All’indomani di una condanna, le parole contenute nel dispositivo sono l’unica certezza per commentare una sentenza che altro non è che una verità processuale di sintesi e verrà spiegata entro novanta giorni, con la pubblicazione delle motivazioni. Il mondo giuridico e giudiziario si regge in effetti su questo: documenti e carte bollate, rubriche e riferimenti incrociati, indizi e conclusioni. Ad esempio, nel dispositivo in cui si legge la condanna a tredici anni e due mesi di reclusione per Mimmo Lucano, oltre a mancare (ovviamente) le motivazioni, i capi d’accusa non sono riportati, ma sono individuati con riferimento a una rubrica non contenuta nel dispositivo ma, presumibilmente, stilata nel decreto di rinvio a giudizio. Così, il giurista abituato a basarsi solo sulle carte a propria disposizione dovrà accontentarsi di sapere che l’ex sindaco di Riace è stato condannato dal Tribunale di Locri, in primo grado, per i reati «ascritti ai capi» senza poter verificare quali siano gli illeciti effettivamente riconosciuti, salvo ricerche, e ancora ricerche, e contatti più o meno diretti con le parti in causa. Dunque infine, con una buona fonte, si può risalire al decreto di rinvio a giudizio, e scoprire che la condanna a Domenico Lucano riguarda: associazione a delinquere (art. 416 c.p.), turbata libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (640-bis c.p.), falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 476 c.p.), peculato (314 c.p.), falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative (art. 480 c.p.), abuso d’ufficio (323 c.p.). È stato invece assolto, perché i fatti non sussistono, per altri reati, tra cui quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 d.lgs. 286/98).

Matematicamente, visti i reati contestati, non può stupire il tenore della condanna e, in attesa delle motivazioni, pare evidente l’intento di spostare la questione su un piano burocratico, imputando colpe finanziarie, ipotizzando interessi e spregiudicate appropriazioni, eliminando quell’elemento invece centrale, e perfino rivendicato nelle intercettazioni, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Casomai lo stupore deriva da altre fonti, motivate e ormai pubbliche, a disposizione del giurista sul caso di Riace: è opportuno citarle, pur essendo a cognizione limitata in quanto riferite alle misure cautelari, per poi decidersi a dedicare l’analisi più al sistema politico che alle carte giudiziarie.

Quanto a queste, il procedimento contro Mimmo Lucano è assurto agli onori delle cronache il 2 ottobre 2018, tre anni fa, quando i giornali diedero notizia del suo arresto. Nelle centoventinove pagine dell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari, il giudice per le indagini preliminari stralciava la maggior parte delle accuse del pubblico ministero. «Gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, […], o presuntive e congetturali […], o – infine – sfornite di precisi riscontri estrinseci» (Tribunale di Locri, GIP, ordinanza 26 settembre 2018, p. 39). Si riconosceva una gestione non trasparente dei fondi, con l’assenza di rendiconti che indicassero puntualmente le spese e di registri che dessero conto con precisione dei nomi effettivi degli ospiti del sistema di accoglienza, ma non si riscontrava né un vantaggio per il sindaco, né l’enorme danno patrimoniale supposto dall’accusa.

«Alcun ingiusto vantaggio patrimoniale era infatti arrecato dal Lucano agli enti attuatori dei servizi di cui sopra. Considerato il notevole afflusso migratorio degli ultimi anni, i c.d. “lungo permanenti” sarebbero stati comunque sostituiti da altre persone, con esborso di somme di denaro dallo Stato alle cooperative identico a quello quantificato dagli investigatori, e conseguentemente con pari incassi da parte degli operatori privati: non si comprende quindi come possa sostenersi che la Pubblica Amministrazione abbia sofferto un concreto pregiudizio patrimoniale a vantaggio di questi ultimi. A ciò si aggiunga che, per quanto in violazione della disciplina illustrata nella parte iniziale del provvedimento, i suddetti “lungo permanenti” ricevevano comunque un servizio dagli enti attuatori, che necessariamente doveva essere loro retribuito: questi non hanno dunque conseguito nessun indebito arricchimento» (Tribunale di Locri, GIP, ordinanza 26 settembre 2018, p. 122).

Il giudice per le indagini preliminari finiva per riconoscere sorretti da un adeguato impianto accusatorio e da indizi di colpevolezza soltanto due dei quindici capi d’accusa, applicando solo per essi la misura degli arresti domiciliari. Venti giorni dopo, il 16 ottobre 2018, il Tribunale del riesame di Reggio Calabria avrebbe revocato gli arresti domiciliari per sostituirli con la misura cautelare (in teoria più blanda) del divieto di dimora nel comune di Riace, che sarà infine impugnata tramite ricorso in Cassazione. La Cassazione, oltre ad annullare con rinvio, stralcia pure uno dei due capi d’accusa sopravvissuti all’ordinanza del giudice per le indagini preliminari. Ma è il caso di tornare ai due capi d’accusa: quello riconosciuto fino in Cassazione, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, si è infine tradotto in un’assoluzione, mentre alla condanna è arrivata l’accusa di turbare la libertà nella scelta del contraente, con l’affidamento diretto a due cooperative sociali del servizio di raccolta porta a porta dei rifiuti, ipotesi su cui la Cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza cautelare, dubitando perfino della sussistenza «dell’elemento soggettivo dell’ipotizzata condotta delittuosa» (Cass. pen., 26 febbraio 2019, n. 14418).

Da un lato, dunque, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, attraverso l’emissione di documenti falsi e l’agevolazione di matrimoni di comodo. Quel che emerge dalle intercettazioni è la disponibilità del sindaco a cercare delle soluzioni creative, ossia, per citare le parole del giudice per le indagini preliminari, «muoversi sul confine (invero sottile in tali materie) tra lecito e illecito» (Tribunale di Locri, GIP, ordinanza 26 settembre 2018, p. 124). I fatti contestati riguardano, da un lato, il matrimonio di comodo tra Lemlem Tasfahun, compagna di Lucano, cittadina italiana di origine etiope, imputata a sua volta con il fratello, e dall’altro, la concessione di documenti a donne nigeriane, altrove vittime di sfruttamento della prostituzione, cui era stata negata la protezione umanitaria, con il consiglio di trovarsi un uomo italiano di stato libero da sposare per poter ottenere un permesso di soggiorno in ragione del matrimonio.

Quanto al primo fatto, Lucano sostiene economicamente e umanamente la compagna, decisa a portare in Italia il fratello. Gli imputati volano in Etiopia, si occupano dei documenti presso gli uffici locali, anche attraverso corruzioni (anche se dal tenore delle intercettazioni emerge la confusione sui pagamenti richiesti), ma il fratello-sposo viene arrestato proprio per possesso di documenti falsi. Dopo altri pagamenti, i due riescono a sposarsi in Sudan, o almeno a ottenere un certificato di matrimonio, e la sorella-sposa torna in Italia con l’intento di avviare il ricongiungimento familiare, che tuttavia fallisce.

Quanto invece alle responsabilità di Lucano a Riace, da un lato c’è la disinvoltura nel concedere la carta d’identità anche con permessi di soggiorno di breve durata, dall’altro, c’è il consiglio di organizzare matrimoni fittizi. Il sindaco cita il caso di un cittadino che ha sposato una ragazza con il preciso intento di garantirle un titolo di soggiorno in Italia e il caso di un altro cittadino, che non aveva mai avuto relazioni e che aveva accettato di prestarsi a un simile matrimonio simulato. Infine, propone alle ragazze un settantenne riacese, di stato libero e probabilmente affetto da un leggero ritardo, ma è infine proprio Domenico Lucano a opporsi alla celebrazione del matrimonio il giorno delle nozze, perché lo sposo nemmeno conosce il nome della sposa e, soprattutto, perché non c’è consapevolezza e accordo sull’effettiva finzione alla base del matrimonio: la donna, altrove in precedenza costretta a prostituirsi, intende sposarsi per ottenere il permesso di soggiorno, ma l’uomo non l’ha capito o, a detta di altri, non vuole capirlo, e pretenderebbe un pagamento in natura da quella che diventerebbe sua moglie. Il matrimonio prospettato viene quindi annullato dallo stesso sindaco che l’aveva proposto.

Ci deve insomma essere, nel matrimonio fittizio che Lucano si presta a celebrare, la consapevolezza di entrambi i coniugi sulla natura simulata delle nozze e la volontà di aggirare la legge con un fine diverso da quello dell’unione familiare, la stessa volontà che Lucano, in quanto responsabile dell’ufficio amministrativo, manifesta rispetto all’emissione di documenti: dalle intercettazioni emerge infatti chiaramente che Mimmo Lucano è consapevole di disubbidire alla legge, forzandone l’interpretazione e assumendosene la responsabilità.

«Sono un fuorilegge, perché per fare la carta d’identità io dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità, in più lei deve dimostrare che abita a Riace, che ha una dimora a Riace, allora io dico così, non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità e gli dico va bene, sono responsabile dei vigili, la carta d’identità tre fotografie, all’ufficio anagrafe, la iscriviamo subito» (conversazione n. 542, registrata alle ore 17:00 del 22 luglio 2017, citata nella citata ordinanza GIP 26.09.2018, p. 74).

Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è previsto dal testo unico sull’immigrazione, il decreto legislativo 268 del 1998. Questa norma, oltre a regolare il sistema dei permessi di soggiorno e a istituire i CPT, i centri di permanenza temporanea (poi diventati CIE, centri di identificazione ed espulsione), prevede anche, all’articolo 12, l’illecito penale per chi favorisca l’ingresso di stranieri nel territorio dello Stato, con la pena della reclusione da uno a cinque anni, ma anche da cinque a quindici anni per la forma aggravata di illecito, con l’aggiunta di una multa di 15.000 euro per ogni persona. Il comma 3-quater prevede peraltro che le circostanze attenuanti non possano mai prevalere, nel bilanciamento, sulle circostanze aggravanti. Si tratta peraltro, come ha avuto modo di precisare la Cassazione, di un reato di pericolo, a consumazione anticipata, che si realizza quindi a prescindere dall’esito del fatto illecito, cioè anche qualora il proposito degli agenti non fosse soddisfatto. Questo reato, così come il sistema burocratizzato di concessione di visti e permessi, non è un’invenzione di Matteo Salvini, né deriva dalla legge Bossi-Fini, né è opera di Maroni. A firmare il testo unico sull’immigrazione furono gli allora ministri di solidarietà sociale e degli interni, Livia Turco e Giorgio Napolitano. Sul tema dell’immigrazione, lo Stato mostra dunque un alto intento repressivo: nella cornice del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina soggiacciono sia le forme lucrative e violente di favoreggiamento (il traffico di esseri umani a scopo di tratta, a fronte di un pagamento o del successivo sfruttamento degli stranieri) sia quelle con intento solidaristico per aggirare un sistema difficilmente rispettabile: la pena per uno scafista o un trafficante intenzionato a sfruttare gli stranieri che abbia trasportato è la stessa che sarebbe inflitta a chi, come Mimmo Lucano, avesse emesso gratuitamente documenti falsi (o comunque privi dei presupposti) con il fine di evitare il rimpatrio a donne sfruttate sessualmente. Come precisato, però, nonostante le risultanze emerse in fase d’indagine, il sindaco di Riace è stato assolto per tale reato, perché i fatti non sussistono.

Resistono, invece, altre accuse, come quella di turbata libertà nella scelta del contraente, commessa rispetto all’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti alle cooperative sociali L’Aquilone ed Ecoriace. È il caso di semplificare al massimo, perché sul punto l’esegesi giuridica si scontra con il diritto amministrativo, le norme sulle cooperative sociali e il codice degli appalti. Esistono tre modi, per una pubblica amministrazione, per affidare un servizio a terzi. Il primo è la gara aperta tramite appalto pubblico, a seguito di un bando: le aziende interessate partecipano e, di norma, vince l’offerta al massimo ribasso, quindi chi si proponga di svolgere l’attività richiesta al minor prezzo. Il secondo è la procedura negoziata: si pubblica un bando, le aziende propongono delle manifestazioni di interesse e l’ente pubblico ne convoca almeno cinque, tra le quali si sceglie poi la vincitrice sempre attraverso le offerte al ribasso. Il terzo modo è l’affidamento diretto, che però deve sottostare a regole stringenti, proprio per evitare che si aggiri il buon andamento dell’amministrazione pubblica scegliendo le imprese erogatrici di servizi attraverso rapporti di clientela.

Uno dei casi in cui l’affidamento diretto è possibile, a certe condizioni, è quando l’attività venga assegnata a cooperative sociali. Le cooperative sociali sono regolate dalla legge 381 del 1991, che distingue tra cooperative sociali di tipo A, che si occupano di servizi socio-sanitari o educativi, e cooperative sociali di tipo B, che svolgono attività finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Le “persone svantaggiate”, che devono costituire almeno il 30% dei soci lavoratori della cooperativa, sono gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di ospedali psichiatrici, anche giudiziari, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro all’esterno. Con le cooperative sociali di tipo B gli enti pubblici possono stipulare convenzioni per la fornitura di beni e servizi, purché gli importi siano inferiori ai limiti previsti dalle direttive europee, l’attività sia finalizzata a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate e le cooperative in questione siano iscritte all’apposito albo regionale.

L’Aquilone ed Ecoriace, iscritte alla Camera di commercio come cooperative di tipo B, non erano però iscritte all’albo regionale, istituito nel 2009. Secondo la difesa (circostanza non valutata in fase d’indagini, omissione censurata dalla Cassazione) l’albo regionale non è stato operativo almeno sino al 2016, ossia dopo i fatti contestati, che vanno dal 2011 al 2015. Secondo l’accusa, invece, le cooperative avrebbero fatto richiesta, vedendosela rigettata perché i rifugiati non rientrerebbero tra le persone svantaggiate individuate dalla legge. Per tale ragione, il Comune di Riace istituisce un albo comunale, nel quale vengono iscritte le due cooperative, che ottengono poi l’affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti l’una a Riace Marina, l’altra a Riace attraverso il sistema degli asinelli porta a porta.

La questione, sui fatti relativi all’affidamento diretto alle coop sociali, che hanno portato alla condanna di Mimmo Lucano, è duplice, ma finisce per affondare le radici nella ratio delle leggi, nello scopo che chi scrive le norme si pone nel momento in cui ne prescrive il rispetto. Per quanto riguarda il sistema degli appalti, ad esempio, il diritto amministrativo deve confrontarsi con il contesto sociale e con le illusioni in cui spesso incorrono i giuristi: l’esistenza di regole non garantisce la loro applicazione e il loro rispetto formale non necessariamente conduce all’effettivo benessere della comunità. Così, a Riace, ben si sarebbe potuta bandire una pubblica gara, che sarebbe stata vinta dall’impresa che fosse riuscita a garantire il servizio al minor prezzo. Ma il minor prezzo è davvero il solo indice di buon andamento della pubblica amministrazione? Lo smaltimento dei rifiuti, è il caso di ricordarlo, è considerato uno dei settori maggiormente esposti a rischio di infiltrazione mafiosa, tanto da essere spesso analizzato nella relazione antimafia.

«Al centro dei traffici, pertanto, tendono a individuarsi, aziende che, pur se non riconducibili a specifiche consorterie, operano nel settore con condotte dolose finalizzate ad incrementare i profitti attraverso il fraudolento contenimento dei costi di smaltimento dei rifiuti trattati. L’ampia remuneratività dell’illecito ambientale presta il fianco all’inserimento, nella lunghissima filiera, anche di aziende di settore appositamente costituite e rapidamente condotte al fallimento, il cui scopo, anche in questo caso, è quello di massimizzare gli introiti, soprattutto attraverso l’abbassamento del livello di qualità del servizio e la realizzazione di condotte funzionali all’evasione fiscale. Ciò produce, ancora una volta, un forte vantaggio competitivo e, quindi, un solido posizionamento nel settore a discapito dei concorrenti che operano legalmente: notevole per questi ultimi è il danno economico connesso ai mancati introiti e la perdita di competitività; grave, quindi, la distorsione delle regole del mercato» (DIA, Relazione antimafia, gennaio-giugno 2009, p. 584).

In un contesto simile, la convenienza economica e il valore sociale nell’affidamento di servizi pubblici si applicano meglio attraverso un appalto pubblico o individuando un modello di gestione dei rifiuti ecologico, definendone le condizioni e affidandone l’attuazione a una cooperativa sociale? L’applicazione della legge, quando è fideistica, aprioristica e meramente burocratica, finisce per essere sterile se non dannosa. Il medesimo discorso trova validità anche rispetto all’interpretazione della legge sulle cooperative sociali: se la loro istituzione e la possibilità di convenzioni agevolate per l’erogazione di servizi hanno la funzione di favorire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, com’è possibile non contemplare categorie come i rifugiati o i richiedenti asilo? La lettura dell’elenco di tali categorie in senso tassativo rispetta la ratio della norma, cioè l’agevolazione di realtà sociali che utilizzino il lavoro per coinvolgere nella comunità chi ne resterebbe altrimenti ai margini?

L’impressione è di uno scontro meno lirico, ma non meno profondo, di quello tra Antigone e Creonte. Le nostre leggi, specie sul tema dell’immigrazione, sono quelle di Creonte, e il nostro ordinamento, già crudele, già indifferente a certi valori d’umanità, si inasprisce nella sua applicazione burocratica. È una tragedia in chiave kafkiana, un misto tra l’accanimento incomprensibile del Processo e l’incomunicabilità ostile del Castello, senza il conforto dell’eroismo, perché Mimmo Lucano non viene condannato per quel che ha sempre rivendicato, ma viene dipinto come il più banale degli approfittatori tra i pubblici funzionari.

In questo modo, peraltro, sembra potersi intravedere, non senza una certa inquietudine, una congettura degli inquirenti, già censurata da ogni autorità giudicante in fase cautelare eppure conservata fino alla sentenza. L’impressione è che l’opaca confusione amministrativa sia stata elevata a illecito penale, così di fatto rovesciando l’onere della prova sull’imputato, con un sistema che diventa inquisitorio invece che accusatorio. Se è vero che il buon andamento della pubblica amministrazione si fonda anche sul rispetto delle procedure, sulla verificabilità dei documenti, sulla fedeltà delle annotazioni, ciò non significa che il mancato ordine configuri necessariamente reati di una certa gravità, che si qualificano per il conseguimento (o almeno il perseguimento) di un profitto, così come la commissione collettiva di certe omissioni non si traduce automaticamente in un’associazione a delinquere, che richiede un disegno criminoso e un’organizzazione puntuale: rendiconti imprecisi ma verosimili, così come registri presenze non puntuali, possono certo costituire una colpa amministrativa, per la cui sanzione non è necessaria altra prova, ma sul piano penale per qualificare come peculato o truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche certi comportamenti serve la prova di un progetto criminoso che deve essere un po’ più approfondita e oggettiva delle dichiarazioni di pubblici ministeri che rilasciano interviste su elementi psicologici del condannato, definendolo come “bandito idealista da western”. Certo, si dovranno attendere le motivazioni e ogni ipotesi di reato potrebbe essere ben spiegata, ma per giustificare la condanna comminata nel dispositivo il testo del tribunale dovrà essere corposo e dettagliato, evidenziando gli elementi oggettivi e soggettivi che hanno portato a una simile decisione.

Il dato politico resta però sul tavolo, a prescindere dalla vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano, e riguarda il senso stesso della legge e il pessimismo che accompagna la sua applicazione nei confronti dei poveri. È stato spesso citato, accostandolo all’ex sindaco di Riace, il caso di Danilo Dolci: la mia tesi di laurea riguardava proprio il processo per lo sciopero alla rovescia del 2 febbraio 1956 e il rapporto tra le rivendicazioni dei disoccupati di Partinico e Trappeto e il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento. L’accostamento può apparire semplicistico, e in effetti in parte lo è: c’è differenza tra un atto estemporaneo e pubblicamente annunciato, tanto da essere simbolico, come fu l’iniziativa di Dolci, e un sistema di disobbedienza continuata e, pur se spesso apertamente rivendicata, in gran parte occulta. In comune, drammaticamente a più di sessant’anni di distanza, sta piuttosto il rapporto del popolo con le leggi, che Piero Calamandrei, tra i difensori di Danilo Dolci, aveva descritto nella sua arringa al processo (processo che peraltro finì con la condanna di Dolci e dei braccianti).

«Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami» (Piero Calamandrei, citato in Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio, 2011 -prima ed. 1956-, p. 309).

Nel 1956 c’era però la speranzosa convinzione, e Danilo Dolci nella sua opera educativa e intellettuale la incarnava, che le leggi di Antigone, i principi etici sovraordinati che erano stati calpestati negli anni precedenti, fossero finalmente affermati, che rappresentassero il fondamento della vita della Repubblica, della socialdemocrazia basata su una Costituzione antifascista e carica di promesse. La loro attuazione era solo questione di tempo, pazienza e impegno. Nel 2021 è necessario dismettere le illusioni, non perché non vi sia spazio per l’azione politica, ma perché la bonifica costituzionale che auspicava Calamandrei nella sua arringa (e in numerosi altri discorsi e contributi) non c’è stata e, anzi, ai residui giuridici di epoca e spesso di stampo fascista si sono aggiunti altri meccanismi repressivi, dal testo unico sull’immigrazione alle aggravanti per reati commessi durante le pubbliche manifestazioni.

C’è un fil rouge, che sarebbe forse più corretto definire fil noir, che lega questi ragionamenti a diversi fatti di cronaca giudiziaria, dall’utilizzo del reato di associazione a delinquere contro graffitari alla sorveglianza speciale per i militanti tornati dalla Siria, dall’utilizzo del divieto di dimora o di decreti penali di condanna contro attivisti fino ai processi seguiti ai fatti del G8 di Genova. Come ho avuto modo di scrivere nel contributo L’eccezione e la regola, nell’antologia Circospetti ci muoviamo (effequ, 2021), sarebbe rassicurante pensare alla legalità come a una tutela, alla regola come a un contesto salvifico e certamente giusto, in cui l’ingiustizia è un’eccezione, certamente non derivante dalle norme, ma casomai dalla loro applicazione, dagli umani imperfetti e cattivi. Ma l’ordinamento resta l’insieme delle leggi del regno di Creonte, umano, imperfetto e cattivo, leggi spesso inapplicate ma pronte a essere utilizzate per la punizione del dissidente che abbia infastidito troppo. Le regole continuano a costituire lo specchio dei rapporti di dominio e, se pure in un periodo illuminato della nostra cultura giuridica siamo riusciti a sancire diritti come quello alla libertà di movimento, al lavoro che garantisca un’esistenza libera e dignitosa, alla partecipazione, a poter essere differenti quanto all’identità e uguali quanto ai diritti, l’amministrazione dello Stato e della giustizia continua a fondarsi su codici precedenti, su paradigmi in cui la persona non è preminente, in cui si vale in base a quanto si possiede. Nelle nostre tiepide case, il rispetto della legalità non è un problema, perché abbiamo cibo caldo e visi amici. Per altri la legalità può essere anche violenza, può essere dominio cristallizzato. «Viviamo in un mondo di condannati a morte da noi», soleva affermare Danilo Dolci: l’ufficio anagrafe che non rilascia il documento a chi non ne ha titolo certamente non viola la legge, anzi la applica, chi si attiene alle regole non ha colpe ma può uccidere. Si dirà: la legge sbagliata si deve cambiare, ma nel frattempo deve essere rispettata. E, nell’attesa, si muore, com’è morta Becky Moses, che stava a Riace fino a quando, nel dicembre 2017, la commissione le negò la richiesta d’asilo. A quel punto lei se ne va, le indagini su Mimmo Lucano riguardano proprio quell’accogliere senza titoli, a prescindere dalle carte bollate, ma sotto la lente degli inquirenti l’accoglienza a Riace diventa precisa, burocraticamente ligia alle regole. Becky Moses non ha titolo di restare, lascia Riace, viene sfruttata come prostituta, poi, il 27 gennaio 2018 – quanto sono beffarde le date talvolta –, muore arsa viva nella sua baracca, nel ghetto di San Ferdinando. Mimmo Lucano ha preteso di seppellirla a Riace, forse come monito contro la legalità che uccide quando la disobbedienza potrebbe salvare.

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Immagine di copertina:
Giovanni Fattori, In vedetta, o Il muro bianco, 1872, olio su tela, Valdagno, collezione Marzotto.