La società contemporanea adotta dei comportamenti contraddittori, a tratti schizofrenici. Quando le classi dirigenti esprimono rabbia e disgusto per un fatto di cronaca riguardante lavoratori o immigrati, tale sentimento è giudicato del tutto comprensibile e benvenuto. I media non elemosinano complimenti a sindaci sceriffi o a chi invoca il “pugno duro”. Se invece a lamentarsi sono gli strati maggiormente esposti a soprusi e ingiustizie, ecco che si parla di una collera insulsa, irrazionale e addirittura patologica. Un esempio concreto lo offre Franco Palazzi, autore del saggio La politica della rabbia. Per una balistica filosofica (nottetempo, 2021), quando introduce il lettore alla vergognosa presa di posizione del sindaco Nardella sui fatti accorsi a Firenze il 5 marzo 2018. La cronaca del tempo ci ricorda un crimine troppo velocemente dimenticato: un giovane venditore ambulante, Idy Diene, viene ucciso da un fascista e nella protesta portata per strada dai connazionali, furibondi per l’omicidio e per il clima d’odio presente nel paese, si rompono alcune fioriere. Il sindaco, con tono deciso e scandalizzato, asserisce che tale violenza è inaccettabile. Ma quale? Quella dei manifestanti ovviamente. Sebbene il fatto in sé possa sembrare “solamente” scandaloso per la figura del primo cittadino, svela in realtà qualcosa di più profondo anche a livello filosofico. La politica della rabbia prova a tracciare il perché siamo arrivati a pensare che l’omicidio di una persona e una fioriera rotta possano essere tranquillamente paragonati senza che troppi si sentano offesi – e prova a suggerire quali contromisure adottare.

La politica della rabbia

La patologizzazione della rabbia è per l’autore, il leit motiv che il potere vuole imporre nella disamina dei movimenti incapaci – secondo loro – a vivere mansueti dentro una società che sfrutta e abusa continuamente una parte sostanziale della comunità. Il rabbioso, come il cane, è ammalato, schizofrenico, incapace di gestirsi. È pericoloso e come tale va fermato.

Perché l’ira fa paura? Se le rivoluzioni sono ormai lontane dall’essere attuate, ecco che arrabbiarsi diventa l’ultimo ostacolo prima della sottomissione assoluta e il controllo delle coscienze. Palazzi, molto acutamente, rimanda a Benjamin e Foucault in primis per segnalare quanto profonda sia la radice degli studi a proposito, rizoma da cui sono fioriti movimenti e personaggi che da questo sentimento hanno saputo produrre non solo la loro personale, seppur spesso tragica, emancipazione, ma anche le fondamenta per una nuova rabbia, una “violenza divina”, capace di redimere i soppressi. Il discorso dell’autore è condivisibile, nonostante molti “ortodossi della rivoluzione” storceranno il naso: partendo da Diogene il cinico e citando Valerie Solanas, Audre Lorde fino a Malcolm X e al movimento Non una di meno, viene tracciata la traiettoria di una “balistica filosofica” quale via per una possibile emancipazione. Di che si tratta? Ebbene, prima di tutto significa ricondurre il pensiero filosofico a legarsi con la prassi: soltanto partendo da una azione concreta e non astratta (è proprio qui che molti critici possono dissentire dalla sintesi proposta, reclamando una maggiore attenzione speculativa alla questione), il ribelle potrà scoprire dove vuole arrivare; secondo, si intende mostrare la parabola biografica e pratica di chi rifiuta l’omologazione passiva ma prova a spezzare le catene dell’algoritmo globale che tutto domina. Si tratta, suggerisce l’autore, di riprendere la nozione di verità proposta da Foucault, cioè distinguere una verità-dimostrazione da una verità-evento: solo quest’ultima avrà la forza liberatrice di cui avremo bisogno.

Fra le varie biografie di donne e uomini che hanno usato la rabbia per combattere lo status quo appaiono fortemente significativi i resoconti su Malcolm X, riportati con intensa partecipazione. Nella figura del pastore islamico americano si può vedere l’evoluzione di un uomo abile nel gestire perfettamente la rabbia portandola al massimo profitto; si pensi a una delle sue riflessioni più audaci: «gli oppressi non possono lasciare che le loro forme di lotta siano definite dalla legittimazione della controparte ogni mezzo necessario: decidiamo noi quale» (p. 159). Il movimento Non una di meno è analizzato con la stessa forza speculativa, sottolineando quanto la vita pulsante di una organizzazione che sta scoprendosi e modellandosi giorno per giorno attraverso successi ed errori diventi sempre di più consapevole delle proprie possibilità.

Ad accomunarli c’è sempre la rabbia. Secondo Palazzi:

«L’odio è del resto un sentimento fideistico: la sua staticità richiede un affidamento quasi religioso sulla propria superiorità – affidamento che risulta spontaneo agli oppressori, ma che gli oppressi e le oppresse possono raggiungere solo al prezzo di sprecare molte energie interiori nella coltivazione della vendetta. Al contrario la rabbia radicale è l’equivalente politico della mancanza di fede – della fede che le cose restino uguali così come di quella che tutto si capovolgerà necessariamente» (p. 223).

La collera dunque può segnare la traiettoria delle nuove politiche dal basso, e certamente ha enormi possibilità. Essenziale sarà non sottometterla a criteri valutativi basati sull’efficacia immediata o addirittura sulla prestazione, perché ciò equivarrebbe ad assimilare paradigmi estranei al mondo degli sfruttati, bensì venire sedotti da un’ottica capitalistica onnipresente. La rabbia, sostiene l’autore, resta comunque il grimaldello più duro per sradicare una società cieca ai cambiamenti climatici e alla produzione e occultazione di massa di nuovi poveri e precari a vita. «Avremo bisogno della nostra rabbia migliore» (p. 250) per affrontare i grandi problemi che oggi consegnano il mondo a un futuro distopico ma non spacciato. Ricominciare da una cura di sé, secondo la lezione di Foucault, è il primo passo per tentare di salvare la collettività intera da una catastrofe imminente. La rabbia può essere la verità-evento di cui abbiamo parlato precedentemente, se, condividendo il ragionamento dell’autore ripreso nella quarta di copertina:

«Recidendo le corde del moralismo, la rabbia potrà allora fungere da catalizzatore della gioia, svolgendo un ruolo curativo in una doppia accezione curando noi stessi da quello che abbiamo definito il galateo dell’oppressione, ci spinge davvero a prenderci cura delle altre e degli altri».

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Immagine di copertina:
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