minoranza nella minoranza, perché anche un Raymond non potrebbe essere considerato valido rappresentante dell’autismo, nella sua singolarità? Seppur non tutti dispongano delle sue abilità o disabilità rappresenta pur sempre una possibilità, o un insieme di sfaccettature in cui ognuno potrebbe rivedere qualcosa di ciò che conosce, come accade per ogni film di qualità (quale Rain Man è, sotto molti altri aspetti), o facilmente commuoversi. Il problema non è allora il film come rappresentazione in sé, ma ciò che il film, in quanto rappresentazione, ha significato nella nostra cultura e società, non solo come oggetto-immagine di uno spettro la cui deviante scia è ancora visibile, ma prima ancora come prodotto di un determinato “punto di vista” sull’autismo, più che dell’autismo o nell’autismo. Quando Hacking usa le espressioni “capacità” e “limitazioni”, infatti, lo fa da un punto di vista nettamente diverso da quello del cinema hollywoodiano, il quale le avrebbe fraintese, portandole all’eccesso.

Secondo Murray, infatti, il cinema americano tradizionale, non avendo un patrimonio particolarmente buono nel ritrarre i disabili, attraverso le formule commerciali e narrative che guidano le rappresentazioni hollywoodiane avrebbe contribuito a produrre “falsa rappresentazione”. Con riferimento a E. Ann Kaplan (1997) 32 in relazione al femminismo e allo “sguardo imperiale” nota che anche se Hollywood nella sua immaginaria autocostruzione ha sempre prestato attenzione alle comunità minoritarie, il dato di fatto ne sarebbe la “misrepresentation” (travisamento). E sebbene in molti film ci sia qualcosa che potremmo identificare (o discutere) come “disabilità”, secondo lui tale aspetto sarebbe assente dalla maggior parte degli studi critici contemporanei. Se Baker li suddivide in “generi”, Murray vi individua tre questioni chiave ricorrenti che si possono riassumere in:

  • Un fascino per una condizione che sembra sfidare la categorizzazione e invita la speculazione in termini di “enigmatico”.
  • Lo sviluppo di una dimensione visiva specifica per inquadrare l’autismo, e cioè l’attrazione di assistere alla condizione.
  • Idee di differenza ontologica scaturite dal posizionamento dell’individuo autistico in relazione ad un comportamento neurologico apparentemente tipico, dove le capacità savant, lette in termini di creatività ed eccezionalità, sono finalizzate ad informare e arricchire il mondo non autistico.

Questo “specifico spazio visuale” verrebbe cioè articolato in modo tale da risultare “funzionale”, sia drammaturgicamente che diegeticamente, ai personaggi neurotipici: non a caso l’aggettivo ci riconduce a tipi di “sguardi medici” diversi dai suddetti. Secondo Baker la caratteristica più preoccupante di alcuni film sarebbe la “spettacolarizzazione” dell’autismo, e la ragione di costrutti filmici alla Rain Man alquanto “utilitaristica”: le trame dipenderebbero dal modo in cui qualche altro personaggio può “usare” i poteri speciali dell’autistico, il cui “valore” risiederebbe nelle sue abilità savant, concepite come “poteri”, elementi talmente utili all’avanzare dell’intreccio da rappresentarne i presupposti di “funzionamento”. In quest’“ottica” l’autismo sarebbe un dispositivo drammaturgico praticabile solo se il personaggio abbia abilità particolari: togliergliele significherebbe privare il film della trama, ragion d’essere del film stesso. 33 Non a caso molti film “sull’autismo” verrebbero messi in moto proprio dalla “scoperta” di queste abilità: Raymond è rappresentato come un peso per il fratello finché Charlie (Tom Cruise) non si rende conto delle sue straordinarie capacità, ma anche The Good Doctor comincia con l’esibizione di un “talento”, messo in atto: il salvataggio di una vita umana – motivo di ovvia ammirazione, tanto più considerando sia quella di un bambino. D’altro canto, è proprio in The Good Doctor che uno dei personaggi, riferendosi al protagonista, in apertura di serie precisa: “Non è Rain Man”. La scia dello spettro di uno spettro è entrata non solo nella realtà, ma nella diegesi stessa di un altro film, però la sua immagine, seppur evoluta, non è del tutto cambiata. Murray, riferendosi ai racconti degli anni ’90, richiama addirittura una sottile associazione al freak show, citando Rosemarie Garland-Thomson (2005), 34 che descrive come la fotografia popolare basi il rapporto tra spettacolo e spettatore fissando l’attenzione sulla disabilità: anche nel caso dell’autismo sarebbe questa la relazione costruita, ma “messa in mostra” per un pubblico mainstream (inoltre, secondo Murray, il corpo autistico, a differenza di quelli che presentano chiari segni di disabilità, non ne mostrerebbe di evidenti, anche se a nostro avviso il linguaggio cinematografico potrebbe rendere relativo il presupposto). Questi racconti, insomma, per lui mancherebbero di «una vera esplorazione delle complessità dell’agentività o della soggettività autistica», rese grandiose ma, di fatto, passive.

Secondo la Nadesan la fascinazione del pubblico per il tema deriverebbe in gran parte da una rappresentazione dell’autismo attraverso tropi postmoderni come il «cyborg o il computer» (Osteen, 2008), derivanti dalla nozione che le persone autistiche siano «tecnologicamente dotate» e «particolarmente abili con la tecnologia informatica». Baker è ancora più radicale. Per lui film come:

«Rain Man, Cube e Mercury Rising propongono un modello computazionale non umano del cervello autistico. Secondo questo modello, gli individui con autismo elaborano informazioni e stimoli in modo molto simile a un computer, matematicamente, in modo coerente. E queste abilità non sono apprese ma innate, precodificate. Un tale modello aiuta a perpetuare diversi miti pericolosi che costruiscono gli individui con autismo come robotici. I robot, dopotutto, non sono in grado di apprendere come imparano gli umani tipici, incapaci di esprimere emozioni e incapaci di pensare da soli. Per funzionare, computer e robot necessitano di programmazione da parte di esperti» (Baker, 2008, pp. 236-237).

Per Baker, insomma, oltre ad esserci un problema di rappresentazione, il quale resterebbe limitato ad un’eccezione che rischia di farsi accezione e rende fraintendibile la disabilità al grande pubblico, ce ne sarebbe uno più grave, di carattere “etico”, legato alla disumanizzazione del personaggio (in Rain Man è particolarmente ricalcata anche dal montaggio). Seppur l’idea di partenza di Rain Man, come probabilmente i testi di Murray e Baker, anch’essi padri di figli nello spettro, nasca dal desiderio di un padre di sensibilizzare sulla condizione del figlio, il punto non sta tanto nel fatto che questi film rappresentino la rarità o unicità in sé, ma che tali caratteristiche renderebbero il personaggio “superhuman” (Baker, 2008). Baker sostiene infatti che «quando il pubblico non ha esperienza diretta con una disabilità, le rappresentazioni narrative […] ne forniscono delle rappresentazioni potenti e memorabili», simili a premi di consolazione, appunto. Martha Nussbaum (2001)35 definisce compassione – che distingue dall’empatia 38 – l’atteggiamento il quale «può andare di pari passo con un sentimento di superiorità (‘poveretta’) che anche le persone gravemente disabili giustamente considerano paternalistico», aggiungendo che «può facilmente portare alla colonizzazione». Se volessimo ritradurlo con le sarcastiche parole di Marina Cuollo (2017), infatti, somiglierebbe a quella propensione che dice «diversamente ipocrita», 36 quale il “punto di vista” della camera può riprodurre, lasciando trasparire senso di distanza dal personaggio o il proprio giudizio. Non a caso le soggettive di Raymond sono nulle: ne è accennata solo qualcuna, falsa, proprio quando i suoi “poteri” sono “in funzione” (ad esempio al casinò), e il montaggio, insieme alla disposizione degli elementi all’interno del piano, 37 accentua le associazioni tra lui e il mondo artificiale, accostando spesso piani ravvicinati ad inquadrature di dispositivi elettronici od oggetti in movimento, accompagnati talvolta da rumori macchinici. 38

In effetti, se concepiamo lo sguardo in quanto «parte integrante dei sistemi di potere e delle idee sulla conoscenza», 39 la metafora della colonizzazione si adatta perfettamente anche alla conquista hollywoodiana che, dagli schermi americani ai mondiali, si è propagata oltre lo spazio e il tempo fino al nostro tutt’ora vivo immaginario. Murray, facendo riferimento a Il cinema dell’isolamento di Martin F. Norden, insegnante di cinema all’University of Massachusetts, afferma che:

«[…] la rappresentazione di una serie di disabilità diverse nei film di Hollywood ha poco a che fare con le esperienze reali di coloro che vivono con le disabilità in questione. Norden osserva che “l’industria cinematografica ha perpetuato o avviato una serie di stereotipi nel corso degli anni […] così durevoli e pervasivi da essere diventati la percezione delle persone disabili da parte della società principale e hanno oscurato, se non addirittura soppiantato, le percezioni di sé stesse delle persone disabili» (Murray, 2008, p. 244).

Anche Murray ammette infatti l’esistenza di un “potere culturale” del cinema hollywoodiano il quale, se non possiamo regolare, secondo lui possiamo almeno imparare a leggere. E si potrebbe reinterpretare come il corrispettivo cinematografico, nonché sguardo, di quella che Blume (1998), parodisticamente parlando, chiamava “sindrome neurotipica”: un disturbo «caratterizzato da preoccupazione per le faccende sociali, illusioni di superiorità e ossessione per il conformismo». D’altro canto, Damian Milton rilegge l’autismo proprio come «la risposta della natura all’eccesso di conformità», 40 per cui una sua resa perfettamente automatica e artificiale, in un’ottica socio-culturale, rappresenterebbe invero il contrario della realtà. Silberman (2016, p. 354) notava che nel caso di Kim Peek «la Natura aveva già messo in atto l’operazione che lo aveva reso un genio>» ma di conseguenza, similarmente a Baker, si chiedeva: «il pubblico cinematografico avrebbe accettato come umano un adulto con una menomazione permanente?»
Forse, fuori dal cinema, no. Ma a cinema sì. Il suo potere sta pure qui, nel riuscire non solo a farci “accettare”, ma anche appassionare a ciò che nella vita ignoreremmo, rifiuteremmo, o vedremmo diversamente: ma appunto ci sono vari modi per farlo. Ad esempio, secondo Silberman a quell’epoca «l’idea di un film di Hollywood con un personaggio principale ‘ritardato’ era quantomeno inusuale». Il tratto di genio sarebbe dunque stato l’ingrediente basilare per contrappesarlo, rendendo il piatto filmico accettabile e appetitoso. Oggi gli antiquati termini “ritardo” e “menomazione” – qualsiasi cosa vogliano dire – sono fuori uso, non solo perché si parla “disabilità intellettiva”, “cognitiva” o più precise condizioni organiche, pur mai isolabili da un contesto e/o da una norma di riferimento. Non solo perché oggi sappiamo che tali specifiche siano da considerarsi distinte dall’autismo in sé, collettore di caratteristiche che può come può non comprenderle (e viceversa), ma che pure se vi siano associate, a maggior ragione sarebbero rileggibili nel senso di una rinnovata e pratica concezione di neurodiversità. Perché se il concetto di disabilità in sé può essere molto discutibile, nel caso degli autismi è ancora più relativo: l’ottica dei Critical Autism Studies «critica la definizione dominante dell’autismo come deficit neurologico» (Medeghini, 2020, p. 12), dunque il modello del deficit, «che definisce i comportamenti e gli atteggiamenti in termini di mancanza e di normalità» (Medeghini, 2015, 2020), e accoglie quello della neurodiversità che «offre una visione positiva dell’autismo». Ciò non significa negare l’eventualità di importanti compromissioni o disagi legati alla condizione, ma al contrario assumere il criterio di neurodiversità, proprio nella sua duplice accezione biomedica e socioculturale, come filtro dal valore tanto concreto quanto etico per approcciare gli autismi, oltre i moralismi, in quanto differenti linguaggi.41 Il “difetto” spesso è solo una differenza imbrigliata dai nostri inespugnabili termini di paragone: le lancette di un orologio sono in ritardo rispetto all’ora predefinita, ma forse prima hanno fatto il triplo dei giri, e una lingua diversa da quella che usiamo ci sembra un italiano sbagliato, ma forse è solo quella di un paese di cui per primi ignoriamo l’esistenza e i codici. Dopotutto ogni tipo di rapporto umano è un rapportarsi con altro da sé, ma secondo Gianluca Nicoletti, «i cervelli ribelli mettono in discussione le certezze della società, questo è il loro limite». Nonostante la Nadesan parli di un «chiaro status di compromissione neurologica» 42 dell’autismo, anche secondo lei nel mondo contemporaneo esso opererebbe «ancora frequentemente come un’idea costruita». In effetti, trent’anni dopo, in The Good Doctor vediamo sì un protagonista più attivo di Raymond, ma sentiamo anche un personaggio dire «sì è autistico, ma ha anche la sindrome del savant», come a tranquillizzare gli interlocutori (i quali peraltro dovrebbero assumere Shaun), e con essi il pubblico, che non sia “solo” autistico, malgrado il percorso che abbia fatto il concetto nel tempo. Ma Holly Allen afferma che «le menomazioni sono realtà corporee»,43 mentre «le disabilità sono costruzioni discorsive», e il film è discorso altro con cui discuterle: viste così, più che come “menomazioni”, Hollywood non avrebbe avuto bisogno di condire con salse di sovrumanità le sue “specialità” autistiche, solo di cambiare punto di vista. Lo stigma è (o non è) nel modo in cui il suo oggetto viene visto.

Rivedere l’autismo come soggetto filmico “normale” tra visione socioculturale e animismo del cinema

Murray ammette che, nonostante il fascino che spinge il continuo ritorno di Hollywood alla figura autistica (e pur non escludendo abbia prodotto anche film apprezzabili, quali la contengono senza averla sfruttata “come spina dorsale della trama”) è improbabile che in queste storie «si trovi il senso di un’agency produttiva disabile, in quanto la spinta dell’estetica commerciale del settore e il desiderio di conformità su questioni di relazioni sociali […] sono troppo prepotenti per consentire al pubblico di andare oltre i parametri offerti dal genere e dal sentimento».

In realtà, non solo nell’ottica di Milton, ma anche se pensiamo all’(ex) Sindrome di Asperger come inserita nella “storia più vasta, […] delle disabilità relazionali”, coincidente con «quella dell’individuazione delle non conformità alle attese dell’altro nell’interazione in presenza», l’estetica commerciale hollywoodiana “rappresenterebbe”, più che l’autismo, un controsenso rispetto alla sua ontologia. Se la non conformità è caratteristica determinante la condizione, una sua rappresentazione fedele non potrebbe infatti prescinderne né travisarla, non ne avrebbe bisogno: intanto, il criterio di rottura delle attese dell’altro, qualora sia inteso come pubblico, è anche benzina di una sceneggiatura che funzioni, in genere. Inoltre, il conflitto tra elementi è il motore della trama. E, nelle teorie di Béla Balázs, “il nuovo mondo” che il cinema avrebbe rivelato distinguendosi da altre forme di rappresentazione sarebbe stato proprio «[l]’ambiente visibile degli uomini e la loro relazione con esso», 44 potendo cogliere in particolare «la relazione empatica tra un personaggio e l’ambiente che lo circonda”, 45 in quanto:

[…] da un lato nasce in seno alla cultura capitalistica, e dall’altro rivela una nuova dimensione del visibile e rende possibile un riavvicinamento a quei caratteri individuali e sensibili delle cose che la vita moderna, col suo intellettualismo raziocinante, tende progressivamente ad occultare. […] Questa capacità di captare e restituire sullo schermo la dimensione fisionomica della realtà costituisce per Balázs l’essenza del cinema, lo specifico filmico, la nuova dimensione del visibile che il cinema sa rivelare in contrasto con l’impoverimento sensoriale che affligge lo spirito moderno» (Somaini, 2006, pp. 149-150).

L’autismo, definendo la propria “disabilità” proprio in “relazione” all’ambiente, incarnerebbe allora un conflitto, cardine di ogni storia, già in sé stesso. Tale conflitto, inoltre, avrebbe per oggetto proprio la relazione con l’ambiente, dunque l’oggetto specifico del cinema, ma in più, attraverso il soggetto autismo, il cinema rivelerebbe una dimensione empatica col mondo dal carattere peculiare. In tal senso, il “fattore autistico” si presta ad essere elemento e soggetto drammaturgico “raddoppiato”, “speciale”, potenzialmente interessante e forte nella propria naturale e semplice normalità.

“Non conforme” non significa qualcosa “in più” o “in meno”, ma qualcos’altro, nel suo essere al mondo. Matthew K. Belmonte, riferendosi all’autismo, usa l’espressione «human but more so». 46 Simile, in apparenza, al concetto di sovrumano, ne è agli antipodi non tanto per la matrice socioculturale, poetica o affettiva dell’espressione, ma anche scientifica, se si considera la Teoria del Mondo Intenso. 47 Secondo questa, il nucleo della condizione starebbe in un’eccessiva elaborazione e memorizzazione delle informazioni neuronali in circuiti locali del cervello, un iperfunzionamento che causerebbe iper-percezione, iper-attenzione e iper-memoria le quali potrebbero spiegare l’intero spettro delle manifestazioni dell’autismo, e per cui «la persona autistica è un individuo con capacità notevoli […] a causa di percezione, attenzione e memoria» più intense. Ma al contempo sarebbe proprio «» e caratterizzerebbe le condizioni dello spettro «in contrapposizione ai disturbi dell’ipofunzionalità, come spesso si presume» (H. Markram, K. Markram, Rinaldi, 2007). “Più umano”, allora, esattamente in chi ci distingue dalle macchine ma «in contrasto con l’impoverimento sensoriale» analogamente al cinema, macchina differente. Jean Epstein, in un’ottica animistica e non antropocentrica la vede come un mezzo:

che anima le immagini fisse […] in grado di animare il mondo […] che è stato immaginato, per mezzo della telecamera come sua incarnazione, come un agente autonomo che evidenzia una forma di “intelligenza” (macchinica) o “coscienza”» (Castro, 2015).

Nell’ottica epsteiniana il potere della cinepresa si baserebbe quindi su “principi” non solo paradossali per una macchina, ma anche antitetici ai tre punti relativi al robotico e passivo oggetto-autismo hollywoodiano individuati da Murray, seppur apparentemente simili.

Alla fine del suo capitolo arriva infatti a fare un esempio provocatorio e diametralmente opposto di “non conformità”, potremmo dire “attiva”, considerando «i 485 minuti di Empire (1964) di Andy Warhol, un film che – con il suo focus continuo e inedito sull’Empire State Building – potrebbe qualificarsi come una genuina narrativa autistica». Anche se Judith Gould del Lorna Wing Center for Autism sostiene che Warhol avesse “quasi certamente” la Sindrome di Asperger, e lui probabilmente risponderebbe «Nobody wanted to stay in one category; we all wanted to branch out into every creative thing we could», 48 anche per la Nadesan l’autismo «non è una cosa, ma è una categoria nominale utile per raggruppare persone eterogenee che condividono tutte le pratiche comunicative che si discostano notevolmente dalle aspettative della normalità». “Classificabile”, sì, ma “inclassificabile” entro le griglie di una norma comunicativa standard, piuttosto creativa: come se l’assonanza tra “autistico” e “artistico” (ormai più che utilizzata, già in Rain Man si giocava coi termini, seppur stavolta con sarcasmo rispetto alla disinformazione sulla condizione dell’epoca) destini i due fattori a una corrispondenza semantica, oltre che sonora. Perché se il criterio di interattività può essere applicato, oltre che alle cose, all’autismo, tale sua concezione è applicabile, oltre che alle persone, ai film, oggetti-immagine e pratiche comunicative anomale rispetto alle umane. Se Empire, in relazione al mainstream, è un esempio radicalmente anticonvenzionale, esso si fa anche metafora dell’autismo come punto di vista divergente da quello della maggioranza. Inoltre, se concepiamo la differenza, come proposto da Medeghini (2015, 2020): “svincolata da qualsiasi norma esterna ed espressa attraverso modi originali e personali di leggere, interpretare e vivere il mondo”, essa è a maggior ragione accostabile a un’opera. Balázs, riprendendo Rudolf Kassner, dichiara che: “Un buon film non ha alcun ‘contenuto’. Esso è simultaneamente ‘nocciolo e guscio’”. […] Il cinema è un’arte della superficie e in essa ‘ci che è dentro, è fuori’”. 49 Come lo sguardo divergente (in qualunque accezione si intenda l’aggettivo) “in” e “di” Empire.

L’esigenza di una critica e di una nuova teoria

Murray sa però che il grande pubblico non sceglierebbe mai un film del genere. Inoltre, come non tutti sono Rain Man, non tutti sono Andy Warhol (sempre ammesso che una diagnosi post-mortem sia attendibile, ma da vedere in ottica anglosassone, da tempo aperta al suo status di “condizione”), ma a maggior ragione si cercano altri sguardi. Nei dibattiti cinematografici, oltre a quello imperiale, non sono mancate teorie sullo “sguardo maschile” 50 (Mulvey, 1975), come sullo “sguardo medico” 51 (Foucault, 1969), e il neuropsichiatra Maurizio Bonati (2019) individuerebbe proprio nello “sguardo”, oltre che nella “complessità”, due elementi che accomunerebbero, per libera associazione, autismo e cinema, 52 da approfondire. Ma ci sono anche altri specialisti di spessore che mostrano interesse per la causa proprio in relazione al cinema, come gli psichiatri Rory Conn e Dinesh Bhugra, i quali sull’International Journal of Culture and Mental Health dichiarano:

Abbiamo deciso di analizzare la rappresentazione dei disturbi dello spettro autistico (ASD) nei film di Hollywood. Questa condizione è stata scelta per due motivi: in primo luogo, c’è pochissima critica sull’autismo nel cinema, in secondo luogo, negli ultimi tempi il profilo di questa condizione ha acquisito molto significato culturale. Abbiamo deciso di esplorare le possibili ragioni per cui le rappresentazioni autistiche sono diventate sempre più importanti nel cinema. Miriamo a decostruire alcuni dei temi comuni a questo genere di “film sull’autismo”». 53

I due medici ci confermano dati di estrema rilevanza: il cinema è fondamentale nella costruzione e decostruzione dell’idea, già di suo interattiva, di autismo, tanto da risultare essenziale anche in campi teorici esterni a quelli umanistici. Tale proposta non proviene infatti dal suo settore specifico ma, seppur – anche – a scopi didattici, da due psichiatri che, come per un’inversione di ruoli, manifestano l’esigenza della messa in discussione del “profilo di questa condizione” non in senso medico ma cinematografico, riconoscendone, dall’ambito clinico, il “significato culturale”, quale andrebbe dunque oltre gli interessi dello studioso di cinema, come della persona che vive più o meno da vicino la condizione. È di conseguenza anche prova dell’insussistenza di una critica, teoria e ricerca proporzionate al peso che l’immagine dell’autismo riveste nella nostra cultura, di cui la mediatica è specchio.

Ma anche secondo Murray quella che considera “disabilità cognitiva” non solo occuperebbe ancora uno “spazio relativamente periferico” negli stessi studi sulla disabilità (che estende “le intuizioni della teoria femminista, postmoderna e postcoloniale e degli studi sociali e retorici a… analizzare la disabilità come costrutto socio-politico”), ma mancherebbe di un suo “trattamento critico” e “ugualmente una rigorosa teoria o discussione”, specificamente relativi alla sua rappresentazione cinematografica… “in teoria”, per l’appunto.

Perché in pratica, col recente caso Music 54 della cantante Sia una voce è esplosa, come se il processo di intensificazione della produzione a tema avesse raggiunto il culmine, ma sollecitando circa 17.000 firme per il ritiro del film e dilagando la notizia della “rivolta” fino ai Tg italiani. Le associazioni per i diritti delle persone autistiche avrebbero criticato la rappresentazione della condizione, ritenendola un triste ritorno a Rain Man, per alcuni aspetti considerati abilisti. Ma al di là delle critiche il caso ci interessa perché è la prova che esista già una critica: sotterranea, spontanea, informale, un magma sottoculturale che, seppur non ancora sgorgato in superficie e confluito in ambito accademico porta a galla un’urgenza calda, concreta, collettiva e, oseremmo dire, oggettiva.

Un simile fenomeno, seppur meno rumoroso, si era già manifestato nel 2019 con Hors Normes 55, in Francia, e nello stesso periodo convergono altri segni di movimento, un risveglio dell’esigenza di “rivedere” alcuni sguardi sull’autismo. Per fare solo due esempi, L’autismo oltre lo sguardo medico esce in Italia nel 2020, e dello stesso anno è Neurodiversity Studies, A New Critical Paradigm, in cui vien presa una posizione che, pur non ancora d’ambito prettamente cinematografico, coinvolge i Media Studies e, quasi anticipando il caso Music, similarmente a Norden, dichiarava: «Crediamo che una posizione di neurodiversità sia essenziale per combattere lo stigma che mina il benessere degli individui neurodivergenti». 56

Il nostro campo d’indagine specifico, però, qui è il cinema, industria e arte. E il motore dell’arte è forse quello di unire, più che dividere. Aprire strade, non chiuderle. Comunicare, per non isolare. Sbagliare, per apprendere. Decostruire… per ricostruire. Secondo Baker «i testi popolari vengono messi in discussione o sostituiti solo quando nuove narrazioni pubbliche o esperienze private li rendono insufficienti o imprecisi». Il superamento sta nell’elaborazione, non nell’evitamento: se lo sguardo del cinema ha contribuito a creare stereotipi, può contribuire a superarli. Se lo sguardo umano ha visto l’autismo come una macchina, l’occhio di un’altra macchina lo riumanizzerà. Se quello umano ha visto l’autismo cieco, l’occhio non umano del cinema gli farà da specchio, mostrerà come vede il mondo e ritroverà la sua anima laddove quello umano è cieco. Se, per “funzionare” bene, si è dovuto silenziare e disumanizzare, una macchina sociale e visuale ci restituirà un linguaggio più brillante delle nostre annaspanti parole. Ma c’è bisogno di una nuova lente, interpretativa e agente. La disabilità cognitiva e/o relazionale è l’accidentale guasto di un computer o solo l’abilità della natura a ricrearsi un altro sguardo necessario ad un’epoca?

Una nuova lente

Non esistono ancora degli “Autistic Film Studies”, ma già nel 1999 la Singer parlava del neurologicamente differente come di “una nuova voce da aggiungere alle categorie politiche familiari di classe/genere/razza e un’integrazione del modello sociale della disabilità”, una “lente analitica” (rivista nel 2020 come “strumento”), con cui esaminare le questioni sociali, la quale non è stata ancora posta ufficialmente tra gli “obiettivi” del cinema, nonostante sia lente letteralmente ottica, oltre che analitica, per eccellenza. Ne Il cinema e il diavolo di Epstein (1947) il cinematografo, “agente come un super-organo sensoriale complesso” era dotato di “lenti”, che avevano lo scopo di «fabbricare, immagini, sceglierle per renderle visibili nell’invisibile […] elevarle all’improvviso, dalla non apparenza, dal non essere, al rango di realtà sensibile». 57 Anche l’ungherese Balázs parlava di una lente, più concretamente:

«La lente del cinematografo ci avvicina alle singole cellule del tessuto della vita, ci consente di sentire la materia e la sostanza della vita concreta. Essa ti mostra ci che fa la tua mano, mentre tu non vi presti attenzione e non la noti, mentre essa accarezza o colpisce. Tu vivi in essa ma non la guardi. Ti palesa il volto intimo di tutti i tuoi gesti vitali nei quali si manifesta la tua anima, e tu non la riconosci. La lente dell’apparecchio cinematografico ti mostrerà la tua ombra proiettata sul muro, l’ombra con cui vivi, senza notarla […]» (Balázs, 1941, 2006, p. 153).

Se la sensibilità descritta da Balázs non fosse riferita a una lente artificiale ma a una persona, nel concentrarsi sull’inosservato, palesare l’intimo, e farsene ombra, forse apparterrebbe a una nello spettro: ci ricorda infatti la percezione narrata, sia dall’interno che dall’esterno, di molti autismi. A sua volta il cinema, imponendosi al tempo stesso come nuovo “organo di senso attraverso cui esperire il mondo”, nuova “facoltà percettiva”, e nuova “tecnica del vedere e del mostrare” (Somaini, 2006, p.144), avrebbe molto in comune con la lente della neurodiversità, concettualmente, ma finanche concretamente, se ci basiamo su molte autiebiographies.

Lente cinematografica e neurologicamente differente potrebbero allora convergere in un’unica “lente neurodivergente” 58, strumento e approccio di analisi e creazione, in cui lo sguardo non umano ma animista della camera si fonde con lo sguardo sul mondo delle persone che vivono da dentro o da vicino la condizione, riflettendo entrambi “differenze come pluralità di visioni, di senso, di modi” (Medeghini, 2020) e alimentandosi l’un l’altro. Il cinema “normalmente autistico” che intendiamo, infatti, non è una piatta rappresentazione dell’autismo, ma il suo stesso sentire e vedere. Un informale ma genuino esempio è In my language, di Mel (Amanda) Baggs, 2007, ma abbiamo anche opere letterarie in cui la forza e il ritmo delle immagini “dall’interno” le rendono sceneggiature già pronte per l’uso. 59 Inoltre, come in Empire, le immagini possono farsi metafora dell’autismo, riprodurre o riflettere il suo sguardo sul mondo (non solo in senso letterale, ma pure “dall’esterno”, se con approcci fedeli e vicini alla realtà del soggetto-oggetto rappresentato) anche se il regista non rientra nello spettro: è lo sguardo della camera (e/o il suo oggetto-soggetto), a essere “neurodivergente”, non necessariamente l’autore.

Edgar Morin ne Il cinema o l’uomo immaginario parla addirittura di una “psiche del cinema”, nel senso che

«non elabora solo la percezione della realtà; secerne anche l’immaginario. Vero e proprio robot dell’immaginario, il cinema immagina per me, immagina al mio posto e al tempo stesso fuori di me, con un’immaginazione più intensa e precisa». 60

che ricorda un po’ la Teoria del Mondo Intenso.

Da sempre tecniche e tecnologie di visualizzazione non assolvono a una pura funzione strumentale, 61 ma sono anche “trasformazioni interiori della coscienza”, e usare l’analisi del cinema come metodo di studio dell’autismo, significherebbe da una parte coinvolgere quelli umanistici nel dibattito scientifico sul tema, dall’altra recuperare lo scopo scientifico alle radici della storia del cinema stesso, 62 quando “Un ‘metodo cinematografico’ della scienza associato all’emergere di un ‘homo cinematicus’ era inseparabile dallo sviluppo delle scienze della vita e delle moderne culture visive” (Lorusso, Venturini, 2019).

Elisa Binda (2017), riferendosi al protagonista del documentario Life, Animated, 63 Owen, scrive che lui sia la prova di “come la costituzione della nostra esperienza sensibile e della nostra identità si origini, oggi più che mai, dalla relazione con i media che articolano il nostro ambiente, in particolare con quelli audiovisivi”. Una coincidenza che sia proprio un ragazzo autistico a rappresentare questo dato di fatto? Se può farsi simbolo di una società il fattore autistico, più che fuori, forse, è dentro, al mondo, più che superhuman, è human… but more so, nel percepirlo con meno filtri e più forza: la tecnologia si fa filtro protettivo dal mondo per Owen, e Owen tramite la tecnologia si fa filtro percettivo del mondo per noi. Diventa l’homo cinematicus, potremmo dire, per antonomasia, in cui la società può rispecchiarsi grazie a quell’emotività, sensibilità ed empatia affettiva più esposte, reattive o intense che le immagini possono recuperare nella loro evidenza.

Life, Animated, Roger Ross Williams, 2016.
Life, Animated, Roger Ross Williams, 2016.

La Binda, involontariamente, risponde alla domanda di Hacking: queste opere, forse, fioriscono proprio ora perché questa società necessita del sentire e del vedere autistici, “in contrasto con l’impoverimento sensoriale che affligge lo spirito moderno” poiché quello contemporaneo ha sempre più bisogno di sentire e vedere più profondamente. Secondo McDonagh nel cinema e nella letteratura l’autismo sarebbe “usato come metafora” e anche come categoria diagnostica avrebbe funzionato così bene perché “la concepiamo come metafora di qualcosa che portiamo dentro di noi”. 64 E si presta ad esserla perché questo qualcosa, nel fattore autistico, è contemporaneamente dentro e fuori. Seppur il cinema hollywoodiano ne ha mostrato più il guscio del nocciolo, un film non avrebbe successo senza coinvolgimento, ma non esisterebbe coinvolgimento senza rispecchiamento o risonanza con qualcosa di cui il nostro corpo ha cognizione o necessità, come le teorie sull’empatia cinematografica, 65 oltre alle neuroscienze, oggi potrebbero spiegare. Melanie Yergeau, d’altronde, si pone criticamente rispetto alla netta distinzione autismo/neurotipicità, facendo notare che alla domanda “Chi è autistico?” si possa rispondere con «Chi è veramente neurotipico?» (Yergeau, 2010) svelando uno dei punti più fragili delle teorie sull’autismo. Ma se non siamo così differenti, a maggior ragione una lente neurodivergente non è interesse solo delle persone nello spettro.

Se con l’avvento del cinema lo spettatore, secondo Balázs, non si troverebbe più «di fronte a un mondo chiuso in sé, impenetrabile, distante, bensì verrebbe accompagnato dalla cinepresa nel mezzo delle cose» (Somaini, p. 145), il cinema potrebbe farsi tramite per la riemersione del nocciolo, sotto al guscio, dell’autismo. Ma l’autismo si farebbe il tramite per far riemergere quello del cinema, “arte della superficie”, recuperando la sua essenza e, quindi, qualità. In un film – forse non a caso – ungherese, questa coincidenza è evidente: Testről és lélekről (Corpo e Anima), 70 Ildikó Enyedi.

Corpo e Anima come “lente neurodivergente”

Nel 2017 esce Corpo e Anima che, oltre ad aggiudicarsi una nomination agli Oscar come miglior film straniero, svariati premi agli European Film Awards, e un Orso d’Oro come Rain Man, è considerato un film di sguardi profondi, di empatia autentica”, ma non più nel senso di compassione per la protagonista, bensì di empatia della protagonista e della videocamera. Definito “un film molto semplice, una semplice storia d’amore” e nato non per “sensibilizzare” sull’autismo/AS, la condizione non viene mai richiamata se non come vaga possibilità, fuori dalla diegesi e informalmente, ma dalla stessa regista. Infatti la forza del film sta proprio nel non essere stato costruito a partire dall’autismo, ma dal mondo interiore, del personaggio, di cui si fa metafora: lo stile estetico dell’opera pare incarnare lo stile cognitivo della protagonista Mária, trasformando il testo filmico in una “poesia”, nella quale l’autismo prende corpo liberandosi, attraverso le immagini, da quelle che lo avevano erroneamente irretito in “patologia”. Eppure lo sguardo della camera non nega il senso di disagio di Mária, tutt’altro: ma se Rain Man spettacolarizzava i tratti più eccentrici del personaggio, la camera di Corpo e Anima, al contrario, renderà visibili quelli invisibili, accostandosi con delicatezza all’intimo della protagonista, eroina del quotidiano. Il film è fatto tutto di piccolissimi dettagli e ogni gesto ha un’importanza: il focus sul movimento della punta dei pollici, ad esempio, come fosse quella di un iceberg, ci racconta la compressione di una forte emozione, svela al pubblico il non detto di Mária e apre un varco sul suo mondo sommerso. Le immagini ci permetteranno di accedere a quello che Balázs chiamava il “volto delle cose”: la “qualità morale” sulla e sotto la superficie delle immagini, l’anima di un corpo colonizzato dal senso comune. Mária è presa in giro dai colleghi come aliena, robot, genio, marmorea, pietrificante, inquietante (stereotipi che sembrano ricalcare, involontariamente, quelli hollywoodiani), ma la mdp qui, invece che enfatizzare i clichés, userà la propria agency per ribaltarli: l’empatia della protagonista si rivelerà e crescerà proporzionalmente all’intensificarsi di specifici filmici come la fotogenia e l’animismo delle immagini, che restituiranno la «grazia dell’istinto animale» (Epstein, 1946) al personaggio, sciogliendone l’iceberg esteriore. Camera ed editing, inizialmente concentrate sui minimi gesti della protagonista divergenti nel sociale, attraverso associazioni visive e sonore tra elementi apparentemente indipendenti o in contrasto tra loro, avanzeranno in costante equilibrio tra percezione esterna e interna, realtà e sogno, cultura e natura, luce, ombra e altre dicotomie che, dietro l’illusorio conflitto di una separazione, mireranno a convergere in una fusione, la quale coinciderà anche con quella di Mária a parte del mondo esterno e interiore.

Corpo e anima, Ildikó Enyedi, 2017
Corpo e anima, Ildikó Enyedi, 2017

Per questi e tanti altri motivi che richiederebbero un’analisi ben più articolata (la si è approfondita altrove), basti accennare che il film è un ottimo esempio di lente neurodivergente in atto: nel mezzo di un’anima umana, per mezzo del corpo macchinico, fusi in uno stesso linguaggio divergente, audiovisuale, in un solo testo di definizione, umanistico e potenzialmente scientifico, ma animistico prima che autistico. Perché un buon film “sull’autismo” può essere, forse, uno che recupera “semplicemente”, l’essenza del cinema stesso e con esso dell’umano, nella sua naturale imperfezione. Di conseguenza il fattore autistico non è solo una possibile caratteristica del personaggio, del film, o del suo tema, ma anche un potenziale paradigma di qualità cinematografica, vettore di riemersione di autenticità, dunque motivo di arricchimento a priori per la cultura visuale.

È vero, nello spettro di persone «non ce ne sono due uguali», ma «l’autismo/AS è un vettore di differenziazione, non di omologazione» (Valtellina, 2020, p. 46). E se «un discorso affermativo collettivo finisce per perdere lo specifico della condizione, la singolarità», recuperare lo specifico del cinema può forse ritrovarla in termini di originalità e, attraverso l’atipico sguardo del film, riscoprirla in profondità: il luogo in cui l’esperienza del singolo e quella collettiva si incontrano, il luogo che forse cerchiamo su uno schermo.

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Testről és Lélekről, Ildikó Enyedi, 2017.
The Good Doctor, David Shore, 2017.

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Note:

1) A. D. Baker (Tr.), Recognizing Jake: Contending with Formulaic and Spectacularized Representations of Autism in Film, in M. Osteen Autism and Representation, Routledge, Taylor and Francis Group, New York – London 2008, p. 242.
2) “Autobiografie. Biografie. Spettacoli teatrali. Film. Documentari. Romanzi. Storie per bambini. Migliori manga per adulti. Fumetti fantasy spaziali per più o meno adulti, ora chiamati graphic novel. C’è l’esilarante speciale della HBO del 2007, Autism: The Musical, su un gruppo di Los Angeles che ha messo insieme un musical in cui i cantanti sono bambini autistici. E soprattutto, c’è una grande quantità di narrazioni su Internet, che è diventata una casa vivente per così tante persone autistiche. Ci sono anche romanzi retroattivi sull’autismo; […] riletti come romanzi i cui personaggi sono autistici”. I. Hacking (Tr.), Autism Fiction: A Mirror of an Internet Decade, University of Toronto quarterly, Vol. 79, n. 2, 2010.
3) E. Valtellina, Tipi Umani Particolarmente Strani, La Sindrome d’Asperger come oggetto culturale, Mimesis, Milano – Udine 2016.
4) T. Castro (Tr.), An Animistic History of the Camera: Filmic Forms and Machinic Subjectivity, in A History of Cinema Without Names, Udine – Gorizia FilmForum, XXII International Film Studies Conference, 2015.
5) P. McDonagh, Il modernismo e la nascita dell’autismo in E. Valtellina, L’autismo oltre lo sguardo medico, I Critical Autism Studies. Vol. 1, Collana Disability Studies, Erickson, 2020, p. 121, da Modernism and the birth of autism. Osteen (2008).
6) The Good Doctor, David Shore, 2017 [dal pluripremiato Good Doctor (Gut Dakteo), Ki Min-soo, Kim Jin-woo, 2013, ispiratore anche di Good Doctor (Guddo Dokuta), di Hiro Kanai e Hideyuki Aizawa, 2018].
7) P. Sutera, The Good Doctor, cosa conferma e cosa ci dice di nuovo il record d’ascolti su Raiuno, http://www.tvblog.it/post/1551350/the-good-doctor-rai-1-ascolti 8 Atypical, Seth Gordon, 2017 (prima stagione).
8) Aggiornata al 26 luglio 2021.
9) Rain Man, Barry Levinson, 1988.
10) Baker in Osteen, 2008, p. 229.
11) S. Murray (Tr.), Representing Autism: Culture, Narrative, Fascination, Liverpool University Press, 2008, p. 84.
12) S. Murray (Tr.), Hollywood and the Fascination of Autism, in Osteen, 2008, (pp. 244-255), p. 245.
13) S. Silberman, NeuroTribù, i talenti dell’autismo e il futuro della neurodiversità, LSWR, Milano 2016, p. 352.
14) I. Hacking, Come abbiamo imparato a parlare di autismo: il ruolo delle storie in Valtellina, 2020, p. 140, da How we have been learning to talk about autism: A role for stories, «Metaphilosophy», vol. 40, nn. 3-4, luglio 2009, pp. 499-516.
15) “House of Cards (1993), Silent Fall (1994), Cube (1997), Molly (1998), Mercury Rising (1998), Bless the Child (2000), Punch-Drunk Love (2002) […] What’s Eating Gilbert Grape (1993) […], Forrest Gump(1994), Nell (1994), Shine (1996), I Am Sam (2001)” (Murray in Osteen, 2008, p. 247).
16) In particolare si riferisce a “Mercury Rising (1998), Bless the Child (2000), Molly (1998), Rose Red di Stephen King (2002) e Cube (1997)” (Baker, 2008, p. 229).
17) “[…] estremo disagio con il discorso non familiare, parlata ecolalico e monotono, difficoltà a comprendere i segnali sociali, preoccupazioni insolite, pronunciata mancanza di affetto e ipersensibilità uditiva”. (Baker, 2008, p. 229) 19 Mercury Rising, Harold Becker, 1998.
18) R. Keller in S. Silberman, cit., ix.
19) “In verità, Raymond è un composto di Joe Sullivan e di un giovane del New Jersey chiamato Peter Guthrie” (Silberman, 2016, p. 361).
20) Murray (2008, p. 12) in E. Valtellina, 2020, p. 120.
21) G. Simondon, Imagination et invention, La Trasparence, Chatou 2008, pp. 12-13, cit. in E. Binda, Fernand Deligny, Il gesto e l’ambiente, Cinema e Pedagogia, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2017, p. 45.
22) M. H. Nadesan, Constructing Autism – A Brief Genealogy, in Osteen, pp. 82, 85 e Osteen, p. 11-12.
23) Autism & the Internet or It’s the wiring, stupid, 1997, H. Blume, tra i primi a usare il termine “neurodiversità” col suo seguente articolo, Neurodiversity, On the neurological underpinnings of geekdom (Blume, 1998).
24) Valtellina, 2020, p. 29.
25) J. Singer, What is Neurodiversity?, in NeuroDiversity 2.0, https://neurodiversity2.blogspot.com/p/what.html.
26) J. Singer, «Perché non riesci a comportarti da persona normale, una volta nella vita?»: Da un «problema senza nome» all’emergenza di una nuova categoria della differenza, in Valtellina, 2020, p. 52 da «Why can’t you be normal for once in your life?» From a «problem with no name» to the emergence of a new category of difference, in M. Corker e S. French (a cura di) (1999), Disability discourse, Buckingham – Philadelphia, PA, Open University Press.
27) Attualmente sostituita dall’espressione Disturbi dello spettro autistico di livello 1” o “2” (ASD) in American Psychiatric Association, DSM-5, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, 2013.
28) Valtellina, 2016, p. 23.
29) “Allo stesso tempo, però, il concetto di neurodiversità si presta ad alcuni rilievi critici non secondari: innanzitutto, la sua attribuzione data prevalentemente alle forme più lievi di autismo e alle persone definite ad alto funzionamento e, secondariamente, al rischio di un imprigionamento dell’esperienza all’interno di un determinismo neurologico, riduzionista” R. Medeghini, Norma e normalità nei Disability Studies, Riflessioni e analisi critica per ripensare la disabilità, Erickson, 2015, e Medeghini in Valtellina, 2020, pp. 12-13.
30) M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique), Rizzoli, 2011 (1961, Svezia; 1963, Italia). 31) Un esempio particolarmente rappresentativo è Eccentrico – Autismo e Asperger in un saggio autobiografico (Effequ, Firenze 2018) di Fabrizio Acanfora, vincitore del Premio Nazionale Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi 2019.
32) E. A. Kaplan, Looking for the Other: Feminism, Film and the Imperial Gaze, New York and London: Routledge, 1997.
33) Da notare che il momento di maggior “messa in funzione dei poteri” di Raymond, al casinò, cade proprio al centro dei tre quarti del film, momento che di solito corrisponde alla prova centrale del personaggio, secondo la struttura narrativa teorizzata da Christopher Vogler (1992) ne Il viaggio dell’eroe.
34) R. Garland-Thomson, Disability and Representation, PMLA 120 (2005): 522–27.
35) M. C. Nussbaum, Upheavals of Thought: The Intelligence of Emotions. Cambridge: Cambridge UP, 2001. 38 Secondo lei, la “ricostruzione immaginativa dell’esperienza di un altro, senza alcuna valutazione particolare di quell’esperienza” (Nussbaum, in Osteen, p. 8).
36) M. Cuollo, A Disabilandia si tromba, Sperling & Kupfer, 2017, p. 42.
37) L’indicazione luminosa del semaforo “walk”, che presto diventerà “don’t walk”, sembra accompagnare costantemente la testa di Raymond, prima da sopra, poi all’estremo laterale, come fosse un suo prolungamento.
38) La stessa apertura del film, che di solito presenta il tema, mostra un’automobile che scende dal cielo, immagine che pare preludere al fantascientifico, se non al futuro arrivo di un extraterrestre.
39) M. Sturken, L. Cartwright, Practices of Looking, Oxford University Press, USA, 2001-2009.
40) D. Milton, «La risposta della natura all’eccesso di conformità»: decostruire la sindrome di evitamento estrema in Valtellina, 2020, p. 149, da Nature’s answer to over-conformity: Deconstructing Pathological Demand Avoidance, «Autism experts», (sito Internet), 2013.
41) Fernand Deligny capì che erano i suoi ragazzi, col loro linguaggio spesso incodificabile, a “interrogare” lui e gli altri educatori sul “fare”, “sull’umano, non sull’umanità dei piccoli autistici”, su “lo specifico della (loro) relazione al mondo” (E. Valtellina, Autismo. Deligny: i bambini e il silenzio, Doppiozero, 2 aprile 2016).
42) Nadesan in Murray, 2008, p. 251.
43) H. Allen in Osteen, p. 3.
44) B. Balázs, Der Geist des Films, in Schriften zum Film, Herausgegeben von H. H. Diederichs, W. Gersch und M. Nagy, Budapest, Akadémiai Kiad – München, Carl Hanser Verlag, 1982, vol. II (1926-1931), (tr. it.
Estetica del film, traduzione di U. Barbaro, Roma, Editori Riuniti, 1954), pp. 14-15.
45) A. Somaini, Il volto delle cose. Physiognomie, Stimmung e Atmosphäre nella teoria del cinema di Béla Balázs, in T. Griffero – A. Somaini, « Atmosfere », numero speciale della Rivista di Estetica, 33, 2006, Rosenberg & Sellier, Torino 2007, p. 154.
46) Matthew K. Belmonte in Osteen, 2008, p. 166.
47) H. Markram, T. Rinaldi, K. Markram, (Tr.) The Intense World Syndrome – an Alternative Hypothesis for Autism, in Frontiers in Neuroscience, 2007, 1(1): 77–96.
48) A. Warhol, P. Hackett, Popism: The Warhol Sixties, Harcourt Brace Jovanovich, New York – London, 1980.
49) Balázs e Somaini in Somaini, 2006, p. 151.
50) L. Mulvey, (Tr.) Visual pleasure and narrative cinema, Oxford University Press, 1975.
51) M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, 1969 (Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical, 1963).
52) M. Bonati, Attraverso lo schermo, Autismo e cinema in età evolutiva, Il Pensiero Scientifico, 2019 Roma, p. 5.
53) R. Conn, D. Bhugra, The portrayal of autism in Hollywood films, International Journal of Culture and Mental Health, Vol. 5, pp. 54-62, 2012.
54) Music, Sia, 2021.
55) Hors Normes, Eric Toledano, Olivier Nakache, 2019.
56) A. Stenning, Understanding empathy through a study of autistic life writing, On the importance of neurodivergent morality, p. 1, Cap. 7, in Neurodiversity Studies, A New Critical Paradigm, a cura di Hanna Bertilsdotter Rosqvist, Nick Chown e Anna Stenning, Routledge, Londra-New York 2020. 60 Singer in Valtellina, 2020, p. 52.
57) J. Epstein, (Tr.) L’Intelligence d’une machine, Le Cinéma du Diable et autres écrits, Independencia Éditions, Paris 2014, pp. 177, 101.
58) Il suffisso “neuro”, qui, più che riferirsi a una netta categorizzazione di cervelli umani – il cui insieme presenta sfumature tanto varie, vaste e relative da rischiare di farsi riduzionista e separatista – è sfruttato, oltre che in termini socioculturali, in ottica metaforica, nel senso di un’immaginaria “divergenza” della lente cinematografica, dell’“intelligenza” (Epstein, 1946) macchinica, dall’umana, naturale, da cui “diverge” in quanto “artificialmente-/diversamente-/non-neurologica”.
59) F. Acanfora, Eccentrico – Autismo e Asperger in un saggio autobiografico, Effequ, Firenze 2018, pp. 135 e 151.
60) E. Morin (Tr.), Le cinéma ou l’Homme imaginaire, Minuit, Paris 1956, p. 206.
61) L. Lorusso, S. Venturini, (Tr.) Cinema and Neurology: from history to therapy in Brain and Art. From Aesthetics to Therapeutics, in B. Colombo (ed.), Brain and Art, Springer Nature Switzerland AG 2020, p. 95, (Online: 30 Agosto 2019).
62) “In medicina, anatomia, fisiologia e altre aree scientifiche, le risorse iconografiche hanno sempre giocato un importante ruolo nello sviluppo della ricerca. Le tecniche di visualizzazione, in particolare, hanno avuto un ruolo fondamentale fin dal Rinascimento e subìto diverse trasformazioni negli ultimi due secoli: la moderna neurologia, ad esempio, tra la seconda metà del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo è stata modellata e stabilita a contatto con i media ottici come la fotografia, la cinematografia e altri strumenti ‘meccanici’” (Lorusso, Venturini, 2019).
63) Life, Animated, Roger Ross Williams, 2016.
64) “[…] fa infatti appello alle nostre stesse paure segrete”. “Come nota Glastonbury (1997), il Novecento ha aperto lo spazio per una «dinamica autistica» nell’arte, e suggerisco che questa apertura dello spazio estetico e intellettuale — evidente nelle opere di Joyce, Musil, Beckett, Camus e altri — abbia contribuito anche al riconoscimento della condizione dell’autismo. Il modernismo ha creato un nuovo quadro percettivo, in cui gli scrittori possono creare nuove forme di identità, e Kanner e Asperger possono comprendere i loro pazienti — e l’idea di alienazione autistica, una «solitudine profonda» — in un modo inimmaginabile dai loro predecessori. I bambini che sarebbero sembrati parte di un gruppo ampiamente omogeneo di bambini «idioti» cinquant’anni prima avevano assunto nuove caratteristiche […]. L’autismo è apparso come una categoria diagnostica quando quelle qualità che sembrano definirlo — l’isolamento e l’alienazione, la necessità di stabilire rituali personali per imporre ordine nel mondo, la rimozione dal linguaggio delle funzioni referenziali e comunicative convenzionali — vengono a manifestarsi anche come componenti critiche dell’identità moderna […]” (McDonagh in Valtellina, 2020, pp. 11, 119).
65) E. Carocci, Il sistema schermo-mente, cinema narrativo e coinvolgimento emozionale, Bulzoni, Roma 2018. M. Yergeau, (Tr.), Circle Wars: Reshaping the Typical Autism Essay, Disability Studies Quarterly, The Ohio State University Libraries con Society for Disability Studies, Vol 30, n. 1, 2010 http://dsq-sds.org/article/view/1063/1222&gt. Testről és Lélekről (Corpo e Anima), Ildikó Enyedi, 2017.

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Immagine di copertina:
Atypical, Seth Gordon, stagione 3, 2019