Quando qualcuno gli diceva: «Posso chiamarla maestro?», lui rispondeva categoricamente: «No!», ma alla fine si è dovuto arrendere all’evidenza. Franco Battiato (1945/2021), maestro lo fu e per molti, anche di chi – purtroppo – non se n’è nemmeno accorto o non lo ha ammesso. Grande musicista e arrangiatore, filosofo della musica, il suo stile è sfuggito e sfugge ancora a ogni etichetta. Spaziando dal pop alla classica, fino al rock progressive e all’elettronica, il cantautore siciliano è riuscito nell’arco di una lunga e luminosa carriera a diventare un personaggio unico nel panorama italiano.

Battiato è e resterà sempre un “Avventuriero dello Spirito”, e non lascerà epigoni perché la sua arte appartiene a un mondo unico e particolarissimo, quasi un territorio mitologico dove inoltrarsi e scovare perle preziose. Ripercorrere le tappe più importanti della sua produzione musicale richiederebbe un libro intero, e in fondo non servirebbe a molto, perché tutti conoscono degli album che hanno fatto la storia della musica italiana, rimanendo in classifica per mesi: da La voce del padrone a Gommalacca, passando per L’imboscata e Fisiognomica, non c’è oggi nessuno degli anni ’70/’80 che non abbia una sua canzone nel cuore, e la leghi a un preciso attimo della propria vita. Battiato, tuttavia, appartiene a ogni generazione, e il successo e l’interesse che suscitava tra i giovani ne sono una testimonianza, visto che persino in piena maturità riuscì a scrivere dei brani cantati addirittura dai liceali nelle scuole (si pensi a La Cura). Da Milva, ad Alice, da Juri Camisasca a Carmen Consoli o Giuni Russo, l’elenco di collaborazioni è infinito, così come la volontà di rinnovarsi e riscrivere sempre qualcosa di nuovo. Negli anni Novanta, quando decise di affidare la stesura dei testi al filosofo Manlio Sgalambro, ci fu una nuova svolta incredibile, persino nelle sonorità, che prese forma nell’album L’ombrello e la macchina da cucire. Inutile dirlo, altro successo di critica e di pubblico. Questa collaborazione andò avanti fino alla morte del filosofo de La morte del sole. Sgalambro, allora conosciuto nella ristrettissima cerchia dei cultori di filosofia, si ritrovò improvvisamente sotto la luce dei riflettori, offrendo alla gente comune la possibilità di sapere che la filosofia italiana non è solo Croce o Gentile – rispettabilissimi – ma anche intelligenze e sensibilità diverse, di incredibile spessore e iperboliche prospettive.

Fu un altro merito di Battiato, indubbiamente, allo stesso modo per cui grazie alle energie che infondeva nelle sue ricerche il pubblico italiano ha potuto scoprire intellettuali e musicisti mai citati o approfonditi nella generalissima main culture del nostro paese. Quest’onda conoscitiva inarrestabile si è estesa a tutti i campi del sapere, offrendo frutti insperati. Battiato ha intervistato maestri buddhisti, monaci tibetani, fisici quantistici. Ha incontrato Raimon Panikkar, ha partecipato al programma televisivo Bitte, keine Réclame, da lui ideato, con la partecipazione di Sgalambro e Sonia Bergamasco; ha lasciato una notevolissima produzione pittorica: decise, come era nel suo carattere, che doveva imparare a dipingere correttamente, con stile. Ebbene, si impegnò a fondo e alla fine iniziò a padroneggiare anche le tecniche più difficili. Oggi i suoi ritratti di sufi, animali o amici hanno un grande valore.

Voglio ricordare ciò che è meno noto, ma forse addirittura più importante, perché nato dall’esigenza intima di raccontarsi attraverso nuove forme. Il Battiato regista ha lasciato tre film: Perdutoamor (2003), Musikanten (2005), Niente è come sembra (2007) – e parecchi documentari. Tra questi uno dei più intensi è Attraversando il bardo, del 2014, dove affronta uno dei temi a lui più cari, sicuramente preponderante in tutta la sua produzione. La morte, la reincarnazione e le religioni orientali.

Se si tentasse di rintracciare un filo conduttore nella sterminata produzione artistica del cantautore ionico, forse proprio l’idea della rinascita meriterebbe un’attenzione particolare. Tutta la sua musica infatti è stato il tentativo – riuscito – di risorgere dalle proprie ceneri. Come un’araba fenice, ogni album fu ed è una costante ricreazione sonora e testuale. Parimenti per i quadri, i documentari, le opere sinfoniche (indimenticabili Gilgamesh, Messa arcaica, Telesio, ecc.), il gesto creativo di Battiato è caratterizzato dalla volontà di superarsi ed esplorare l’Oltre: un viaggio infinito che accompagna chiunque sappia ascoltarlo con la mente e con il cuore.

La sua religiosità è nota, e mi si consenta, esemplare. Pochi artisti hanno coltivato una spiritualità così sincera, totalmente scevra da dogmatismi e chiusure. Una pratica di vita da spiegare a tanti prelati dai volti corrucciati, coperti d’oro e porpora, magari capaci di citare l’Ecclesiaste a memoria ma inabili a commuoversi – a Battiato succedeva spesso – davanti a un fiore.

Nella casa di Milo, dove ha trascorso gli ultimi anni della vita, prima che una odiosa malattia lo appannasse e lo isolasse dal mondo, passava le giornate svegliandosi prestissimo, meditando e dipingendo. Spesso amava sottolineare di avere tutto il mondo là fuori, in un paesaggio, un colore, un canto della natura. Chi pensa sia stato un uomo fondamentalmente distaccato dalle umane cose sbaglia: certamente ebbe l’animo del mistico, ma non dimenticò mai l’amore per la sua regione e per l’Italia, tanto da scrivere profeticamente uno dei brani più belli del repertorio della musica italiana: Povera Patria. Battiato tentò anche, a titolo gratuito, di aiutare la Sicilia in qualità di assessore ai tempi del presidente Crocetta, ma si ritirò presto, consapevole che non c’è alcun merito nel tentare di insegnare l’algebra a un mulo. Potrei continuare a tracciare aneddoti, dati biografici e preziosi fatti inediti, ma ciò non aiuterebbe comunque a spiegare cosa Battiato abbia rappresentato per una intera generazione e per i suoi fan più accaniti, tra cui il sottoscritto. Egli è stato un intellettuale dall’anima rinascimentale: esploratore di ogni campo dello scibile, lontano da ogni tipo di specializzazione culturale destinata a trasformarsi in manierismo o artificio retorico, ha trasmesso prima di tutto un sentimento d’amore. Chi vorrà ascoltare L’ombra della luce, E ti vengo a cercare, o rivedere il bellissimo e struggente Concerto a Baghdad del 1992, sentirà presto che quel desiderio di pace, di verità, di amore intriso nei brani non sono soltanto il risultato ben studiato di un lavoro d’ufficio, ma l’impulso sincero, persino commosso e sgomento davanti all’immensità della vita, che veramente lo accompagnava. E che coinvolgeva gli spettatori, attoniti.

Battiato a volte sarà potuto sembrare bizzarro, quasi stravagante quando parlava di oriente e monaci o delle masse ormai simili ad «aminoacidi» sulle spiagge, ma questo è il prezzo di chi decide di essere estremamente onesto con sé stesso e il suo pubblico, senza tentare di piacere a tutti – e ciò non è poco soprattutto in un mondo dove “il prodotto artistico” è ormai venduto alla stregua di uno stracchino o un paio di jeans. No, Battiato fu profondamente legato alla gente, perché innamorato dell’esistenza e di tutte le sue sfumature, sensibilità che lo portò presto a essere vegetariano, perché vedeva negli animali creature viventi degne di rispetto.

Affrancarsi dalla notizia della sua scomparsa è difficilissimo; arduo è discernere i ricordi privati da una canzone senza trascinarsi dietro un volto o una storia collettiva del nostro paese… Mi si perdoni dunque la divagazione personale. Da ragazzo, come tutti gli adolescenti, tanti problemi opprimevano le mie giornate malandate. Fu il mio compagno di banco Enrico a darmi, allora diciassettenni, la prima audiocassetta: Giubbe rosse. Da quel momento nulla fu come prima. Quando le forze venivano a mancare, le canzoni del cantautore siciliano sono riuscite a farmi immergere in quell’oceano di silenzio dove trovare la calma e la serenità per affrontare antiche sfide e provare a «emanciparmi dall’incubo delle passioni, cercare l’uno al di sopra del bene e del male». Perché questa divenne la mia missione, e lo è tuttora. Anche negli anni dell’università le cose non cambiarono. Come me, tantissimi giovani passavano il tempo con cuffie e mangianastri, a sfogliare i libretti inclusi nelle musicassette dell’epoca. Eravamo tutti ammaliati dal cinghiale bianco, da Paloma, dai derviches tourneurs. Amavo parlare dei suoi testi con una cara amica, un’anima gentile. Lei non riuscì a trovare «l’alba dentro all’imbrunire», e si tolse la vita giovanissima. È ancora travolgente quel ricordo, come lo sgomento che schiacciò me e tanti compagni in comune.

Ma fu ancora la musica a curarci.

Ho sempre considerato Battiato un uomo onesto, un monito a non avere paura durante il percorso accidentato della vita. Mi ha insegnato ad avere coraggio, e non finirò mai di ringraziarlo. Nei momenti in cui ho bisogno di ritrovare me stesso, anche ora che i capelli ingrigiscono e ho imparato l’indulgenza personale, amo ancora cercare un vecchio disco “di Franco” nella mia collezione, ritirarmi in silenzio in una stanza buia, e farmi guidare dalla quiete oltre il suono. Un’energia sottile riempie l’ambiente, ricompone il disordine e dona pace. Battiato è stato questo per me. C’è un brano in particolare, che mi accompagna sempre:

«[…] Vivere venti o quarant’anni in più
È uguale
Difficile è capire ciò che è giusto
E che l’Eterno non ha avuto inizio
Perché la nostra mente è temporale
E il corpo vive giustamente
Solo questa vita […]» (F. Battiato, Fisiognomica, 1988)

Dentro al buio più fitto, «l’immagine divina di questa realtà», una fiaccola che ha saputo illuminare e dare speranza perché in fondo sono vere le sue parole così gentili e intime: «Cosa avrei visto del mondo/ Senza questa luce/ che illumina i miei pensieri neri». Anche se spesso associato a grandi dolori, vince nella sua musica il ricordo della speranza, e quanto accompagna inevitabilmente ciò che ci ferisce: la gioia. Perché si soffre soltanto là dove si è amato.

Oltre al dissolvimento dovuto alla malattia, testimoniato negli ultimi anni della sua vita con la perdita della memoria, rimarrà ancora l’incanto di osservare gli universi in espansione, le meccaniche celesti, i codici di geometria esistenziale. Ecco cosa resterà «del transito terrestre».

Nella tristezza che ovviamente accompagna la terribile notizia della sua scomparsa, quanto ha lasciato continua a consolarci e a farci sentire meno soli. In fondo, come scrisse nell’ultima canzone-testamento, «torneremo ancora», e di nuovo avremo modo di guardare la vita con quella meraviglia che accompagnava i suoi occhi e le sue canzoni.

Buon viaggio… Maestro.

———
Immagine di copertina:
un ritratto di Franco Battiato nella casa di Milo (© Luciano Viti / Getty Images)