Federica Pesenti, protagonista del recente romanzo di Massimo Carlotto, E verrà un altro inverno (Rizzoli, 2021), in un decisivo passaggio dell’intreccio medita con gratitudine sullo sconosciuto cuoco cuneese della corte dei Savoia che ha inventato i maron glacé. Il Duca allora regnante era Carlo Emanuele I (1562 – 1630), tuttavia la ricetta appare stampata solo molto tempo dopo nel Confetturiere Piemontese, probabilmente nel 1790 (ma la datazione è ancora oggetto di studio). Ovviamente, i francesi rifiutano l’attribuzione italiana e sostengono invece una genesi lionese, più o meno contemporanea. Quel che è certo, però, è che i marroni, i cosiddetti fioroni, i migliori prodotti dai castagneti piemontesi, lavorati nel modo lento e attento che richiede la ricetta, si concludono con una glassatura che richiede le ultime ventiquattr’ore del metodo manuale. È però la stessa Pesenti, in un altro cruciale passaggio, a insultare Manlio Giavazzi, guardia giurata e, a suo dire, esperto fabbricante di maron glacé, a proposito della scarsa qualità del Cognac (infatti quello utilizzato dal custode era un Brandy) e dello zucchero da lui impiegato. Peccato che le ricetta originale non contenesse alcun tipo di liquore, mentre la volgarizzazione qui presentata lo inserisce come elemento indispensabile. I lettori scopriranno quanto una così semplice annotazione di antropologia culinaria, di storia del gusto, sia cruciale per la definizione del personaggio.

Il romanzo si svolge nel principale centro abitato di una valle poco frequentata, se non dai residenti. Gli scambi con gli ambienti esterni alla comunità sono minimi. Occasionalmente compaiono nella storia figure non indigene, ma sono solo apparizioni fugaci e di sfondo, quasi a ricordarci che seppur esiste un mondo altro, questo non ha conseguenze sulla vita della comunità. In questo senso l’ambientazione che Carlotto costruisce è molto teatrale. Siamo su un palcoscenico e i personaggi recitano il loro ruolo, fedeli a ciò che ci si aspetta da loro. Gli interpreti entrano ed escono dalle quinte, e l’autore non aggiunge nulla a ciò che lo spettatore vede. La storia non lascia adito a dubbi: nessun giudizio, nessuna morale, nessun carattere. L’intera narrazione si apre e si chiude in una visione bidimensionale della coscienza, totalmente interna alla comunità, e quest’ultima nemmeno per un istante mette in dubbio la legittimità della gestione privatistica degli eventi, rivendicata non solo tramite le azioni dei singoli individui, ma anche in quanto soggetto collettivo, compatto ostacolo a un qualsiasi tipo di decostruzione analitica. La città permette la divisione, l’isolamento, l’individuazione delle singolarità, e divide verticalmente i soggetti, rivelandosi cruciale per la genesi dei rapporti di classe. La comunità della valle invece è un corpo unico, costruito sul rispetto dei ruoli, che in questo contesto orizzontale sono caste, immodificabili. Tra un livello sociale e l’altro non vi può essere comunicazione, non si può salire o scendere la scala sociale. Bruno Manera, che è uomo di città e marito della Pesenti, viene da lei introdotto nella comunità tramite il matrimonio, ma si accorge immediatamente di non essere stato accettato, se non pro forma. In più occasioni viene accusato di avere relazioni con esponenti mafiosi o di esserlo lui stesso, mentre nella realtà comprende subito di essere lui la vittima di un comportamento che nei fatti è mafioso e ricattatorio, messo in atto dalla comunità intera contro di lui. Il paese, la valle, la comunità, i fedeli, che vedono in questa loro capacità di aiutarsi l’un l’altro, di risolvere i problemi tra paesani, di allontanare ogni tipo di tensione che possa minare alla radice questo legame, in tutto ciò sono loro i mafiosi, anche se vivono al Nord, e le loro tradizioni sono quelle di un borgo veneto o lombardo.

Carlotto non risolve mai espressamente questa equazione, ma ogni volta che Manera viene accusato di complicità con la mafia, al lettore diviene evidente che sono i suoi accusatori a comportarsi come tali. Eppure, questo messaggio resta indicibile, non verrà mai esplicitamente formulato, è il convitato di pietra del romanzo, quasi che fosse un’opera di Sciascia. Nessuno dei personaggi coglie l’assonanza. Anzi, alcuni di coloro che all’inizio della storia potevano apparire migliori, estranei alle vicende, non tarderanno a rivelarsi come i maggiori difensori della tradizione, che è mafiosa non perché male applicata, ma lo è in sé e per sé, perché la corruzione, la minaccia, il sotterfugio sono gli strumenti con cui la tradizione difende la sua anima, e lo fa lasciando apparire sé stessa come l’unica soluzione possibile per il bene di tutti, della comunità. La rappresentazione che Carlotto propone della vita in un paese della provincia italiana è spietata. Non esistono delinquenti in questo mondo perfetto, al contrario, l’unico marchiato come vero bandito – un malvivente di mezza tacca, Fausto Righetti detto Il riga – è anche il solo ad avere tutto da perdere e nulla da guadagnare in questa vicenda con cui si rimesta nel torbido delle storie di paese. Nulla smuove la palude psicosociale qui rappresentata, e d’altronde il medico condotto del paese, complice nell’emettere false cartelle e certificazioni di comodo, non ha nessuna esitazione nel fornire barbiturici, ansiolitici, antidepressivi e quant’altro serva a sopire coscienze che, a volte, hanno il difetto di mostrare uno spiraglio di umanità.

Come in ogni paese che si rispetti vi sono le famiglie che comandano. Carlotto le chiama i maggiorenti, e si comportano come dei capi mandamento. Si muovono le pedine, si organizzano gli incontri, si indicano a chi di dovere quali sono le linee da seguire e gli ordini da dare, e nessuno si azzarda a disobbedire, perché significherebbe essere escluso dalla comunità, e di conseguenza doversene andare, perché “nessuno ti venderebbe più nulla”, perché equivarrebbe alla morte. Gli unici che possono prendere in considerazione di andarsene sono proprio i maggiorenti, ma così facendo dovrebbero accettare di perdere la loro posizione, di diventare uno tra i tanti, non più il dominus assoluto del territorio, ma uno degli elementi di una lotta quotidiana per garantirsi il riconoscimento sociale.

Il titolo ci aiuta a comprendere questa specie di neo-feudalesimo che Carlotto descrive. Difatti, lascia intendere che prenda origine da un detto popolare, un motto contadino, e quindi farebbe ancora una volta riferimento alla tradizione. Un detto analogo al titolo, winter is coming, è quello della famiglia Stark, protagonista di A Game of Thrones, e nulla più della saga di George R. Martin evidenzia quanto la relazione familiare e patriarcale possa essere devastante e crudele, quanto la famiglia nobiliare sia spietata e dittatoriale. Il padre di Federica Pesenti è, agli occhi di tutti, un benefattore della valle, un uomo ragionevole e prodigo verso la comunità. Così viene indotto a pensare il lettore, che lo vede come tutto sommato generoso e comprensivo verso una figlia scapestrata che gli ha procurato solo guai. Non emerge mai ciò che di fatto è: uno spietato capo mafia, un uomo che controlla la valle come fosse abitata da burattini ai suoi ordini, un nobile feudatario con diritto di vita e morte sui suoi servi.

Non c’è nulla di buono nella borghesia conservatrice di cui Carlotto, sulla scia di Ibsen e Strindberg, mette in scena peccati e penitenze. Nulla è rimasto della forza rivoluzionaria della classe che ha ghigliottinato la nobiltà, imponendo manu militari la sua tradizione. L’ipocrisia perbenista in cui è destinata a vivere immobilizza l’anima di Federica Pesenti, che pur avendo lo sguardo visionario necessario a costruirsi una autonomia decisionale, è incapace di soffrire e lottare per ottenerla. Alla fine, non va oltre alcuni momenti da prima donna, infantili tentativi di rivolta che non vedono effetti in nessuno dei suoi ruoli: né come donna, né come figlia, né come imprenditrice. Psichicamente devastata, la borghesia non osa avere la crudeltà dei suoi nobili avi, e nemmeno è in grado di schierarsi con i servi, da cui non ottiene più nemmeno il rispetto di un tempo. Non è un caso che nessuno sappia più preparare i maron glacés.

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Immagine di copertina:
Pieter Bruegel il Vecchio, Cacciatori nella neve, (particolare), olio su tavola, 1565, Kunsthistorisches Museum, Vienna.