[La registrazione della presentazione del romanzo si trova archiviata nel canale Youtube del gruppo Bateson Deleuze Foucault].

Il romanzo di Maddalena Fingerle, Lingua madre (edito dalla triestina Italo Svevo), vincitore della XXXIII edizione del Premio Calvino, è un esordio narrativo di particolare rilevanza nel panorama letterario italiano odierno, per diverse ragioni che si tenterà di esporre in questo articolo.

Si tratta innanzitutto di un recupero del romanzo psicologico di stampo novecentesco e in particolare mitteleuropeo, che attraverso il monologo interiore propone la prospettiva deformante del protagonista. La vicenda è narrata in ordine cronologico; si suddivide in tre grandi sezioni di tonalità narrative diverse, delle quali la prima è più vicina al romanzo di formazione, più leggera la seconda, per terminare con una sezione conclusiva in cui si assiste a uno sviluppo inatteso.

Nella sezione iniziale il lettore viene calato nel mondo di un preadolescente che osserva gli adulti e coglie tutte le contraddizioni del contesto socio-economico in cui vive, la buona borghesia della città di Bolzano. Con un atteggiamento tipico della prima adolescenza manifesta ribrezzo per le dinamiche famigliari, in particolare verso la sorella maggiore. Si tratta di una visione ingenua: Paolo Prescher, il protagonista, racconta il suo ambiente, la scuola, i suoi successi e insuccessi, con uno sguardo che lo avvicina a molti personaggi tipicamente preadolescenziali. La sua voce ricorda quella di Pin ne Il sentiero di nidi di ragno di Italo Calvino, e l’atmosfera è quella del romanzo di formazione. Nella seconda sezione troviamo un Paolo cresciuto, ha terminato brillantemente il liceo nonostante la sua famiglia, in particolare la madre che colta attraverso il suo punto di vista appare svalutante. Il padre è affetto da afasia, e scompare dalla narrazione nel modo più drammatico possibile. Dopo la morte del padre e la fine della scuola, Paolo si trasferisce a Berlino, lontano da un lessico famigliare che considera deleterio, dove si costruisce una nuova vita facendosi assumere in una biblioteca pubblica. Conosce diverse persone, stringe amicizia con altri italiani, fra cui c’è la studentessa che diverrà la sua compagna. Dopo un periodo di convivenza, i due scoprono di aspettare un bambino, e in seguito a questa novità decidono di rientrare a Bolzano per chiedere aiuto alla famiglia di Paolo. Tuttavia, questo reintegro improvviso e straniante nel contesto famigliare sarà la causa del crollo nervoso del protagonista, che perderà definitivamente la ragione non avendo avuto il tempo, durante la sua permanenza in Germania, di elaborare il lutto del padre e di metabolizzare la sua infanzia e il trauma del linguaggio materno, che ha lasciato una traccia indelebile nella sua educazione.

Nel racconto irrompono elementi del quotidiano che svelano i numerosi autoinganni della voce narrante. Il suo punto di vista esclusivo fa di lui un narratore inattendibile, cosa di cui però il lettore si accorge solo con l’emergere di dati di realtà la cui interpretazione appare gradualmente distorta. Se inizialmente il lettore tende a prestare fiducia al racconto del suo stato d’animo davanti alla pochezza del linguaggio che lo circonda, e a simpatizzare con i temi che emergono nella narrazione – innanzitutto quello storico – in breve si comprende che la psiche di Paolo è compromessa, e il suo sguardo esclude possibilità di interpretazioni del mondo più concilianti. In questo quadro, la compagna Mira assume la funzione di mediatrice fra il mondo e la difficoltà di Paolo di comprenderne i meccanismi. L’unico strumento a disposizione del protagonista è la letteratura, che gli viene in aiuto nei momenti di crisi e che diventa un filtro per esprimere le sue emozioni. Paolo riesce a leggere gli eventi più importanti della propria vita solo attraverso il riferimento letterario, e stabilisce un rapporto con il mondo esclusivamente in base alla purezza linguistica di chi gli sta attorno. Se inizialmente il protagonista non si riconosceva in una lingua – l’italiano parlato a Bolzano – che non sentiva come sua, ma come lingua del conflitto, e così si rifiutava di parlarla, allontanandosi dalla sua città natale scopre una lingua materna diversa, genuinamente italiana, dentro cui riesce a rifondare la propria identità.

Attraverso il filtro del personaggio, l’autrice caratterizza una madre oppressiva che sporca le parole usandole male, a sproposito, connotandole negativamente attraverso un’associazione fra la parola e l’emozione negativa che essa suscita. Le “parole sporche” nel romanzo sono il linguaggio materno: la lingua madre è dunque una lingua irrimediabilmente macchiata dall’uso osceno che, secondo Paolo, ne fanno la madre e la sorella, ed è solo purificandola da quella sporcizia che il personaggio riesce a trovare il coraggio di parlarla di nuovo. Nel finale il protagonista si lava in maniera ossessiva, poiché ciò che ha metaforicamente sporcato il linguaggio ha intaccato anche il corpo, lavando il quale spera di liberarsi del disgusto che il lessico famigliare gli causa. È a ben vedere un rovesciamento del capolavoro di Natalia Ginzburg, in cui il linguaggio della famiglia ha il potere di evocare rapporti famigliari calorosi seppur complessi, una unità famigliare distrutta dalla violenza fascista. Nel delirio psicotico di Paolo Prescher, invece, il lascito drammatico dell’italianizzazione forzata dell’Alto Adige da parte del regime consiste in una lingua orrenda, inutilizzabile, ipocrita, senza radici, violenta. Il suo rapporto con il lascito fascista è tuttavia ambivalente: se odia la lingua, è invece un estimatore dell’architettura razionalista del regime. Nel romanzo di Maddalena Fingerle si trova una riflessione profonda sulla tematica dell’identità: come si costruisce, in cosa consiste? Cosa possono davvero cogliere lo sguardo infantile e quello adulto delle storture del reale, se non una personale interpretazione degli eventi, delle parole che si usano per descriverli, del contesto in cui ognuno di noi è calato?

Nel romanzo emerge un’analisi del rapporto con il femminile operata attraverso la costruzione del personaggio della sorella. Paolo non accetta i canoni di bellezza condivisi, ma ne costruisce uno personale influenzato dalla lingua, che può essere sporca oppure pulita, macchiata, ambigua, oppure immacolata, cristallina. Questo dualismo rende evidente l’incapacità del protagonista di trovare una mediazione fra l’ideale e la realtà. A Berlino si accorge che quando le persone parlano, non trova le associazioni mentali che lo ossessionano quando interagisce con la sua famiglia, perché le parole sono nuove e quindi pulite, cioè prive dell’esperienza che lui vuole dimenticare. Lo stesso vale per il corpo di Mira, che privo di associazioni, astratto e determinato dal suo parlare pulito, appare come meraviglioso, fiabesco.

Nel romanzo di Fingerle si trovano molteplici livelli di lettura. Senza dubbio il livello psicoanalitico è quello più affascinante, ma ve ne sono altri legati agli interessi letterari dell’autrice, che si rivolgono in special modo alla letteratura barocca italiana. Sono diverse le citazioni da Marino e da Tasso, che servono alla creazione di un personaggio inconsapevole, immerso in una dimensione irreale, fantastica e vicina a quella della fiaba. Il rapporto con Mira è tragicamente compromesso dall’esame di realtà, al quale la psiche di Paolo non resiste, e il mondo ideale costruito dentro di sé si sgretola in un finale accelerato che colpisce per la sua durezza.

Prima prova di grande spessore letterario, Lingua madre di Maddalena Fingerle ci ricorda l’esistenza di una tradizione del romanzo (Svevo, Canetti) che può ancora essere traghettata in questo secolo funestato dalla crisi climatica e dal collasso di un sistema economico e di pensiero, ma in cui i temi universali che riguardano la fragilità della psiche umana e le sue emozioni più autentiche non per questo possono passare in secondo piano. Al contrario, la salute mentale è oggi al centro di verifiche importanti delle prassi cliniche, e proprio dalla capacità di cura che manifesta una società si comprende quanto sia in grado di evolversi e liberarsi dalle gabbie che ha essa stessa creato.
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Immagine di copertina:
Max Beckmann, Liebespaar, 1940-1943, olio su tela, Museum Ludwig, Köln (lascito Georg and Lilly von Schnitzler, 1957)