In principio non vi fu solo il Logos-parola, ma il Suono. Il verbum, prima di tutto, conserva questa traccia mnestica sovente dimenticata. Così ammonisce Heidegger:

«L’udire autentico appartiene al logos. Perciò questo udire stesso è un leghein. In quanto tale, l’udire autentico dei mortali è in un certo senso lo stesso logos» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, 2007, p. 148).

Un crepitio acuto, ancestrale, vincolante – un leghein appunto – che si ripresenta al pianto del bambino appena dopo il parto, genesi dopo la Genesi, lacrima successiva al Diluvio, e nella chiarissima manifestazione di un fato prepotente e impalpabile. Anche l’Apocalisse tuttavia è suono, stridio di ossa, rombo di cielo in fiamme. Nascita e Consunzione sono segnate dal Frastuono che si contende la nostra esistenza. La vita appare una fluttuazione dunque, un buio dondolio segnato dal rumore ma paradossalmente spedito fra le braccia del silenzio. Perché, amleticamente parlando il resto lo è. Ogni esistenza giace nella ambiguità di essere il prodotto di un suono destinato al Nulla. Tutto si accompagna a un grido, ma alla fine non ne avanza che una flebile eco, fino alla consunzione definitiva. Il Thaumazein dei greci è sì stupore e meraviglia, ma anche orrore. Non è un caso che la musica fosse in Platone, nei Pitagorici e nei riti iniziatici una delle chiavi auree per aprire le porte della sapienza. La verità è fluttuazione davanti all’abisso.

Il romanzo di Lorenzo Chiuchiù è il racconto di questa consapevolezza e di colui che la visse, il grande musicista dimenticato Aleksandr Nikolaevic Skrjabin. Progetto affascinante e perfettamente compiuto, Esecuzione dell’ultimo giorno (Aguaplano, 2020) rivela l’ossessione visionaria dell’artista russo, teosofo, morto in circostanze particolari (di setticemia) poco prima di scrivere Mysterium, composizione che negli intenti dell’autore doveva congelare definitivamente il suono, lo spazio e il tempo, e rompere i Sette Sigilli, straripando. Come dice il protagonista del libro, Viktor Semënov (nome della piazza in cui Dostoevskij fu condannato al patibolo e poi graziato) «il mondo è il coito di una commedia nera» (p. 35). Chiuchiù traduce in stile il terribile giudizio, trasformando la scrittura in una magmatica e vulcanica costellazione di immagini buie, decadenti, ma altrettanto irrorate di pulsione vitale. La scrittura apofantica graffia le pareti di quell’anima allucinata e vibrante, ma inevitabilmente si inoltra dentro ognuno di noi, perché dove c’è una esecuzione – sinfonica o capitale – vi è sì un direttore ma anche una platea, ovvero tutta l’umanità in ascolto. Il compositore protagonista del libro progetta la propria autodistruzione quale prolegomeno alla esecuzione orchestrale, facendola coincidere con la redenzione del mondo dal mondo. Con il racconto dell’estinzione, tuttavia, procede anche la rivale esistenziale: la vita, incapace a scindersi dalla morte. Come per ogni orchestra, e per la parola gettata su carta, parimenti il suono è tale se accompagnato da assenza di spazi auditivi, da pause che cadenzano, ritmano e segnano apparendo in quanto negazione, intermezzo, squarcio nella trama. Una fenomenologia del Suono, un eterno dualismo senza sintesi finale, privo di salvezza, ma con l‘infinita disposizione a tradurre il vivente in simbolo. Nella battaglia per diventare il proprio destino è l’udito a prevalere, e ciò è evidente in tutto il testo del poeta e nelle intenzioni del protagonista, perché la parola ultima è innanzitutto nell’Ascolto. «Seppi che ogni morte ha un suono, e solo quello. Seppi che ogni morte è una combinazione univoca di oscillazioni armoniche» (p. 9). La prosa chiaroscurale rimanda sempre, costantemente, a un’immagine sonora e alla sua cornice, a un ritmo spiraliforme e a una dissolvenza: «istantanee allucinate che scompaiono – intatte, identiche e mute – in dimensioni invisibili» (p. 35). Tali mondi paralleli, o semplicemente occultati, sono il destino che ogni artista è condannato a indagare. È qui infatti che si cela la verità, ma questa è inevitabilmente angoscia. «Vero è solo ciò che costringe all’angoscia» (p. 38), e angosciante, a tratti estraniante, è la descrizione della consunzione di Viktor Semënov. Fisica, intellettuale, ma soprattutto affettiva.

Il suono, il silenzio, l’ascolto: una gloriosa trinità del tragico, accompagnata da segni e gesti necessari perché inutili. Gli amplessi, i digiuni, il sangue che sgorga dalle ferite sono solamente l’anticipazione dell’orgia metafisica che produrrà la sinfonia, azzerando il creato, riproducendo una volta per tutte l’origine. Semënov, cioè, Skrjabin, abbinò alla tastiera del suo pianoforte un colore, convinto che tutto avesse un legame. Persuaso che il mondo sarebbe stato distrutto dal calore, scrisse la n. 72, Verso la fiamma, opera dove il suo animo mistico indica chiaramente il destino del proprio lavoro, incendiario, silente e trasformatore, in grado di disintegrare la tonalità e le armonie dell’universo, e di mostrare il Vero. Tale testamento artistico-morale è pienamente assimilato dalla scrittura di Chiuchiù, il quale, da ottimo poeta, fa vibrare le parole rendendole apocalittiche e aurorali, aeree e telluriche, dannate e benedette. Siamo infatti davanti a una prosa consapevole, matura e a tratti iniziatica, dove gli elementi primordiali del cosmo diventano signum, proprio come La croce e il nulla di S. Quinzio, testo che lo ha ispirato ad esplorare la vita del musicista russo.

Lo sviluppo della partitura è metafora della vita e della conclusione che l’attende. Chiuchiù incendia le sue pagine e consegna al lettore una biografia tragica e un silenzio oltre la partitura. Per quanto riguarda Semënov invece, è lui stesso a raccontare il destino che lo attende: «Un ago ghiacciato dritto nel cervello, un decreto assoluto, una mantica vertiginosa che divora i neuroni e disegna labirinti di sangue nel cranio» (p. 7).

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Immagine di copertina:
Wassily Kandinsky, Impression III (Konzert), 1911 (particolare) – Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau München, Gabriele Münter Stiftung 1957