[Pubblichiamo una recensione della raccolta di saggi di AA.VV., Disagiotopia, a cura di F. Andreola, D Editore]

Da circa quattro decenni la struttura sociale e antropologica dell’Occidente presenta connotazioni ben differenti da quelle riscontrabili negli anni ’70: si tratta di nuove caratteristiche rivolte all’atomizzazione dei rapporti sociali e al distanziamento psichico e collettivo della popolazione. Nonostante gli effetti siano alla luce del sole, resta ancora vaga la risposta alternativa, biopolitica, al nuovo paradigma vigente e all’effetto principale indotto, ovvero un malessere diffuso globalizzante. Uno degli aspetti principali dell’era del tardo capitalismo è aver avvelenato le persone con una forma di sofferenza nuova, poco riconducibile alle classiche distinzioni prodotte dell’economia fordista, sofferenza abile nel disseminare al di là delle distinzioni di classe una inquietudine dai risvolti devastanti. Disagiotopia, conseguentemente, è il luogo fisico e psichico in cui viviamo.

Mentre, storicamente, il proletariato si trovava a combattere un nemico ben preciso, oggi con la società liquida qualsiasi minaccia, seppur reale, non riesce a indirizzare propriamente le sue energie emancipative spesso per mancanza di autocoscienza. Alla disperazione dello sfruttamento subita da una precisa fetta della popolazione, si è inoltre affiancata una comunità più larga, addirittura spesso benestante, ma incapace di difendersi dalla finanziarizzazione selvaggia e dai suoi effetti. Una classe che forse non conosce la disperazione, ma ha scoperto la quasi disperazione; non la malattia, ma la quasi-malattia; non il fallire, bensì l’eventualità del fallire. La famosa domanda “Che fare?” necessita quindi ancora di attenzione e condivisione.

A proporre un contributo concreto per la comprensione dei nostri tristi tempi attuali e a come porvi rimedio sono filosofi, scrittori, storici, architetti e urbanisti che in queste pagine provano a tracciare la mappa che ci conduca fuori dal labirinto del Capitalismo selvaggio.

Di cosa si parla? Innanzitutto, va compreso lucidamente lo status delle cose. Denunciare l’aberrante dispositivo di controllo, secondi gli studiosi, è il primo passo per l’emancipazione. Dal Panopticon di Bentham, la prigione “aperta” per osservare sempre gli individui e abusare dunque della loro psiche, si è passati a un grande fratello digitale con lo stesso compito coercitivo, ma svolto in maniera più astuta. Un cannibalismo delle anime che prende le forme della tecnocrazia estrema e della solitudine sociale. La connotazione dei tempi moderni, decisamente orwelliani, la svolta subdola nata in risposta alle istanze di cambiamento proposte dalle classi lavoratrici, non è gettare nella disperazione, ma nel disagio. È la prospettiva di una possibile perdita del lavoro, di una eventuale sconfitta a rendere le persone abbastanza precarie psicologicamente e spaventate da poterle gestire e rompere le barricate. Una certezza di annientamento, infatti, le renderebbe in qualche modo “affrancate”: rassegnate e senza nulla da perdere, quindi possibilmente rivoluzionarie. No, la società del tardo capitalismo attuale preferisce il ricatto continuo che provoca innanzitutto precarietà lavorativa, stati di ansia e depressione, gentifrication, crollo del potere d’acquisto. Gli autori di questi saggi affrontano da molteplici prospettive la crisi da loro indicata e che ormai ci abita, indifferentemente dalla nostra solidità psicologica o economica. È chiaro, infatti, che nessuno è al sicuro in un mondo dove ogni giorno vige una pandemia dello sfruttamento e della insicurezza sociale. L’asfitticità della nostra condizione è palese proprio nelle nuove generazioni, gettate in un continuo contesto confusionale, di continua emergenza. L’alcolismo del sabato sera, rito cosmico di tutti i paesi occidentalizzati, sta a indicare una società in cui ansia e depressione non vengono risolti, ma semplicemente aggirati con forme di palliativi chimici. Da qui anche l’opposto performativo: orari di lavoro massacranti, polveri varie per reggersi in piedi ed essere sempre iper-reattivi, così da combattere l’eventuale “nemico” pronto a scalzarti – in realtà un padre o una madre di famiglia con le stesse esigenze di chi si sente minacciato.

Spesso nella ricostruzione storica di questa trasformazione vengono citati vari fattori ma se ne dimentica sempre uno fondamentale, sottolineato invece nel primo saggio: la cessazione nel 1971 degli accordi di Bretton Woods, che resero la fluttuazione dei cambi libera, aprendo la strada per lo sviluppo della finanza selvaggia. È proprio da quel momento che nasce la scalata del capitale alla finanziarizzazione totale, alle politiche neoliberali i cui interpreti più odiosi sono stati G. Bush, M. Thatcher e i loro programmi di smantellamento del welfare. Sono gli anni in cui la nascita del credito come “stile di vita” diventa la trappola bancaria della classe media e di quella lavoratrice, perché l’illusione della crescita infinita produrrà soltanto una nuova forma di schiavismo legato alla carta di debito:

«Quando la crescita si ferma il credito viene meno, i risparmi finiscono e le tutele sociali diventano insostenibili, lo stato delle cose si mostra in tutta la sua evidenza: in una prospettiva di media durata il neoliberalismo planetario peggiora le condizioni di vita delle classi popolari e medie in Occidente, le impoverisce, riduce i diritti social-democratici e cristiano-sociali che i lavoratori avevano conquistato» (G. Mazzoni, p. 29).

Questi, i fatti. Le conseguenze, lapalissiane. Il riformismo, da vessillo socialista, si è trasformato nello strumento delle classi conservatrici per opprimere i lavoratori e smantellarne i diritti, creando la condizione principe per il disagio. La precarietà diffusa ha reso ognuno diffidente dell’altro, italiano ma soprattutto straniero, perché perenne minaccia. L’evaporazione del lavoro ha indicato la via alla tensione sociale delle nostre comunità, in cui la solidarietà ha perso di significato e si è trasformata in istinto del branco. Là dove non vige l’egoismo personale, un “atomismo delle coscienze”, si erge tronfio un cameratismo fascistoide: noi contro di loro, dove “loro” sono quasi sempre gli extracomunitari, i deboli, ma anche donne, omosessuali, giovani. La catena produttiva, fondata sull’efficientamento e la competitività perenne, ha creato le condizioni psicologiche per confermare il vecchio detto di Hobbes per cui homo omini lupus. Ogni malessere, tuttavia, non sarebbe tale se non trasformasse anche il tessuto sociale e urbanistico dove viviamo. Anche nei saggi a proposito gli autori colgono aspetti spesso sottovalutati riguardo la costituzione urbanistica delle nostre città, create ormai secondo due schemi: una disneyland per i ricchi e i turisti (il centro); una marea di case in preda alla sporcizia e al degrado (le periferie).

«Sempre più, le città e le regioni di maggior successo negli Stati Uniti e nel mondo saranno abitate da un nucleo di lavoratori in salute e altamente flessibili che conducono vite molto privilegiate, approvvigionati da un sottoproletariato dei servizi che vive molto più lontano» (L. Lees, p. 108).

Gli spazi sociali e quelli domestici sono sempre più ridotti a trappole mortali, dove si commettono anche i maggiori crimini di natura psicologica e sentimentale. Non è casuale che i femminicidi, per esempio, siano compiuti principalmente da partner bianchi e mariti, e non da stranieri extracomunitari, e non è casuale che la televisione e l’informazione capovolgano perfettamente tale rapporto statistico. “Orrore familiare”, cioè intimità con la radice oppressiva di una politica fortemente patriarcale, dove “la casa” diventa una gabbia, e non un avamposto per l’emancipazione personale e collettiva.

Questa raccolta di saggi ha un grande merito che va oltre il contenuto stesso delle riflessioni collezionate. La società contemporanea, coinvolta in una crisi emotiva, psicologica e sociale intensa e allarmante, è tale per la sua intrinseca struttura economica. La risposta all’ansietà non va cercata in ipotetiche età dell’Oro o in forme sociali preindustriali – non bisogna cedere alla tentazione di rifugiarsi in cause metastoriche di vago sapore reazionario – ma in un nuovo patto generazionale che consenta il superamento dello stallo attuale attraverso una diversa idea di futuro. Solamente da questo presupposto potremo consegnare ai giovani un mondo ecologicamente sostenibile e offrir loro un percorso educativo che consenta la salute senza continue medicalizzazioni o psicofarmaci. Nell’ultimo saggio Galimberti affronta un tema a lui caro, “i giovani e il nichilismo”. Ebbene, se non riusciamo a sradicare le cause del disagio ma ci accontenteremo solo di coprirne o aggirarne i sintomi, poco ci sarà da raccogliere domani. Comprendere le ragioni che hanno trasformato il mondo in questo campo di battaglia ansiogeno è la prima forma di resistenza necessaria per ritrovare la pace, e il presente lavoro è un ottimo strumento per comprendere senza pregiudizi quale sia la situazione attuale e dove agire concretamente.