Una delle infinite invenzioni di Frank Herbert nel suo immenso lavoro di Worldbuilding è la lingua della popolazione originaria di Arrakis, i Fremen. La lingua è chiamata Chakobsa, e Shai-Hulud è il nome che viene dato al grande verme delle sabbie, il cui ciclo vitale è all’origine della forma stessa del pianeta, e soprattutto della sua grande ricchezza, il mélange, la Spezia, la droga che permette il viaggio interstellare, e quindi la rende il bene più prezioso dell’universo conosciuto. La figura di Shai-Hulud è emblematica: da un lato è il simbolo della superiorità della popolazione del deserto, che attraverso il controllo di questo processo giunge ai vertici della catena di comando (“Il potere del deserto”, lo chiama il Duca Leto), dall’altro è il simbolo dell’oscuro recesso arcaico e ctonio, ciò che sta a monte dell’umanità, è l’inconscio stesso del pianeta, il lato che il giovane Paul, nel corso del suo Bildungsroman, deve comprendere, per vivere il destino che gli è assegnato. Da questo punto si dipanano molti dei temi propri alla esalogia di Frank Herbert, ma ampie sono le differenze rispetto al film di Denis Villeneuve. Certamente in entrambe le visioni il tema geopolitico, ovvero la rivolta post-coloniale dei fremen è cruciale, sebbene in Villeneuve sia più il lato archetipico a essere rilevato, mentre in Herbert, che scriveva immerso nella guerra fredda e nella guerra del Vietnam, è proprio la rivolta in quanto tale, che scaturisce poi nel Jihad, a colpire la sua immaginazione. Altrettanto cardine è il tema ecologico-ambientale. Nel film non è la questione in sé a essere espressa, Villeneuve è ben noto anche al grande pubblico per la sua capacità di comunicare principalmente attraverso le immagini, più che mediante il parlato. Difatti sono i mille oggetti che, a partire dal mondo fremen, veicolano l’attenzione verso il risparmio e la conservazione. Il valore dell’acqua, dell’umidità, e il continuo tornare su queste dinamiche sono al centro della questione ambientale, e mostrano un mondo totalmente interconnesso, dove nemmeno l’imperatore può considerarsi come un elemento autonomo dal meccanismo di cui fa parte.

«[…] la pista ecologica è rappresentata attraverso superfici sensibili e configurazioni postumane, infrastrutture per il risparmio energetico e tute termiche che simulano la capacità di piccoli mammiferi di immagazzinare e centellinare l’acqua nel deserto. I soggetti e gli oggetti che definiscono il piano allegorico sono concepiti da subito in prossimità, se non in coincidenza con il campo di realtà al quale dovrebbero rimandare, ovvero con quei valori e quegli oggetti mediante i quali, nel nostro presente, stiamo già cercando di affrontare la questione climatica. […] il tema ecologico e quello coloniale si intrecciano – nella comprensione che qualsiasi forma di sfruttamento intensivo della vita biologica ha comunque un impatto sull’ecosistema e sulle popolazioni – dando così espressione a una delle potenzialità critiche e immaginative di Dune».1

Bisogna poi sottolineare che se è vero che si tratta di un romanzo di formazione, non può essere riferito al solo Paul Atreides, ma è l’intero genere umano a essere sull’orlo di un cambio di paradigma. Difatti esiste anche un lato oscuro di Shai-Hulud, che è invece legato all’aspetto più shakespeariano della vita di Paul Atreides, ovvero alla dimensione onirica. Villeneuve antepone al film un esergo, che, proprio per il luogo in cui è posto assume il valore di chiave di lettura. “I sogni sono messaggi dal profondo”, recita una voce in una lingua sconosciuta, che lo spettatore comprende solo grazie ai sottotitoli. Il lato onirico, quindi, non è espressione di una dimensione soggettiva, individuale, ma della comunicazione profonda con ciò che della nostra psiche è legato agli archetipi, ovvero qualcosa che sfugge alla nostra comprensione immediata per collegarsi con ciò che ci definisce come specie, con una sorta di inconscio collettivo. È la realizzazione della propria anima che si attua, della predestinazione che si ottiene con la spezia. Le visioni illustrano a Paul il cammino che dovrà intraprendere per diventare ciò che già è in potenza.

«Credo che all’origine di una narrazione ci possano essere proprio i sogni, e mi riferisco a quelli che capita di fare a ciascuno di noi, ma anche all’idea di fantasticare, di creare storie prima ancora che si pensi di usare una telecamera. Da bambino ero un sognatore e mi è sempre piaciuta l’idea dei sogni come chiave per poter comprendere la realtà: tecnicamente la vita può essere descritta come una parentesi fra due sogni, nei quali non ci sono filtri e c’è invece sincerità e contatto diretto con il nostro subconscio, oppresso dal peso dell’educazione, della famiglia, della genetica e della politica. Anche io ho sempre avuto difficoltà a disfarmi di queste costrizioni e a sentirmi libero. Detto questo, credo sia complicato inserire dei sogni nei film, perché i film, a loro volta, sono la cosa più vicina a un sogno: guardare un film su un grande schermo non è lontano da un sogno vero e proprio».2

Difatti, come aveva già avuto modo di sottolineare durante la presentazione del film a Venezia:
«Dune è stato sognato e approntato per l’esperienza cinematografica. Il grande schermo non è semplicemente un altro format, è il centro del linguaggio cinematografico. La forma originale. Quella che resisterà alla prova del tempo».

La speculazione metafisica che prende perciò corpo nella dimensione onirica vissuta da Paul, indaga a fondo nelle dinamiche relative al rapporto tra individuo e libero arbitrio, tra soggetto e destino. Nel film invece, proprio a seguito della visione drammatica che vi predomina, la riflessione filosofica assume connotazioni più morali ed etiche, come ad esempio nella scena profondamente shakespeariana del dialogo tra Paul e suo padre, incontro che si svolge tra le tombe degli avi, nel quale il peso dei millenni di storia condivisa si appoggia sulle giovani spalle del futuro Muad’Dib. La figura di Paul si mostra quindi come articolata e trasversale: doppiamente erede di due tradizioni in conflitto tra loro; giovane adolescente spaventato da ciò che gli succede e sensibile ai primi approcci sessuali di una coetanea; futuro messia e profeta di una guerra che nemmeno lui vuole, sebbene posseduto dal desiderio di vendicarsi. Tutto ciò è reso in modo strabiliante dal bravissimo Timothée Chalamét, che a soli venticinque anni si candida a essere uno degli attori più importanti in attività. Il cast è il punto di forza dell’organizzazione che fa capo a Denis Villeneuve. Unica eccezione Zendaya, ma per il solo motivo che in questa prima parte il suo ruolo è minimo. Nonostante ciò, nelle poche occasioni in cui appare impersona una Chani perfetta. Eccellenti interpretazioni quelle di Jason Momoa, Oscar Isacc, Josh Brolin, Javier Bardem, Dave Bautista. Cameo gioiello per Charlotte Rampling di cui Villeneuve lascia apparire solo gli splendidi occhi, e sorprendente Stellan Skarsgård, che si dimostra degno del Marlon Brando a cui evidentemente si ispira. Menzione speciale per Rebecca Ferguson, che reinventa il personaggio di Lady Jessica, e per la straordinaria Sharon Duncan-Brewster, interprete del planetologo Liet-Keynes, che nel romanzo originariamente è un uomo e che Villeneuve ha deciso di rendere come una donna, proprio nella logica, dimostrata fin dall’inizio dal regista, di dare il più ampio spazio possibile all’elemento femminile. La scelta di Villeneuve difatti non è una trasgressione del testo, l’elemento femminile è nel cuore anche dell’opera di Herbert, oltre che del film. La sua espressione più potente la troviamo nella Litania contro la paura:
«I must not fear.
Fear is the mind-killer.
Fear is the little-death that brings total obliteration.
I will face my fear.
I will permit it to pass over me and through me.
And when it has gone past, I will turn the inner eye to see its path.
Where the fear has gone there will be nothing.
Only I will remain».

Così recita, pronunciata come un mantra dalle appartenenti all’organizzazione delle Bene Gesserit, inquietante nome posto da Frank Herbert a uno degli elementi narrativi dell’universo di Dune Si tratta di una sorta di matriarcato, una setta composta da sole donne dedita allo sviluppo di forme molto efficaci di autodisciplina, che attuano attraverso un tipo di meditazione chiamata prana-bindu, dove praticano il controllo del respiro, unito alla conoscenza dell’energia presente nel corpo e dei canali attraverso cui si esprime. Una delle interpretazioni circa l’origine del nome Bene Gesserit lo vede come parte di una locuzione latina, e fa specificatamente riferimento a una formula del diritto, quamdiu se bene gesserit, ovvero “fino a quando si comporterà bene”. Questa frase, nella giurisprudenza, è riferita frequentemente alla durata dell’incarico dei giudici e dei magistrati. La formula di rito vorrebbe quindi sottolineare l’impossibilità per il re (o l’imperatore) di cambiarli a suo piacimento. Herbert perciò già nel nome stesso avrebbe inteso sottolineare l’autonomia e l’indipendenza della setta dall’Impero, su cui ha invece imposto di fatto un forte controllo, che è aumentato continuamente nel corso dei secoli. È proprio il tempo la dimensione cardine del disegno Bene Gesserit. Come dice Villeneuve stesso, «[…] le Bene Gesserit sono essenziali: governano un potere tutto loro e lo fanno seguendo traiettorie proprie, praticando la manipolazione e utilizzando la più sofisticata delle armi: il tempo».3

La litania ripete un testo molto potente, aggressivo e carismatico, e mira all’emersione di una identità risorta. L’Io della prima strofa non è più lo stesso nell’ultima. Grazie al mantra l’Io vittima della paura percorre un cammino di liberazione e autodeterminazione, ed è la sua offerta alla paura, il suo immolarsi, che permette all’occhio interiore di visualizzare il nuovo percorso, dove il nuovo io è solo, ma con una potenza accresciuta. La litania è quindi una sorta di chiave esplicativa, un gioco linguistico che, quando risolto, fornisce la chiave di un cammino percorso – tra gli altri – da Paul, che, nonostante tutto, resta il risultato del millenario progetto Bene Gesserit. La Sorellanza è quindi uno dei vertici del potere nel complesso sistema geopolitico costruito da Herbert. Il potere difatti nella dettagliata trattazione dei vari volumi si presenta come una stella a molte punte. Le principali organizzazioni che si dividono il potere sarebbero quindi, oltre alle sopraddette Bene Gesserit, l’Imperatore e la sua insuperabile truppa d’assalto, i Sardauker; il Landsraad, l’organizzazione che unifica le grandi Case, ovvero i nobili; la CHOAM, che gestisce gli accordi per il commercio universale, e infine la Gilda spaziale, che, grazie alla spezia, possiede il monopolio delle astronavi interstellari. È un potere perciò molto frammentato, degradato, forte ma in evidente decadenza, caratterizzato da una gestione locale sebbene contemporaneamente connesso in una prospettiva globale, e in continuo riassesto, tramite un delicato e fragile equilibro dei rapporti di forza. Ne è un esempio la visita in cerca di alleanze del mentat Piter de Vries sul pianeta dove si formano le legioni dei Sardauker: questi lo disprezzano, e con lui il Barone Arkonnen che lo invia, sottolineando come loro agiscono solo dietro esplicito comando dell’imperatore. L’avvento del Jihad provocato da Paul “Muad’dib” Atreides ha avuto perciò gioco facile nel penetrare la griglia strategica su cui si appoggiava il fragile sistema feudale descritto nella saga e far emergere le distruttive conflittualità interne. La storia – si sa – la scrivono sempre i vincitori, e difatti «[…] ogni storia di fantascienza che conta, costituisce al contempo una teogonia e una mitologia. È una indagine sull’origine e una genealogia del divino, che si degrada in una entropia del potere».4

Paul Atreides, quindi, come sottolinea la Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, è erede sia della linea di sangue nobile, da parte della Casata del padre, sia della Via Bene Gesserit, a cui lo ha educato la madre. La rigida separazione dei generi imposta dalla Sorellanza tramite l’obbligo di generare solo femmine, avrebbe dovuto garantire che questo non accadesse, ma l’insubordinazione di Jessica, la madre di Paul, ha generato l’unico, l’evento, il Mahdi, il Messia, il Kwisatz Haderach, il figlio maschio guerriero che riunisce in sé anche il potere veggente del femmineo. Il titolo con cui viene indicato viene tradotto come “colui che può essere in molti posti”, e corrisponde al termine cabalistico di Kfitzat haDérech, che dovrebbe significare proprio la capacità di raggiungere istantaneamente un posto, che è esattamente ciò che la spezia permette ai navigatori della Gilda, il viaggio interstellare istantaneo. Al di là dell’estensione mitologica dei concetti presenti nel romanzo, è evidente qui il debito di Frank Herbert verso la cultura e la tradizione ebraica (aspetto che nei libri seguenti al primo diventerà estremamente importante). La critica alle tre grandi religioni monoteiste, qui riunite nella figura di Paul, e che ne è la prima vittima, si dimostra senza alcun dubbio uno dei principali temi che focalizzano l’attenzione dello scrittore.

La litania contro la paura è perciò – come si è visto – la porta di ingresso all’universo di Arrakis. Un meccanismo che unifica la strategia del linguaggio (la voce, ovvero la retorica, il valore del nominare) con la geopolitica, la strategia militare e la filosofia del guerriero, quasi nello stile del bushidō. Eppure, nonostante la sua evidente centralità, Villeneuve la inserisce solo in poche e rare occasioni. Di queste, la prima – la più importante – è durante l’incontro tra Paul e la Reverenda Madre, nel corso del quale lei lo sottopone alla prova del Gom Jabbar. La litania è quindi dedicata al momento della prova. È il modo che Paul utilizza per accedere al supporto che gli può arrivare dalla tradizione a cui appartiene, dalla preparazione che ha acquisito, da tutto ciò che in lui è finalizzato al momento decisivo. Quando la litania viene pronunciata è perciò sussurrata a labbra socchiuse, nel corso di eventi drammatici, e madre e figlio la recitano contemporaneamente, seppur distanti, cosicché le parole si disperdono, e lo spettatore che non sia più che attento facilmente potrebbe non accorgersi di quel mormorare tra sé e sé, apparentemente così laterale e invece uno dei centri attraverso cui comprendere il film di Villeneuve. La litania è un elemento del suono, non è linguaggio nel senso del logos, non è la progettazione infinitesimale dei mentat, ma è pura materia sonora. Lo spettatore non la deve comprendere, ma la deve percepire, così come vede le immagini, che sono immediate, non subiscono il filtro della ragione. Villeneuve sfruttando la evidente e ricercata genealogia omerica dei personaggi di Herbert, fa esplodere il lato drammatico, arcaico, tragico e prefilosofico presente nel romanzo. Gli Atreides sono i figli di Atreo, Agamennone e Menelao, e la figura di Leto è quella di un personaggio omerico. Il mondo in cui abitano è lo stesso di Edipo, Teseo, Antigone e Prometeo. Il mondo degli antichi dèi. È perciò un mondo dove la tecnica non è (più) dominante, e difatti è figlio del Jihad Butleriano, l’antico evento che ha distrutto ogni tipo di macchina pensante. Il logos e la ragione non sono il criterio tout court, ma una componente del processo, una delle diverse possibili, che viene individuata nella figura del mentat. È proprio per sostenere il predominio assoluto del visivo che Villeneuve ha trasformato il testo, eliminando il dialogo interiore, e riducendo, fin dove gli è stato possibile senza intaccare la comprensione stessa della trama, i collegamenti e la fluidità del racconto. L’opera di Herbert andava depurata dalle stratificazioni semantiche che vi si erano accumulate attraverso quasi cinquant’anni di interpretazioni, e questo al fine di recuperare il suo puro aspetto immaginifico, un deserto del significato, grezzo, minimalista all’estremo, tagliato con l’ascia, esteticamente analogo alle grandi costruzioni megalitiche dell’antichità. D’altronde ne Herbert ne Villeneuve nascondono di essere nani sulle spalle di giganti, e trovano nelle mitologie a cui hanno fatto riferimento delle solide colonne portanti.
Tutto nel mondo solitario di Paul Atreides, nel deserto in cui è costretto questo adolescente, è grigio, funzionale, pratico, efficace, scarno. La comunità dei fremen lo accoglie, dando un senso a questo suo sentimento. Herbert, diciottenne, ha dovuto abbandonare la casa in cui era cresciuto per emigrare in cerca di lavoro. Conosce quindi bene il sentimento dell’esiliato, di colui che in un luogo alieno, come è Arrakis per il giovane Paul, cerca conforto, amicizia e comprensione. Tutto nel film è figlio di questo senso di abbandono e di solitudine.

«Mi piace l’idea che l’architettura e i mezzi di trasporto possano far assomigliare gli umani a umili formiche. Perciò le macchine di Dune sono state costruite con questo monumentale sentimento di solitudine e di oppressione nei confronti dei loro utilizzatori. C’è qualcosa di spaventoso nelle loro dimensioni […]. Il deserto è una esperienza intima, ti rende meditativo, e più lo penetri più vai nel profondo di te stesso […]. È così che la malinconia e la solitudine, che sono i sentimenti forti di questa storia, sono saliti a galla da soli. Senza trucchi e senza inganni».5

Dune è perciò un film duro, cupo, triste, a tratti gelido, quasi respingente. Vi è molta inquietudine tra i personaggi, collegata a una drammatica coscienza del destino ineluttabile che li avrebbe segnati. Anche le immagini, non i grandiosi paesaggi del deserto, o le architetture gigantesche, bensì quelle che si notano in un secondo tempo, che sono quasi nascoste, e che riflettono le sensazioni dei singoli, dei soggetti lasciati soli, queste immagini a volte sono fosche, indistinte, soffocanti, quasi claustrofobiche, quando mostrano le macchinazioni del potere attraverso gli occhi di chi le vive. Assolutamente esemplare in questo senso l’arrivo della delegazione Bene Gesserit, mentre Lady Jessica attende sotto la pioggia torrenziale, dove le Sorelle vengono rappresentate come ombre fluttuanti, nell’oscurità della notte e, metaforicamente, del futuro. Questo accade nonostante il peso delle parole che i protagonisti pronunciano, lapidarie e taglienti, e che esprimono con limpida e sintetica chiarezza ciò che rappresentano. Così come le ultime parole pronunciate dal Duca Leto, “Here I am, here I remain”, che testimoniano il suo codice assolutamente invalicabile, nemmeno nella morte, nemmeno dalla morte. Non vi sono processi o metamorfosi, come quelli che invece il figlio dovrà subire e affrontare, qui vi è solo il puro hic et nunc, l’affermazione del presente attuale. Forse, in quest’ultimo slittamento si cela uno dei significati più nascosti del film, in quella relazione padre-figlio, che travalica la drammaticità degli eventi, e che tramuta troppo rapidamente un grande amore nella urgente elaborazione del lutto. Paul ha quindici anni, e invece di diventare il Messia avrebbe voluto continuare a volare con Leto, mancato pilota, ma il destino di un universo aveva bisogno di sacrificare la sua giovinezza alle strategie del potere.
Villeneuve nel secondo film ci racconterà anche, immagino, se, e come, il giovane Atreides ha saputo accettare la scomparsa dell’amato genitore.

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Note:

1) F. Zucconi, Teogonia e convergenza, in Fatamorgana, settembre 2021.
2) D. Villeneuve, Intervista a Il Venerdì di Repubblica, 13/8/2021.
3) D. Villeneuve, cit.
4) F. Zucconi, cit.
5) D. Villeneuve, cit.

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Immagine di copertina:
fotogramma da Denis Villeneuve, Dune, 2021