Come sopravviveremo al collasso, come predatori brutali o come scimmie nude e sociali? Se lo chiede Matteo Meschiari in Geografie del collasso. L’Antropocene in 9 parole chiave, uscito per i tipi di Piano B. Si tratta di un saggio agile, articolato in undici capitoli e illustrato dall’autore stesso.

Geografie del collasso

Meschiari affronta le tematiche principali che hanno caratterizzato il dibattito culturale degli ultimi anni, ordinandole seguendo un criterio di urgenza: dalla sezione dedicata al collasso si passa alle diverse criticità che ne conseguono, dalle condizioni che impediscono il necessario salto cognitivo a quelle che potenzialmente potrebbero sollecitarlo e accompagnarlo.

Unica pista percorribile di fronte al collasso di un sistema economico e culturale dell’entità di quello che stiamo vivendo è uno slittamento di paradigma. Le opere di immaginazione – letterarie, cinematografiche, televisive – si trovano davanti a due opzioni entrambe obsolete: quella della distopia e quella dell’utopia. Perché obsolete? Perché ambedue hanno dimostrato nel tempo di possedere una potenziale inefficacia che emerge nella ripetizione e nella standardizzazione degli schemi narrativi. Se da un lato l’utopia può facilmente scivolare nell’escapismo concentrandosi sugli aspetti estetici dell’idealizzazione di un progetto etico e politico, d’altra parte la distopia propone una dicotomia che può sconfinare nella mera rivalsa e nello scontro fra due parti, in cui quella che si salva incarna i gruppi sociali esclusi da un sistema di potere.

Così nella vecchia contrapposizione buoni/cattivi che è stata già dell’epica classica e che si è evoluta attraverso i secoli nelle varie declinazioni dello stesso paradigma (ad esempio, nel corpus dell’epica medievale la dicotomia cristiani/pagani, nella vasta filmografia del Far West cowboy/indiani, ecc.) si nasconde una rappresentazione che mette in scena la sopravvivenza dei “migliori”, laddove i migliori sono i soggetti sani che prevalgono su quelli malati. È il caso, ad esempio, della lotta contro gli svariati eserciti di zombie o vampiri della narrativa contemporanea a partire dal capolavoro di Richard Matheson, Io sono leggenda, in cui l’autore rovescia la situazione del romanzo di Bram Stoker. Non quindi un vampiro isolato in un modo di umani, ma un mondo di vampiri in cui un solo umano, buono ed eroico, combatte contro un esercito di vampiri, metafora della massa asservita al sistema in cui il diverso, il migliore non ha più alcun margine di sopravvivenza. Questo paradigma prevede una concezione negativa della massa e un’elevazione dell’eroe combattente, che di per sé è un’epica della rivalsa, in cui il reietto è il soggetto che non si conforma e per esteso ogni individuo che vive una situazione di esclusione rispetto alla massa e al sistema. Si tratta quindi del ribaltamento di una concezione elitaria: si identifica nell’eroe della distopia il lettore-spettatore che sperimenta quotidianamente la propria esclusione dalla società dei perfettamente integrati, i sani, per esteso coloro che prosperano nel sistema neo-liberista. Di fondo troviamo una linea narrativa – di cui Matheson è un esempio – che rappresenta la critica radicale al sistema; tuttavia, il rischio latente nella normalizzazione di questo racconto attraverso la serialità televisiva è che la distopia diventi una narrazione reazionaria, in cui un individuo speciale lotta da solo contro il sistema. Non è, quindi, un racconto che pone al centro il mutualismo tipico dell’utopia socialista e anarchica. D’altro canto, le narrazioni utopiche normalizzate contengono nel loro seno un rischio equivalente: se da un lato l’esaltazione del migliore da critica al sistema finisce col diventare reazione, d’altro lato la retorica del gruppo che si dedica alla costruzione di un modo migliore contiene un nocciolo di escapismo, come in certe derive fantasy in cui una visione estetica/estetizzante depotenzia la lotta fino a neutralizzarla.

«Prosocialità significa che mettersi nella posizione di decidere chi si salva e chi no implica un darwinismo sociale che è un’arma a doppio taglio, perché prima o poi esplode in faccia a chi la usa» (p. 91). Mai come oggi una considerazione di questo tipo riflette le dinamiche che si stanno vedendo a proposito delle criticità scatenate dalla pandemia. Un gruppo minoritario di “resistenti” ai dispositivi sanitari caratterizza come “zombie” la massa che si è lasciata vaccinare mettendo in atto appunto un comportamento prosociale in un’ottica di mutuo appoggio e seguendo una concezione contraria al darwinismo sociale che predetermina chi – in questo caso in base alla salute e all’età – debba sopravvivere. Mai come in questa particolare contingenza si è verificata la deriva reazionaria della distopia, e mai quanto durante il lungo lockdown si è verificata una versione domestica dell’utopia escapista. Non a caso, nei social media più attuali si è vista un’ondata di trend basati su narrazioni fantastiche, grazie alle quali i “rinchiusi” hanno rappresentato la lotta contro il virus, ormai elevato a figura allegorica del nemico. Ed è forse l’allegoria la forma retorica più insidiosa del momento, il parlare costantemente d’altro, quando ciò di cui è necessario parlare qui e ora è del nostro presente, del cambio di paradigma che sta avvenendo adesso, sotto i nostri occhi, mentre sembra che chi si occupa di narrazioni viri verso il futuro perché non è in grado né di percepire né di decodificare questo spostamento, che non è necessariamente negativo.

Meschiari si pone, quindi, il problema dello slittamento di paradigma nella direzione di un racconto che superi i limiti dei diversi sottogeneri del romanzo, poiché di questo si sta parlando e dunque si parte dal presupposto che il romanzo come genere letterario – attraverso le sue declinazioni – sia ancora la modalità auto/rappresentativa della borghesia, nonostante la crisi che ha colpito questa classe sociale a partire dal 21° secolo:

«[…] non dobbiamo salvare solo alcuni, dobbiamo salvare tutti. Questo non significa riuscirci, non significa nemmeno sostituire con un’utopia umanista un realismo pragmatico, ma certamente impone un reboot cognitivo, filosofico ed etico che può creare premesse per immaginare soluzioni alternative, per non rassegnarsi all’Homo lupus» (pp. 91-92).

Se il termine “resistenza”, il verbo “resistere” risultano ormai iperconnotati e quindi svuotati di significato, l’azione che propone Meschiari è di individuare un nemico che riattualizzi la pratica della resistenza. Il nemico più concreto che opera nella realtà è chi produce immagini per noi, inducendo un analfabetismo immaginativo generalizzato. Un modo per riaccendere la pratica resistente è quindi quello di ricominciare a produrre immagini efficaci che risveglino la consapevolezza del collasso e riaccendano l’abilità – invero primigenia nell’umano – di immaginare scenari alternativi.

Tuttavia, avvisa l’autore, il rischio dell’appropriazione culturale è molto concreto, e per questo motivo ciò che va indagato sono i paradigmi altri, decodificando l’intreccio fra mito ed esperienza: «[…] racconto mitico, racconto sociale e racconto animale sono un unico flusso/intreccio narrativo» (p. 100).

Se tutta la politica che ci riguarda si gioca attraverso le immagini (p. 96) è urgente che le immagini vengano prodotte dai soggetti, che quindi il rapporto fra l’io-immaginante e l’oggetto di politiche immaginative assoggettanti e neutralizzanti si sovverta:

«L’agentività immaginante è dunque al servizio di una riconnessione con il mondo, è l’allestimento di un’architettura semiotica e cognitiva in grado di usare il virtuale per rischiarare, intensificare, risemantizzare l’adesso-qui» (p. 103).

Un immaginario addomesticato dalla sovraesposizione a impulsi erogati in modo surrettizio quanto autoritario (la grande frode del potere tardo-capitalista consiste nell’elargire repertori preconfezionati in cui chiunque si può identificare in qualche modo) impedisce di fatto di uscire dalla palude in cui l’Occidente si è adagiato. Ma addomesticare il linguaggio è l’attività preferita di chi prospera in un sistema economico, e passa anche attraverso l’ingabbiare all’interno di coordinate cognitive una terminologia sovversiva: uscire dalla comfort-zone, pensare out-of-the box sono esempi concreti di come il linguaggio del marketing ha addomesticato l’immaginario allo scopo di trarne profitto. Quando parliamo di “agentività immaginante”, quindi, siamo davanti all’ipotesi di scardinare a priori ogni possibile gabbia che rinchiuda la risorsa primigenia dell’essere umano davanti a un nemico temibile. Non sono quindi i repertori “altri” addomesticati attraverso l’appropriazione culturale, il gusto per l’etnico e tutte le illusioni che ci apparecchia il tardo capitalismo, risorse credibili per attivare appunto l’agency del soggetto immaginante, che da un lato si confonde nelle narrazioni di evasione e dall’altro si dispera nelle derive distopiche.

Lo strumento per riscattare un immaginario impaludato non può che essere culturale nel senso più vasto del termine, con l’obiettivo di intercettare gli slittamenti mancati, i momenti della storia della civiltà in cui si sarebbe potuto cambiare rotta, ma si è preferito rimanere nel noto. Un modo per portare alla luce questi snodi culturali è andare «all’origine del meccanismo profondo» (p. 114) che ha addomesticato le angosce umane su cui si costruisce il potere. Questo discorso è tanto più valido se applicato al panorama editoriale, in quanto la scrittura è anche una espressione artistica alla quale gli umani affidano il prodotto della loro coscienza. Scrivere nell’Antropocene significa quindi dare una forma all’idea stessa di sopravvivenza della specie e del pianeta, immaginare l’umano alle prese con un ambiente di cui lui stesso ha contribuito a modificare la conformazione e con un linguaggio che non ha più alcuna efficacia per descrivere il mondo come lo abbiamo sempre conosciuto, che necessita quindi urgentemente di una revisione radicale.

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Immagine di copertina:
illustrazione di Matteo Meschiari tratta dal libro.