Ontologia Orientata agli Oggetti – Una nuova teoria del tutto (traduzione di Olimpia Ellero, prefazione e cura di Francesco D’Isa, Carbonio Editore 2021), è la prima opera in traduzione italiana del filosofo americano Graham Harman, nonché una delle sue più recenti (Pelican 2018). Come al solito, Harman organizza il discorso con piglio strategico, offrendo al lettore nuovi ragguagli sulla corrente filosofica di sua invenzione, senza trascurare una sorta di ricapitolazione generale degli ultimi sviluppi. Un’operazione che lo ha visto impegnato per più di venti pubblicazioni, lungo un arco di quasi vent’anni, testardamente riproposta quasi a ogni nuovo volume.
Preliminarmente, da cultore della prima ora dell’“estetontologia” harmaniana – e da cavia, nel corso degli ultimi sette anni, dell’ostinata ripetitività di Harman – mi spingerei ad affermare che, se c’è un’opera della quale avete assolutamente bisogno per conoscere e comprendere l’ontologia orientata agli oggetti, è senz’altro questa, trattandosi dell’ultimo e più aggiornato bollettino sullo “stato dell’arte” dell’intera disciplina.

Per questi e altri motivi – e mi scusassero i lettori italiani – riassumere il contenuto di un libro di Harman risulta piuttosto imbarazzante agli occhi del filosofo speculativo. Si tratterebbe, dopotutto, dell’ennesimo riassunto di un riassunto. Si può, tuttavia, tentare di offrire una panoramica sulle tematiche affrontate dal filosofo lungo i vari capitoli che compongono l’opera. Un’opera che, a suo modo, spicca su tutta la precedente produzione di Harman per concisione, coerenza, semplicità e sincerità (vedremo poi in che modo quest’ultimo attributo risulti di vitale importanza per l’ontologia orientata agli oggetti).

Iniziamo col dire che il principale protagonista dell’ontologia orientata agli oggetti è l’oggetto in sé. Tale “in sé” assume un senso costitutivamente ambiguo. Di fatto, esso rappresenta un’astrazione dell’oggetto, nel senso che ogni oggetto è tale solo in quanto posto dinanzi a un soggetto, ma ogni soggetto è a sua volta oggetto per altri soggetti, nonché per se stesso – tanto nei suoi atti percettivi, quanto nei processi di autocoscienza. Io mi penso, mi ascolto, mi vedo. Ciò comporta che ogni soggetto, in sé e di per sé, sia fondamentalmente un oggetto.
Secondariamente, seppur non in ordine di rilevanza, l’accesso di ogni soggetto a ciascun oggetto è limitato alle “qualità” che ne ammantano il nucleo più profondo. In breve, l’oggetto reale si ritrae in sé, sottraendosi alla prensione diretta di tutti gli altri oggetti e persino di sé stesso. Nulla è direttamente percepibile, conoscibile o manipolabile – in un’eterna replicazione locale della generalissima “cosa in sé” kantiana.
Più che giustamente, Harman non dà indicazioni teoriche riguardo al nucleo essenziale dell’oggetto, lasciando che sia il costante flusso di esperienza del lettore a giudicare in merito. Tale decisione rimanda l’intera ontologia harmaniana (più volte accusata di essere un’epistemologia) a un ulteriore ramo delle discipline filosofiche: l’estetica.

Nella prima parte di Una nuova teoria del tutto, l’esperienza del soggetto (un soggetto definito dalla possibilità stessa di esperire in qualche modo, dunque indifferentemente umano, pesce o lampadina) diviene la chiave di volta della conoscenza e dell’etica, sotto l’egida della metafora.
Sulla scorta di Ortega Y Gasset, Harman individua nella metafora uno strumento privilegiato nella conoscenza delle cose del mondo, giacché in essa si compirebbe l’estrazione – soggettiva ma, al tempo stesso, dotata di aspirazione universale – di talune qualità degli oggetti. Nella metafora, al contrario che nelle pratiche scientifiche, il soggetto non tenta di epurare dall’oggetto le credenze personali, le percezioni individuali e gli altri elementi di disturbo; esso si dispone in atteggiamento accogliente, ben sapendo di non poter giungere in alcun modo all’oggetto reale, “attaccandosi” più che mai alle qualità e alle impressioni che queste ultime stimolano nella propria mente.
Il cipresso, in tal modo, può divenire “l’ombra di una fiamma morente”, e il mare può assumere il “colore del vino”, cogliendo qualcosa non tanto dell’oggetto in sé, quanto dell’esperienza che di esso facciamo.
Si può pertanto affermare che il cuore pulsante dell’ontologia orientata agli oggetti è situato all’incrocio tra l’estetica, l’epistemologia, l’empiria e l’ontologia stessa, in una fitta stratificazione che tenta di rispecchiare la complessità del reale.
Viene tuttavia da chiedersi, chiosando lo stesso Harman, cosa ne sia della metafora in quanto pratica scientifica. Non sono, forse, i “modelli scientifici” delle elaborate metafore formali, prodotte in base all’esperienza indiretta (sensibile o mediata da strumentazioni) dei ricercatori e delle ricercatrici? L’atomo è come una configurazione di piccole sfere colorati, benché tali sfere, di fatto, non siano che eccitazioni di diversa natura, disposte all’interno di un campo elettrico.
Ogni modello scientifico porta con sé un modello cosmologico, che si tratti di un’ipotesi o di una teoria accreditata (paradigmatica, per usare lo stesso termine impiegato da Harman e mutuato dal filosofo della scienza Thomas Kuhn).
In fondo, il fatto di credere fin troppo intensamente ai propri modelli, è un problema dei ricercatori stessi e di un sistema scolastico apodittico e orientato ai mercati, non della ricerca.

Da tali constatazioni, deriva un’ontologia piatta, nella quale ogni oggetto (reale o fittizio che sia) assume medesima dignità, pur essendo proiettato lungo scale che, dal microcosmo, si estendono al macrocosmo, fino a tangere i cosiddetti iperoggetti (oggetti compositi, diffusi e non locali) e l’universo stesso. Scale che, a loro volta, emergono da intricate reti di relazioni che, tuttavia – in opposizione al costruttivismo, all’idealismo e al relazionismo in voga tra le correnti postmoderne – non esauriscono il potenziale individuale di ciascun oggetto. Un magma ontologico situato nel nucleo profondo dell’oggetto, la sua essenza, dalla quale possono pur sempre emergere nuove e inattese configurazioni, nuovi effetti e nuove qualità.
L’ontologia orientata agli oggetti può, pertanto, essere definita un’ontologia “anarchica”, nella quale l’essenza si presenta come un abisso impenetrabile, dotato di facoltà tanto creative quanto distruttive. L’universo stesso diviene una superficie solcata da fremiti e gorgoglii, istanti nei quali gli oggetti si disfano e si riconfigurano, senza che il loro nucleo profondo venga mai sfiorato.
Parafrasando una delle prime opere di Harman, il fuoco non brucia il cotone, ma le qualità superficiali del cotone, alle quali può avere accesso per mezzo delle proprie virtù fisico-chimiche.

Una nuova teoria del tutto offre al lettore anche ben due capitoli interamente dedicati ai sostenitori, ai detrattori e ai differenti sviluppi multidisciplinari dell’ontologia orientata agli oggetti, facendo il punto di due decenni di dibattito ininterrotto – passando da Morton a Bennet, da Latour a Barad, da Garcia a Ferraris, giungendo a lambire persino l’architettura, punto focale del recente Is There an Object-Oriented Architecture? (Bloomsbury 2020).
Uno strumento che risulterà di certo molto utile a chi si accosta per la prima volta a questa originale corrente filosofica.
In questa mossa, tuttavia, vi è anche un’importante svolta. Per la prima volta, Harman si esprime in modo più diretto in merito alla valenza politica dell’ontologia orientata agli oggetti ‒ sull’onda di recenti querelle che lo hanno visto bollare in quanto ignavo, se non addirittura come un ambiguo reazionario.
Coerentemente a quanto stabilito dagli assiomi fondativi della OOO, delle ipotetiche politiche a essa ispirate sarebbero costrette ad abbandonare ogni pretesa di verità, ogni ambizioso progetto volto alla conquista del nucleo fondamentale della realtà. Si tratta, a discapito delle apparenze, di un’affermazione dal gusto radicale e antimoderno. La quasi totalità dei movimenti filosofico-politici moderni, di fatto, si è posta all’interno di un duplice percorso: da un lato, l’ingegneria sociale, ossia la manipolazione scientifica delle masse; dall’altro, la cornice ontometafisica capace di consentire tale approccio ingegneristico, sarebbe a dire, la pretesa di assoluta e incontrovertibile scientificità.
“Scientifico”, in questo caso, diviene sinonimo di “vero”. L’illusione di aver colto delle verità fondamentali e assiomatiche è, non a caso, il vezzo di un gran numero di correnti politiche moderne ‒ si pensi all’ordine neoliberale, ma anche al suo acerrimo oppositore, il marxismo, o, ancora, alla spiritualità essenzialista delle destre estreme.

Le politiche tratteggiate da Harman rinunciano fino in fondo a ogni pretesa di verità, lasciando che gli oggetti entrino all’interno del discorso politico ‒ con tutto il loro baluginante armamentario di qualità instabili.
Tra gli (iper)oggetti più rilevanti all’interno del dibattito politico contemporaneo, troviamo la crisi ecologica e climatica e i flussi migratori da essa generati. Per Harman, negare tali emergenze significa negare la realtà. Tale realtà, d’altra parte, richiede da ciascuno di noi una presa di autocoscienza, uno slittamento prospettico in direzione della complicità con materiali anonimi o, meglio ancora, un’ammissione di sincerità: ovunque vi sia realtà, lì io non potrò mai essere. La verità è preclusa.
Ne consegue che ogni politica dotata di coerenza rispetto a tale principio sia costretta a fare un passo indietro, ripiegando sulla costruzione di ipotesi e modelli, nonché su un metodo “proto-scientifico” fondato sul tentativo e sull’errore. Una politica moderata – forse un po’ troppo moderata, visti i tempi che ci attendono appena dietro l’angolo – che riesce, tuttavia, a inquadrare l’estrema problematicità dell’epistemologia politica, rendendone tutta la complessità.

Graham Harman si riconferma come uno dei più rilevanti pensatori del ventunesimo secolo, capace di adattare alle esigenze del reale un intero territorio di studi, anno dopo anno ‒ rafforzandone, e persino indebolendone strategicamente, le potenzialità, la portata e gli obiettivi filosofici.
Ontologia Orientata agli Oggetti – Una nuova teoria del tutto rappresenta un passo fondamentale verso la divulgazione di nuovi atteggiamenti pratici ed epistemici nei confronti del mondo (non solo umano), all’instancabile ricerca di un’esistenza e di una conoscenza più piene, capaci di integrare in sé ogni forma di vita, tanto materiale quanto immateriale, tanto organica quanto inorganica

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Immagine di copertina:
Pamela Rosenkranz, Our Product, padiglione Svizzera, Biennale Arte 2015, Venezia.