[Pubblichiamo il capitolo conclusivo di “Una guerra di nervi. Soldati e medici nel manicomio di Racconigi (1909-1919)”, Pacini, 2020].

Una patologia criminale: lo «shell shock»

Da quando, nel 1915, C. S. Myers, sulla rivista Lancet, ha coniato il termine shell shock per indicare il trauma che colpisce i militari che si trovano nei pressi dello scoppio di una granata, o di una esplosione, l’analisi degli effetti sulla mente dei combattenti del conflitto ha fatto parecchia strada. Decine e decine di studi di carattere medico, psichiatrico, storiografico, sociologico, sono stati prodotti per cercare di problematizzare e dare un senso a sintomi diversi, quali esaurimento, palpitazioni, confusione mentale, perdita della parola, tremori, cecità, deliri, insonnia, dolori muscolari e articolari, vertigini, incubi, che in misura diversa, in alcuni casi per brevi periodi, in altri per tutta la vita, hanno segnato le esistenze dei soldati di ritorno dalla guerra.

Durante il conflitto ufficiali medici e alienisti si diedero da fare per evitare qualunque nesso causale esplicito tra la guerra e il disagio mentale sofferto dai soldati. In tale ottica l’uso delle consolidate categorie della predisposizione e della degenerazione, oltre a rappresentare le difficoltà di tanti medici ad abbandonare la tradizionale boîte à outils di derivazione antropologico criminale, indica un più o meno irriflesso desiderio di «non attribuire alla guerra un’azione determinante nell’insorgere del disagio psichico».1 Lo stesso Myers ipotizzò un disturbo da conversione in soldati incapaci di sopportare lo sforzo bellico, indicando così nella vulnerabilità patologica dei militari la condizione per l’emergere della condizione traumatica. Dunque, anche se già verso la fine del conflitto, soprattutto in Inghilterra, con il termine shell shock si indicò non soltanto l’effetto traumatico dello scoppio violento delle granate, ma più in generale le conseguenze del conflitto sulla mente dei militari, ciò non determinò alcun riconoscimento sociale del valore patogeno del conflitto. Piuttosto, l’uso reiterato di paradigmi che afferiscono all’ambito morale, contribuì a rafforzare il discredito e la diffidenza verso i soldati che lamentarono tali sintomi. Questi vennero ritenuti perlopiù deboli, poco virili,2 effemminati: scarti prodotti da una società sempre più debole e proiettata verso il totale disfacimento. E proprio ciò pesava nella valutazione degli individui affetti da presunto disagio mentale, ritenuti perlopiù dei potenziali simulatori, dei deboli e dei degenerati, pronti a tutto pur di evitare il proprio servizio alla nazione.

Soltanto lentamente la diffusione epidemica delle nevrosi di guerra tra i militari, e il copioso presentarsi di soldati nei diversi ospedali da campo durante il conflitto, fece sorgere il dubbio in diversi medici che, da sole, predisposizione e degenerazione non fossero categorie in grado di cogliere le ragioni psico-sociali che determinavano l’insorgere del trauma psichico. Così, accanto a chi si aprì al riconoscimento di un ruolo almeno predisponente del conflitto, ci fu anche chi, come Anselmo Sacerdote, sul Giornale di Medicina Militare, sottolineò l’effetto stressante e probabilmente patogeno del conflitto, al di là della predisposizione individuale.3 Certo tali voci restarono per lo più delle eccezioni, soprattutto durante il conflitto, e se la maggior parte dei medici militari si diede da fare per evitare che venisse stabilita alcuna connessione tra i sintomi dei soldati e la guerra, la quasi totalità degli alienisti che accolsero e “curarono” nei manicomi i soldati giudicati degni di ricovero, evitarono perlopiù giudizi definitivi sulla natura e le cause delle psiconevrosi belliche. E questo nonostante il rilevante numero di soldati che affollarono i padiglioni psichiatrici militari allestiti nei diversi manicomi civili. Alla luce di ciò, pur in mancanza di esplicite indicazioni desunte dalle fonti, questo silenzio non può non apparire sospetto ed è lecito ipotizzare una strategia consapevole delle direzioni sanitarie, volta ad evitare ogni contrasto con le autorità politiche e militari.

D’altra parte il ruolo degli alienisti civili durante la guerra fu decisivo, non soltanto perché molti furono gli psichiatri inviati negli ospedaletti da campo e nei centri di primo intervento dislocati nelle zone di guerra, ma anche perché i manicomi accolsero la maggior parte dei soldati ritenuti affetti da disagio mentale e da tare potenzialmente pericolose «a sé e agli altri». L’Italia militare, entrata nel conflitto senza un adeguato servizio neuropsichiatrico, investita dall’urto psicopatogeno del conflitto, anche se fece di tutto per non riconoscerlo, dovette infatti suo malgrado mobilitare un esercito di psichiatri civili per far fronte al problema. Ma ciò avvenne dopo che per decenni, e soprattutto dopo la legge Giolitti del 1904, il ruolo degli alienisti civili era stato sempre più confinato al perimetro asilare, sancendo una esclusione dalla società e dalla politica di cui gli psichiatri non smettevano di lamentarsi. In tutto ciò i rapporti tra le autorità militari e questo “alienismo da manicomio” erano perlopiù assenti, come testimoniano le problematiche comunicazioni che contraddistinsero tanti casi di ricoveri manicomiali per soldati affetti da disturbi mentali. Reciproche diffidenze, sfiducia tra i diversi comparti dell’amministrazione pubblica, lentezze burocratiche, attaccamenti a prerogative e competenze, erano tutti elementi che contribuivano a tenere in vita sospetti e sfiducie incrociate e probabilmente ciò influiva sull’atteggiamento prudente e circospetto tenuto dagli alienisti, come Cesare Rossi, che evitavano di prendere parola ed esprimersi su un fenomeno di una consistenza tale da non poter non attirare l’attenzione.

Tale attegiamento era in linea con una situazione generale in cui l’adesione ai valori militari, le urgenze sollecitate dalla guerra e il pesante giudizio morale nei confronti dei soldati affetti da disturbi mentali, contribuivano a stabilire un clima di profonda ostilità verso i combattenti mentalmente disturbati. Nonostante, come detto, verso la fine della guerra, anche in Italia, lentamente si fece strada l’idea che il conflitto svolgesse un ruolo non secondario nella costituzione dei disturbi psichici dei soldati, il ridotto numero delle pensioni di guerra rilasciate, a fronte del numero dei ricoveri, lo stigma che ancora a guerra finita pesò sugli “scemi di guerra” – sintagma coniato tra l’altro proprio nel dopoguerra –, «l’assenza di un dibattito pubblico sul diritto dei soldati traumatizzati a essere curati e difesi in tribunale»,4 indicano la pesante rimozione subita da questa categoria di reduci dal pubblico riconoscimento e dal sostegno sociale. Anche questo fu un effetto della marcata subordinazione della classe medica, in special modo quella psichiatrica, alle autorità militari e, più in generale, il riflesso di quella esclusione sociale cui furono soggetti gli alienisti in misura sempre più evidente a partire dalla legge Giolitti. Infatti il ruolo loro riconosciuto di guardiani delle «persone affette per qualunque causa da alienazione mentale quando siano pericolose a sé o per gli altri o riescano di pubblico scandalo»,5 riduceva la psichiatria a una forma di servizio di pubblica sicurezza e gli alienisti a “poliziotti dei matti”, con una funzione sempre più circoscritta: «carcerieri non solo dei ricoverati ma anche di se stessi».6

Questo orizzonte contribuì a standardizzare le strategie terapeutiche, influendo negativamente tanto sulla loro evoluzione, quanto sulla loro efficacia. Di tutto ciò è testimone anche la documentazione medica di Racconigi – cartelle, relazioni, anamnesi e diari clinici –, che dimostra la relativa ininfluenza dei percorsi riabilitativi e la genericità delle strategie terapeutiche adottate, limitate perlopiù all’attenuazione dei sintomi più violenti, in attesa che il soldato fosse nelle condizioni per poter essere restituito al corpo d’appartenenza attraverso un provvedimento di «dimissione in prova». Nonostante i lenti adeguamenti diagnostici di cui abbiamo reso conto, l’uso estensivo di categorie tradizionali, l’inefficacia degli strumenti a disposizione e una certa improvvisazione, contribuirono a rendere la degenza dei soldati un percorso irregolare, in cui miglioramenti e peggioramenti dipesero più da contingenze e variabili diverse, che da una meditata strategia clinica. E l’alto numero delle recidive è in tal senso indicativo proprio di un tragitto clinico che, anche quando si conclude con le dimissioni, testimonia soltanto l’attenuazione dei sintomi più evidenti. Degenza forzata a letto, segregazione, isolamento, idroterapia prolungata, erano le strategie preferite per raggiungere questo ben misero risultato. E questo anche perché gli sguardi attoniti, la confusione mentale, i movimenti involontari, la perdita della memoria, della parola, dell’udito, le allucinazioni dei soldati, furono anzitutto trattati come potenziali casi di simulazione e, solo secondariamente, valutati come sintomi patologici.

Nicchie ecologiche e sindromi transitorie

Da ciò, complice la ricezione e la rielaborazione ideologica di alcuni fortunati studi sull’argomento, si è arguito troppo facilmente che la prassi psichiatrica e i manicomi abbiano prodotto dei potenziali sovversivi – i soldati alienati –, vale a dire dei soggetti che attraverso il rifiuto di accettare una gestione autoritaria e unilaterale dei rapporti di potere, hanno praticato una forma di ribellione nei confronti dei meccanismi di esclusione predisposti dalle autorità militari e dagli psichiatri. Questa interpretazione, molto affascinante e per questo di immediata circolazione, ha però il difetto di essere semplicistica e di scontrarsi con la complessità della realtà così come emerge dallo studio delle fonti, innanzitutto quelle manicomiali, gli spazi in cui tale opposizione dovrebbe essere maturata. In realtà i soldati giudicati degni di internamento manicomiale, almeno sulla base della documentazione esaminata,7 non hanno messo in pratica alcun consapevole atteggiamento oppositivo dettato da ragioni ideologiche e, anche nei casi di evasioni, più frequenti come visto verso la fine del conflitto, tale scelta sembra doversi iscrivere piuttosto in un ragionevole e tutto sommato comprensibile desiderio di guadagnare la libertà e fare ritorno a casa. La presunta resistenza nei confronti dei meccanismi di esclusione e spersonalizzazione prodotti dalle autorità e dal conflitto industriale non c’è stata, almeno non in una forma consapevole e diretta, e i soldati affetti da disagio mentale appaiono essere piuttosto che agenti di una ribellione nei confronti delle politiche disciplinari volute dall’esercito e dagli alienisti, le vittime inconsapevoli di disturbi psichici che sovente li hanno condotti sulla soglia dell’annientamento e del crollo psicologico.

L’interpretazione più ideologica del fenomeno delle nevrosi di guerra ha dunque sottolineato soprattutto l’aspetto repressivo insito nei processi di esclusione dei militari, compiuti attraverso le pratiche d’internamento. Tale lettura, basata su elementi indubbiamente reali quali la marginalità prodotta dai manicomi, l’azione “correttiva”, o altrimenti escludente delle autorità militari, l’opposizione passiva di tanti soldati “mentalmente disturbati” al conflitto, il rifiuto del disciplinamento e più in generale della gerarchia, ha il difetto di ipostatizzare i due poli dialettici di una relazione dicotomica basata su identità fisse: il segmento dominante (autorità militare, alienisti) e quello subalterno (i soldati internati o comunque affetti da disturbi mentali). Eppure questa lettura tralascia la complessità delle interazioni sociali, le differenze e le specificità che caratterizzano gli attori in questione e le peculiarità delle diverse realtà territoriali. Per queste ragioni deve essere ritenuta inadeguata per descrivere il fenomeno. Inoltre, come è stato dimostrato dagli studi storici, antropologici e sociali, l’azione dei sistemi culturali dominanti prevede passaggi e dinamiche di inculturazione che necessariamente passano anche per la risposta e l’adattamento dei soggetti da disciplinare. Per di più l’idea che l’azione di controllo sociale 8 sia unilaterale e preveda solo la risposta agita, la ribellione nei confronti della dinamica di esclusione, non sottolinea adeguatamente i meccanismi di reciproco riconoscimento tra internato e gerarchie mediche e militari e le dialettiche che ne derivano. Infatti, nel caso specifico che qui stiamo trattando, una volta che il soldato viene inviato in manicomio come potenziale alienato, prende forma una nuova identità – quella del soldato “disturbato” appunto – che lo contraddistingue in un insieme sociale, all’interno del quale egli si muove, agisce, fa esperienze e si muove. Come dimostrato da Ian Hacking, la costruzione delle identità sociali è un fenomeno complesso che ha degli effetti performativi e retroattivi sulla realtà stessa, per questo considerare i soldati alienati soltanto come potenziali ribelli nei confronti dell’ordine costituito, o come passivi marginalizzati dalle procedure di esclusione, rischia di mancare completamente il bersaglio ermeneutico e di offrire la sponda per letture riduttive di un fenomeno molteplice e articolato.9

Un altro elemento centrale della questione, che l’analisi della documentazione clinica ha consentito di problematizzare rispetto al dibattito scientifico presente sulle riviste dell’epoca, riguarda l’uso delle categorie nosografiche per designare il fenomeno dei traumi di guerra. Come indicato, questa patologia assume il valore di diagnosi ufficiale solo dopo la guerra in Vietnam, da ciò bisogna dedurre che prima non esistessero soldati affetti da disagio mentale? E come valutare allora l’epidemia di militari traumatizzati durante la Grande Guerra? In maniera convincente Ian Hacking, riflettendo sul paradosso epistemologico di patologie psichiatriche che appaiono e scompaiono nel corso della storia, anche in riferimento alla presenza (o all’assenza) di categorie nosografiche in grado di identificarle, ha proposto di evitare la comoda, ma inefficace, alternativa del costrutto sociale o dell’entità immodificabile. Diversamente egli ha sottolineato come le patologie psichiatriche sorgano e si costituiscano alla luce di complesse circostanze storiche, sociali, economiche, poste all’intersezione tra la dimensione individuale e quella collettiva. Fondamentale è il riferimento all’«habitat» storico, un insieme complesso costituito da fattori sociali, culturali, medici, politici, che stabiliscono le condizioni perché un fenomeno psicopatologico sussista o venga meno 10. Una patologia psichiatrica non è dunque un’essenza immutabile che attraversa i tempi e neanche una costruzione sociale legata solo alle proiezioni individuali e collettive di una certa epoca. Piuttosto è un’entità articolata che risente tanto della sua bio-complessità, quanto delle categorie attraverso cui viene designata in una certa epoca. È sulla base di questo presupposto che nella presente ricerca abbiamo ritenuto fondamentale indagare come il fenomeno sia stato designato e identificato nell’arco di tempo che abbiamo definito la «lunga Grande Guerra». Ciò dovrebbe consentire di far emergere specificità e continuità, rotture e persistenze nelle diagnosi e nel trattamento dei soldati alienati, così come si sono configurate nel segmento storico-geografico studiato.

Ma come sono state comprese le nevrosi belliche nel manicomio di Racconigi? In quali termini sono state considerate? Per designare i sintomi sofferti dalla maggior parte dei soldati che fecero il loro ingresso nello stabilimento, venne emessa una diagnosi provvisoria d’ingresso, che quasi sempre fece riferimento alla condizione sintomatica, ma quasi mai una diagnosi definitiva. Abbiamo ipotizzato che ciò sia stato l’effetto di una politica implicita della direzione sanitaria che, così facendo, volle evitare di prendere parola sull’origine e le cause delle patologie sofferte dai militari e dunque entrare in contrasto con le autorità militari, interessate ad evitare che si stabilisse un nesso tra guerra e follia. Tra i pochi riferimenti espliciti che ci consentono di farci un’idea di cosa pensassero a Racconigi delle nevrosi belliche, abbiamo una dichiarazione del direttore Rossi che analizzando il dato relativo all’alto numero dei soldati non riconosciuti alienati afferma che tra i soldati, «per ragioni ovvie, è frequentissima, se non la vera e propria simulazione della pazzia, l’esagerazione intenzionale di svariate manifestazioni nevropsichiche la cui natura patologica non può essere ammessa»11. Il passo ci consente di affermare che anche il direttore di Racconigi condivide la posizione più diffusa sul fenomeno, quella che individua nei soldati presunti alienati soprattutto dei simulatori o comunque degli esagerati che si servono delle «manifestazioni nevropsichiche» per sfuggire alla guerra, guadagnare qualche periodo di convalescenza e magari la riforma del servizio. Tale atteggiamento non sembra essere agli occhi del direttore Rossi moralmente riprovevole, tanto che lo ritiene “ovvio” e dunque in una certa misura comprensibile.

Un altro riferimento, utile per farci un’idea sulle opinioni della direzione sanitaria di Racconigi, è legato all’analisi del dato relativo alla «forte prevalenza degli uomini dimessi […] da attribuire al maggior numero di ammessi con forma a decorso favorevole rapido (psicosi alcooliche, disturbi mentali transitori in molti militari)».12 Nel passo il direttore Rossi fa riferimento ai «disturbi mentali transitori» di molti militari. È un’indicazione importante perché ci permette di inquadrare l’opinione medica del direttore sui sintomi sofferti da diversi soldati. Da qui, leggendo sinotticamente i due frammenti che abbiamo riportato, possiamo affermare che per la direzione sanitaria di Racconigi, le nevrosi di guerra, quando non furono vere e proprie simulazioni, rappresentarono o delle manifestazioni esagerate di sintomi «la cui natura patologica non può essere ammessa», o delle condizioni transitorie a possibile rapido decorso. Quest’ultima indicazione è rilevante perché ci offre le coordinate per inquadrare il fenomeno. Nello specifico sembra confermare ciò che Ian Hacking ha definito «sindrome transitoria», vale a dire una costellazione patologica, caratterizzata da sintomi diversi, che emerge in una determinata congiuntura, per poi sparire una volta venute meno le condizioni di emergenza. Secondo questa lettura l’emergere di una patologia è legata a una particolare “nicchia ecologica”, cioè un insieme specifico di fattori sociali, congiunturali, politici, economici che costituiscono lo sfondo, ma anche la condizione necessaria, per l’affermarsi di una certa malattia. Tutti questi elementi, anche le contraddizioni tra il dibattito scientifico, le diagnosi e le pratiche terapeutiche concretamente emesse e praticate nei diversi istituti manicomiali, rappresentano proprio i fattori di quella «nicchia ecologica» in cui prende forma il fenomeno delle nevrosi di guerra nella sua articolata bio-complessità.

Come emerso dallo spoglio documentario effettuato a Racconigi, il percorso di costruzione che lentamente conduce alla valutazione delle specificità che contraddistinguono le nevrosi belliche, ha inizio prima della Grande Guerra, con la graduale – e probabilmente irriflessa – adozione di alcuni diagnosi specifiche per la valutazione e il trattamento dei sintomi che conducono i soldati in manicomio. La «confusione mentale», nelle sue diverse varianti, in particolare, e la «non competenza manicomiale» – poco frequente nei casi di internati civili – sono due delle diagnosi che lentamente vengono sempre più spesso adottate per i soldati ricoverati. Ciò può far ipotizzare che anche in assenza di una esplicita riflessione medico-teorica, gli alienisti di Racconigi abbiano lentamente preso atto di una qualche specificità legata ai sintomi sofferti dai militari. Certo a ciò non fece seguito alcuna politica terapeutica particolare – neanche durante il conflitto –, se non una strategia di rapide dimissioni che sembrano essere in linea con le considerazioni espresse nelle valutazioni sopra riportate dei sintomi transitori e della esagerazione delle «manifestazioni nevropsichiche». Eppure i segnali che ci lasciano ipotizzare che dietro questo silenzio ci sia qualcosa di diverso rispetto alla semplice mancata considerazione non mancano. Tra questi c’è la parziale e incompleta compilazione della documentazione clinica, a differenza di quanto avviene nello stesso arco di tempo per gli alienati civili. Le anamnesi si limitano quasi sempre a riportare le notizie provenienti dal reparto, mentre i diari clinici non danno quasi mai alcuna informazione sulle “terapie” adottate e, solo raramente, fanno espliciti riferimenti agli eventuali mezzi di contenzione utilizzati. Inoltre, nella maggior parte dei casi, alla diagnosi d’ingresso – riportata nei registri d’entrata –, che solitamente fa riferimento ai sintomi più evidenti, non fa seguito alcuna diagnosi definitiva. Come abbiamo già indicato, ciò si spiega probabilmente con l’intento della direzione sanitaria di non prendere posizione sull’origine e le cause dei sintomi sofferti dai militari, evitando così alcun contrasto con le autorità militari.

Le specificità indicate, che contraddistinguono la situazione cuneese, delineano una delle possibili forme attraverso cui la guerra ha segnato una “nicchia ecologica” – l’universo manicomiale – in cui ceti e classi dirigenti, medici e pazienti, famiglie e autorità militari, infermieri e lavoratori, hanno interagito contribuendo a determinare una determinata realtà plurale. Un segmento di contemporaneità che non può essere ridotto soltanto a una dialettica tra ceti dirigenti (psichiatri e autorità militari) e classi subalterne (soldati alienati e famiglie). Infatti ciò che l’analisi delle fonti ha consentito di descrivere è un collettivo sociale disomogeneo, per cultura, formazione, provenienza, classe sociale, che all’interno del manicomio di Racconigi, visse e fece esperienza di come la guerra investì e stravolse non soltanto le esistenze dei militari al centro di questa ricerca, ma più in generale la comunità tutta.

Devianti, sovversivi o vittime dimenticate della Storia?

Ricostruire le vicende dei soldati internati, descrivere e cercare di contestualizzare i sintomi che li hanno condotti in manicomio, analizzare le dinamiche e le politiche terapeutiche adottate dai medici, ma anche esaminare il ruolo e i comportamenti delle famiglie e vagliare – laddove possibile – l’atteggiamento delle autorità militari, ha consentito così di problematizzare tendenze più generali emerse negli studi d’insieme, ma anche di evidenziare i limiti di certe letture generalizzanti che non fanno i conti con la molteplicità storica ed evenemenziale delle realtà locali.

È il caso del fortunato successo di alcuni importanti studi sull’argomento, come No Man’s Land. Combat and Identity in World War I di Eric J. Leed, che, se hanno avuto da una parte il grande merito di favorire l’attenzione collettiva su un tema poco considerato prima, quale la costituzione di nuovi orizzonti mentali a seguito degli sconvolgimenti prodotti dal conflitto, hanno d’altra parte favorito una lettura delle nevrosi di guerra nei termini di una fuga nell’irrazionale, volta ad evitare il conflitto, che risulta forzata se adottata quale interpretazione generale. Questa lettura infatti, che si è caricata ideologicamente di significati attinenti il rifiuto della guerra, la contrapposizione tra classi dirigenti e ceti subalterni, la lotta contro il militarismo, la ribellione contro ogni forma di potere, ha problematicamente sovrainterpretato il disagio mentale dei soldati di accezioni che non possono ambire a quell’estensione di cui avrebbe bisogno la chiave interpretativa per fungere da quadro ermeneutico d’insieme. Come dimostra la situazione cuneese il disagio mentale vissuto dai militari, sia prima che durante la guerra, è riconducibile a una molteplicità di cause che afferiscono a situazioni individuali, familiari, a contingenze esistenziali, alle particolari condizioni stressanti della vita in caserma o in trincea e anche, in alcuni casi, a predisposizione personale. Dedurre da questo variegato catalogo una meditata contrapposizione nei confronti del militarismo o della guerra risulta improprio e illegittimo sul piano quantitativo. Quanto sottolineato da Andrea Scartabellati, nel suo studio di caso relativo al manicomio di Cremona, vale anche per la realtà cuneese studiata in questa ricerca: la «condizione oppositiva minoritaria [dei soldati nda] certamente creatasi in alcuni casi come attestano le carte, ma non secondo quella logica estensiva, generalizzante e vagamente politicizzata che la vorrebbe ascrivere indistintamente ai matti di guerra».13

Sempre per rimanere al celebre studio di Leed, altrettanto problematica è la tesi di una ridefinizione dell’identità dei combattenti a seguito della guerra. Tale lettura è costruita attraverso la giustapposizione di una serie di ipotesi non dimostrate, come quella, derivata da Ernst Simmel, delle nevrosi di guerra nei termini di «un’area di parcheggio lungo la strada di una rottura ben più radicale con la realtà».14 O quella che individua nel conflitto un fattore in grado di produrre «un mutamento irreversibile [nella vita dei combattenti], tanto irreversibile quanto il tracollo di un mondo amato, familiare, tanto irreversibile quanto una mutilazione».15 Qualche pagina dopo Leed sostiene che «non è esagerato affermare che molti combattenti si abituarono a rapportarsi ad ogni cosa nei termini della loro esperienza di guerra; e poterono farlo perché l’esperienza di guerra, attraverso le metafore derivate da essa, divenne qualcosa capace di comprendere tutto».16 Da ciò la conseguenza logica secondo cui «i problemi psichici causati dall’esperienza di guerra comportarono sovente una profonda dissociazione, una discontinuità vera e propria a livello individuale».17 È il tema, cui fa riferimento anche il sottotitolo, dello stravolgimento dell’identità personale a seguito dell’impatto della guerra.18 Sostenere però che il conflitto «fu un’esperienza di radicale discontinuità ad ogni livello della coscienza»19 significa affermare che l’esperienza poté ridefinire orizzonti mentali inediti nei combattenti, in particolare in coloro che «continuarono ad essere psichicamente disturbati dalla esperienza di guerra personale».20 Eppure che l’effetto della guerra sulla psiche dei soldati abbia prodotto l’emergere di nuovi quadri mentali, mutamenti psicologici in grado di determinare inedite forme di soggettività, è una tesi tanto dirompente, quanto poco suffragabile sulla base della documentazione clinica a disposizione, almeno quella da noi esaminata. Questa infatti non contiene alcun riferimento utile per ipotizzare un eventuale mutamento del paesaggio mentale dei soldati, anzi la continua attenzione per gli eventuali precedenti familiari fa emergere piuttosto un orizzonte ermeneutico che alla rottura privilegia la continuità (in questo caso di stirpe). Nello specifico l’irrompere della guerra nel vissuto psicologico dei militari, per i medici di Racconigi, viene letto in un orizzonte interpretativo multifattoriale, che risente indubbiamente della cultura e dell’ideologia degli alienisti, ma anche dei dati desunti nei confronti con i pazienti. E sono proprio questi ultimi a non offrire una sponda per letture tanto ambiziose quali quelle che rimandano alla ridefinizione delle soggettività. Piuttosto gli interrogatori, le anamnesi e i riferimenti clinici evocano vicende private, silenzi, dolori, estraneità e vergogne. E per questo soprattutto un universo di solitudine e di abbandono, destinato a durare anche dopo il conflitto, che è la cifra di esistenze dimenticate e prive di ogni riscatto. Non tanto nuove identità quindi, quanto esistenze svuotate di senso.

Tra gli effetti dell’applicazione della lettura ideologica alla questione dei “pazzi di guerra” c‘è poi la reificazione della prassi psichiatrica nei termini di opera politica di medicalizzazione del dissenso. Secondo tale interpretazione gli alienisti avrebbero rappresentato il “braccio operativo” di politiche disciplinari volte alla individuazione e alla correzione dell’anormalità tra i militari. Questa lettura, entro una certa misura comprensibile alla luce della svolta posta in essere dalla legge del 1904, che riduceva i manicomi a contenitori dei pazzi pericolosi «a sé o per gli altri», non tiene conto proprio della complessa diversificazione delle realtà locali. Direzioni sanitarie molteplici, costituite da personale medico disomogeneo per cultura, formazione, ideologia, inclinazioni, rendono la prassi psichiatrica un sintagma difficilmente descrivibile attraverso generalizzazioni e, proprio per questo, indagabile solo a partire dal suo esercizio concreto, nelle realtà in cui è avvenuto.

A Racconigi il direttore Rossi sembra essere molto incline ad attuare politiche di no-restraint, di collocamento in prova dei malati presso le famiglie, cerca inoltre di ridurre l’uso dei mezzi di contenzione e, al di là delle ragioni specifiche che lo orientano, attua una politica di rapide dimissioni, in particolare proprio nei confronti dei soldati, che ben poco si sposa con l’idea di un’opera di medicalizzazione del dissenso compiuta nel recinto manicomiale. Piuttosto la sua azione sembra essere dettata dalla volontà di restituire, nella misura maggiore possibile, i soldati ai corpi d’appartenenza, ma questo senza che se ne possa dedurre una politica chiara e unidirezionale. Infatti non sono pochi i casi di militari, ritenuti affetti da disagio mentale non transitorio, ricoverati ben oltre il periodo di osservazione in attesa di miglioramenti. Ciò avviene anche nelle circostanze di sopraggiunta riforma dal servizio militare, a dimostrazione che il criterio di “restituire il soldato ai propri doveri” non è il solo a orientare la prassi adottata che, sulla base della documentazione esaminata, appare più fluida, condizionata dalla valutazione del caso specifico e non da una intransigente opera disciplinare orientata alla correzione del dissenso. Certo è innegabile l’influenza delle opinioni maturate dal direttore sulle politiche terapeutiche adottate e su quelle diagnostiche, ma ciò piuttosto che confermare l’idea di una consapevole strategia di medicalizzazione del dissenso, rinvia alla concreta materialità della realtà esaminata.

Ancora, tra gli altri elementi che consentono di problematizzare ulteriormente il fenomeno delle nevrosi di guerra, e di far emergere più di un dubbio sulle letture che hanno sottolineato la declinazione ideologica della “fuga nella malattia” dei soldati, c’è l’atteggiamento tenuto proprio dai militari traumatizzati e dalle loro famiglie nei confronti del conflitto. Secondo la documentazione clinica, le anamnesi, i rapporti degli infermieri sui comportamenti tenuti dai combattenti durante la degenza, ma anche secondo le lettere delle famiglie conservate, non emergono casi in cui si delinei una posizione di consapevole e più o meno meditata opposizione nei confronti dello stato o della guerra. Quest’ultima, in particolare, viene vissuta piuttosto come una fatalità da accettare, secondo un atteggiamento che molto sembra essere legato all’universo mentale contadino da cui la maggior parte dei soldati proviene. E anche nei casi in cui è possibile riscontrare una qualche forma di rifiuto della guerra, da qui non è possibile trarre una interpretazione estensiva valida per l’insieme della situazione cuneese. Certo non è lecito escludere che alcuni comportamenti, come le evasioni o i gesti di autolesionismo, abbiano rappresentato, in forma inespressa, una modalità di opposizione nei confronti della situazione, del conflitto e dell’internamento manicomiale, ma anche in queste circostanze dedurre da ciò ermeneutiche valide per intere collettività – nello specifico i soldati internati – appare illegittimo. In tal senso il problema di fondo, sul piano metodologico, riguarda proprio la reificazione di identità collettive che, invece, la documentazione esaminata, dimostrano essere dei significanti vuoti, o piuttosto degli insiemi non circoscrivibili poiché costituiti da una molteplicità di figure, con storie diverse, esperienze particolari, vicende e realtà biologiche specifiche.

Alla luce di tutto ciò, quello che questa ricerca ci consente di affermare è proprio la complessa articolazione del fenomeno delle nevrosi di guerra, posto all’intersezione tra una molteplicità di dialettiche diverse, spesso confliggenti. Il sapere medico, la sua declinazione particolare, il contesto asilare, le politiche terapeutiche, le vicende personali, l’atteggiamento delle autorità militari, il ruolo delle famiglie, sono soltanto alcuni degli elementi di questo puzzle che non può essere ricondotto a unità. E le vicende dei singoli soldati, più che essere inquadrabili come forme di proto-ribellioni che, attraverso la malattia mentale, testimonierebbero il rifiuto nei confronti dell’autorità e della guerra, appaiono essere storie senza riscatto, frammenti diversi di un fenomeno per lungo tempo condannato all’oblio. Una molteplicità di vicende particolari, schiacciate tra disagio mentale e mancato riconoscimento sociale, tra difficoltà di adattamento alla “nuova” esistenza manicomiale e, diversamente, dimissioni a cui fecero seguito riprovazione sociale, problematiche relazioni comunitari e lavorative, lacerazione degli affetti, solitudini e abbandoni. Un insieme disperso di esistenze svuotate, alla ricerca di un senso impossibile da trovare e, in quest’ottica, segnate irrimediabilmente dalla guerra e dal trauma che questa rappresenta.

Quello che però manca in queste storie è qualunque istanza palingenetica in grado di riscattarle e di fare della guerra stessa un’occasione per l’inaugurazione di inediti orizzonti di senso, legati magari proprio alla contestazione delle relazioni di potere. Invece, il silenzio che è precipitato sulle vite degli internati, lo stigma sociale che ha pesato sul destino dei dimessi, l’azione delle autorità militari volta ad evitare qualunque lettura che stabilisse un rapporto tra la guerra e la follia, l’oblio che ha interessato la categoria dei traumi di guerra fino alle discussioni successive al conflitto in Vietnam, hanno determinato la rimozione sociale della questione e, con essa, l’oblio per queste esistenze insignificanti. Alla luce di ciò la grande sfida che si pone ancora per gli storici riguarda la restituzione della visibilità a quei casi dimenticati a cui la “grande Storia” ha negato per decenni attenzione e riconoscimento. E per fare ciò bisogna superare le aporie, e le diffidenze, poste in essere dalla dialettica tra analisi locali ed ermeneutiche d’insieme. Solo così la storia sociale e culturale dello «shell shock» può incontrare proficuamente le vicende di quegli individui che concretamente hanno sofferto del disagio mentale provocato dalla Grande Guerra e la storia dal basso incrociare, contestualizzare e problematizzare le dinamiche più generali entro cui si iscrive il fenomeno.

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Note:

1) Cfr. B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918 (Bulzoni 2001), p. 72.
2) Cfr. S. Bellassai, L’invenzione della virilità. Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea… cit., p. 50.
3) Cfr. A. Sacerdote, Sulla valutazione medico-legale delle psicopatie dei militari, in Giornale di Medicina Militare, ottobre 1917, pp. 799-800.
4) Cfr. S. Montaldo, Cesare Lombroso, l’antropologia criminale e la Grande Guerra, in M. Scavino (a cura di), Torino nella Grande Guerra. Società, politica, cultura (L’Harmattan Italia, 2017), p. 92.
5) Cfr. art. 1 della legge n. 36 del 14 febbraio 1904.
6) Cfr. M. Moraglio, Prima e dopo la Grande Guerra. Per un’introduzione al dibattito psichiatrico nell’Italia del ’900… cit., p. 68.
7) La ricerca effettuata è confluita nel seguente volume: F. Milazzo, Una guerra di nervi. Soldati e medici nel manicomio di Racconigi 1909-1919 (Pacini, 2019).
8) Per una problematizzazione della categoria di controllo sociale, in particolare in relazione alla storia della follia, vedi: a V. Fiorino, Il “controllo sociale”: alcune riflessioni su una categoria sociologica e sul suo uso storiografico, in Storica, 13 (1999), pp. 125-157.
9) Cfr. I. Hacking, La natura della scienza. Riflessioni sul costruzionismo, trad. it. di S. Livi (Mc Graw Hill, 2000), pp. 93 e segg. Vedi anche I. Hacking, La riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della mente, trad. it. di R. Rini (Feltrinelli, 1996), p. 35.
10) Cfr. I. Hacking, I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas, trad. it. di A. Marino (Carocci, 2000), p. 67.
11) Archivio Provinciale di Cuneo [d’ora in avanti APCN], Dati statistici e funzionamento del Manicomio Provinciale. Relazione all’on. Deputazione e all’On. Consiglio Provinciale (1918-1919)., p. 137.
12) APCN, Dati statistici e funzionamento del Manicomio Provinciale. Relazione all’on. Deputazione e all’On. Consiglio Provinciale (1916-1917), p. 199.
13) Cfr. A. Scartabellati, Esistenze mutilate. La storia senza riscatto dei folli di guerra, Relazione originale presentata alla giornata di studio ANMIG sull’esperienza dei mutilati di guerra, Firenze, 04-05 giugno 2015. Per lo studio di caso cui si fa riferimento vedi: A. Scartabellati, Destini della follia in guerra. Cremona: il catalogo – raccapricciante – è questo, in A. Scartabellati, (a cura di), Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica, destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra… cit., pp. 153-219.
14) Cfr. E. J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale (Il Mulino, 1985), p. 249.
15) Ivi, p. 105.
16) Ivi, p. 107.
17) Ivi, p. 10.
18) Ivi, pp. 10-11.
19) Ibidem.
20) Ibidem.

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Immagine di copertina:
fotogramma tratto da un filmato girato dal professor Camillo Negro all’Ospedale militare di Torino (C.Negro/R.Omegna), collezioni del Museo nazionale del cinema di Torino.