Polifonia della percezione: dal dilemma epistemologico alla sfida etico-politica

In un testo ormai celebre e dal titolo eloquente,1 Tim Ingold definisce “ecologica” la vocazione della sua ricerca in antropologia: un lavoro paziente di comprensione del modo umano di abitare il mondo, che si nutre delle descrizioni e delle analisi di quella fitta trama di relazioni fra l’«uomo» e gli «ambienti» che lo mobilitano e in cui s’impegna. Questo tipo d’antropologia, Ingold ne è ben consapevole, non può eludere due domande teoriche importanti. La prima riguarda proprio la definizione del concetto di “ambiente”: come individuarne i confini o i contorni? Come interrogarsi sul suo eventuale statuto ontologico? Cosa distinguerebbe l’ambiente da una nicchia, da un ecosistema o da un mondo? Come pensare, inoltre, “l’ambiente” rispetto agli organismi che operano al suo interno, e come co-evolvono ambienti e organismi? La seconda domanda teorica importante è conseguenza di questo primo nucleo problematico. Ingold si chiede: davvero un’antropologia a “vocazione ecologica” può rimuovere il tema di una eventuale specificità degli ambienti degli animali umani, evitando di ricadere nella maledizione antropocentrica?

Appare in prima battuta necessario elaborare una definizione quanto più rigorosa ed elastica possibile del concetto di ambiente — prerequisito essenziale per ogni approccio ecologico ai fenomeni di costruzione di senso. Chi ha familiarità con il pensiero di Ingold sa bene che, con una vena un po’ merleau-pontiana, egli ha dato vita a un’operazione d’archeologia concettuale del fenomeno della percezione, concepita come dimensione generale e comune ai viventi; laddove questa comunanza ne fa la chiave di volta per interpretare l’incastro originario (per quanto non lineare) fra viventi 2 e «territori esistenziali».3 Ricomponendo un percorso che da Gibson giunge a Deleuze passando attraverso la biologia teoretica di von Uexküll e l’interpretazione che ne fornì Heidegger in termini d’analitica esistenziale, Ingold immagina una teoria “polifonica” della percezione e degli “spazi fluidi”. L’ambiente per ciascun vivente altro non sarebbe che uno “spazio fluido” dove si assemblano e risuonano di continuo “cose”, “agenti” e “modulazioni” del vivere (individuale, collettivo e interspecifico). «Gli animali vivono e respirano in un mondo di terra e cielo – o di terra e cielo in divenire – in cui percepire vuol dire accordare i suoi movimenti in contrappunto alle modulazioni del giorno e della notte, della luce e del sole, del vento e del clima».4 Da questo punto di vista, l’ambiente coincide con il dispiegamento morfogenetico d’un campo d’elementi eterogenei, e al contempo con la corrente espressiva di questo microsistema complesso (nonché altamente dinamico sotto il profilo ritmico), secondo i differenti attori e partecipanti che lo incarnano di volta in volta.

Nel riprendere il tema della percezione come dimensione generale dell’esistere (tema, per l’appunto, caro a Merleau-Ponty), non si tratta più, per Ingold, di ripensare in termini non antropocentrici i rapporti e i passaggi di frontiera fra organismi e ambienti, o fra mente/corpo e mondo. Non si tratta nemmeno – come era invece nell’immaginario della tradizione fenomenologica – di svelare la tensione genetica o la ripresa sussidiaria di animalità e umanità.5 Ingold ha ben chiaro che la posta in gioco è altra, tanto dal punto di vista epistemologico e teorico che da quello etico-politico.

Sul primo versante la sfida è quella di non trovarsi stritolati dall’andirivieni costante fra un’ecologia del reale d’ascendenza gibsoniana e dall’impronta fortemente “realista”, e una fenomenologia dell’esperienza che trasudi nostalgia costruttivista e antropocentrica. Il realismo post-gibsoniano ha l’indubbio merito di aver fatto spazio al mondo delle cose e a quello dei viventi in quanto protagonisti della storia del pianeta allo stesso titolo dell’animale umano. Tuttavia, in questo quadro teorico l’ambiente è concepito come uno spazio già predisposto; di conseguenza, la prima modalità relazionale fra l’ambiente e l’abitante che lo attraversa esistendo pare improntata a una sorta d’indifferenza originaria. In effetti, nella teoria ecologica della percezione di Gibson, è la stessa trama oggettuale dell’ambiente a “invitare” i soggetti all’azione: e ciò avviene secondo traiettorie più o meno predeterminabili, e ad ogni modo imposte dai “motivi d’azione” (o affordances) che gli oggetti e gli elementi del mondo rilasciano in virtù della loro costituzione materiale, intrinsecamente relazionale.6 Di contro, anche la tradizione costruttivista – che ha in Heidegger uno dei suoi più protervi sostenitori – vanta il merito di aver tematizzato un rapporto di specifica “attenzione” (riflessiva, comunque di secondo ordine) che la specie umana intrattiene con l’ambiente; e ciò in virtù della meditazione approfondita sulla complessità cognitiva e culturale della dimensione dell’agire strumentale (e tecnico). Tuttavia, in questo genere di prospettive l’ambiente cade sotto i colpi di una altrettanto potente scure riduzionista, giacché viene identificato con uno spazio sempre determinabile dall’uomo, uno spazio a disposizione e a portata di mano, in cui a godere di libertà è solo la “mano” dell’uomo, vale a dire, fuor di metafora, le aperture dell’animale umano in grado di trasformare in valore (intellettuale) ciò che si offre ai sensi.

Per uscire da questo dilemma Ingold avanza, come è noto, una proposta d’ispirazione “deleuziana”: invertire le priorità heideggeriane e celebrare il rapporto d’inerente e reciproca apertura fra ambiente e forma di vita animale. «È l’apertura di una 7 vita che non è delimitata, trascende tutti gli ostacoli che si parano sul suo cammino, e che traccia un percorso come le radici di un rizoma attraverso tutte le faglie e le fessure che lasciano spazio all’animale, per muoversi e crescere».8 Ingold rilancia l’analogia, già sfruttata da von Uexküll, fra polifonia musicale e mondo della vita «nel quale la vita di ogni creatura equivale a una melodia in contrappunto».9 Abbiamo già detto: agenti e ambienti formano un assemblaggio eterogeneo in continua variazione; di conseguenza, quando parliamo di “individuo” ci riferiamo a un “pacchetto di linee” (l’ecceità deleuziana), vale a dire un insieme non determinabile a priori ma materialmente ben ancorato a un orizzonte di possibilità, traiettorie, storie, viaggi, ritmi (ecc.). Con un afflato lirico che i suoi lettori riconoscono, Ingold si esprime a proposito di un aspetto rilevante dell’analogia fra ambiente e polifonia percettiva e pratica, vale a dire la tensione al prolungarsi:

«nella vita come nella musica o in pittura, nel movimento del divenire – crescita dell’organismo, dispiegamento della melodia, movimento del pennello e traccia che questo lascia – i punti non sono davvero congiunti, sono piuttosto trascinati e resi indiscernibili dalla corrente mentre vi scorrono dentro. La linea non tiene insieme mosca e ragno, o vespa e orchidea, ma passa fra i due […]. La vita è aperta: il suo slancio non la spinge a raggiungere un punto finale ma a prolungarsi in maniera indefinita, come il ragno che fila la sua tela o il musicista che si lancia nel “caos” dell’improvvisazione».10

Il punto, per Ingold è chiaro, riguarda le conseguenze etico-politiche di questo posizionamento eco-fenomenologico. Infatti, come e in quali modi coesistono, coabitano e si “prolungano” organismi (diversi) e ambienti (diversi)? Sono questioni che sconfinano dal campo epistemologico dell’antropologia o della filosofia, e comportano problemi d’ordine etico-politico ed educativo:11 dalla concettualizzazione dell’“ambiente” hanno preso vita le metafisiche implicite che hanno segnato la cultura occidentale (e non solo), le sue posture antropocentriche e mitologie più o meno moderne. Mitologie che hanno lavorato sugli immaginari scientifici (e politici) in maniera profonda, e hanno altresì generato l’illusione che un rapporto d’attenzione reciproca fra i viventi fosse da escludere o, al più, da rinchiudere nel recinto di rapporti di subordinazione fra animale umano vs non-umano (rapporti di domesticazione, di finzionalizzazione documentaria, di riduzione scientista sulla base funzioni evolutive ecc.).

La via di un’attenzione “udente-parlante”: Morizot e la diplomazia lupesca

Fra queste mitologie, una delle più spinose è quella che Baptiste Morizot ha di recente chiamato la “maledizione antropocentrica”: finzione tipica della modernità utile a chi ha inteso giustificare la «riduzione del vivente a merce per far circolare i flussi economici mondiali».12 Morizot, già noto ai lettori italiani per il suo Sulla pista animale (Nottetempo, 2020), osserva come questo genere di costrutto mitologico persista anche nelle teorie antropologiche del Novecento: toni particolarmente drammatici avrebbe assunto, ad esempio, nell’antropologia di Claude Lévi-Strauss. Per il capostipite dell’antropologia strutturale, il dramma della coesistenza interspecifica avrebbe a che vedere con un beffardo destino d’incomunicabilità planetaria fra animali umani e altre specie viventi, o più generalmente con l’impossibilità di comunicare fra individui di specie diverse. Si tratta di un “destino” che la tradizione giudaico-cristiana avrebbe tentato di occultare, almeno secondo Lévi-Strauss: «nessuna situazione sembra più tragica, e più offensiva per il cuore e la mente, di quella di un’umanità che coesiste con altre specie viventi sulla Terra, con le quali condivide il godimento, e con le quali non può comunicare».13 Morizot sottolinea come Lévi-Strauss si situi perfettamente, almeno da questo punto di vista, in una prospettiva etnocentrica, dal momento che elude un aspetto fondamentale (e in apparenza banale) della comunicazione interspecifica (e inter-individuale), vale a dire il fatto che, a dispetto della tradizione occidentale, le forme di comunicazione fra individui di specie diverse non solo persistono, ma possono produrre effetti di senso validi in un regime di coesistenza fra nicchie ecologiche diverse: «la comunicazione è possibile, ha sempre avuto luogo, è orlata di mistero, d’enigmi inesauribili, anche di intraducibili, e infine di malintesi creativi. Non ha di certo la fluidità di un discorso da bar, ma non è meno ricca di senso».14

In Manières d’êtres vivants, Morizot sostiene che questa mitologia antropocentrica persiste in modo surrettizio a causa di una crisi ecologica profonda, che egli presenta nei termini di una “crisi della sensibilità” (al contempo sociopolitica e legata alla sesta estinzione).15 Morizot decostruisce questa “crisi” in seno ai rapporti di coesistenza interspecifica a partire da un’esperienza di pistaggio (pistage o tracking) di una muta di lupi nel Massiccio del Vercors, che lo condurrà di fronte all’esperienza dell’ascolto di un particolare ululato lanciato nella notte, da diversi individui o dall’intera muta. Si tratta, a dispetto delle apparenze, di un’esperienza dalla forte natura interattiva e emotiva, che nasconde una densità semiotica di fondo: Morizot e i suoi compagni di spedizione si trovano di fronte a un ululato emesso nella notte, di difficile identificabilità, e che necessita, da parte di chi ascolta, d’un lavoro esegetico di considerevole sforzo.16

Prima di presentare molto brevemente l’esperienza d’ascolto di un ululato, e le conseguenze filosofico-semiotiche che implica, vorrei sottolineare un punto. Secondo Morizot, questo tipo d’esperienza permette di cogliere come le posture antropocentriche abbiano filtrato e imbrigliato l’esperienza animale in alcune forme discorsive annientandone altre. Ciò non ha solo impoverito il quadro rappresentativo e immaginario 17 della convivenza interspecifica. Più profondamente, si è prodotta una retorica dell’impossibilità dialogica e di negoziazione fra i viventi, in virtù di un’espansione di quella “economia” dell’attenzione che è tipica dell’episteme occidentale. Morizot osserva acutamente come una delle figure tipiche di questa “economia dell’attenzione” sia da ascrivere al colonizzatore: «civilizzare uno spazio in cui ci si installa, vuol dire fare in modo di poter viverci ignorando i coabitanti non umani. Vuol dire sopprimere, controllare, canalizzare le bestie, gli insetti, le piogge, le inondazioni. Essere a casa propria vuol dire potervi vivere senza fare attenzione».18

Morizot ha chiaro che la postura antropocentrica che culmina anche in autori come Lévi-Strauss trova la propria origine in una universalizzazione morale (e politica!) della disattenzione in quanto “disattenzione sensibile”. Siamo di fronte a un modello dell’universalità logico-linguistica dell’animale umano: non un individuo che parla potenzialmente ogni idioma, ma un individuo che rende la propria lingua, con locali adattamenti, comprensibile alla nicchia creata, senza alcun interesse per il tipo di territorio in cui ci si trova. Siamo, dunque, in una metafisica dell’intercambiabilità di ciascun individuo, idioma, presenza, configurazione di paesaggi e territori. Tuttavia, questa non è la sola modalità d’attenzione: accanto alla disattenzione del colono, Morizot oppone l’attenzione “vigilante” dell’autoctono, per il quale

«essere a casa propria implica questa vigilanza vibratile, questa attenzione alla tessitura delle altre forme di vita […] con le quali occorre trovare una composizione, spesso complicata. La concordia è costosa in intelligenza diplomatica fra umani, e lo è altrettanto con gli altri viventi».19

Ora, l’esperienza dell’ascolto/ricezione dell’ululato pone senza dubbio in crisi il modello politico dell’inattenzione colonizzatrice. L’ululato notturno del lupo arriva all’ascoltatore come un messaggio enigmatico: a chi è rivolto? Cosa intende dire? Quanti sono i destinatari e qual è il loro statuto? Si tratta di un messaggio unico o di un polimorfismo comunicativo che rivela un tatticismo o una strategia da parte dell’animale? Lascio al lettore il piacere di leggere e attraversare i dettagli del racconto che Morizot fa in montagna con i lupi. Richiamo solo un momento particolarmente rilevante. A un certo punto, nel cuore della notte, in chalet, Morizot e i compagni di spedizione si cimentano una pratica particolare, vale a dire nel tentativo di rispondere al lupo che ha emesso l’ululato, con alcuni ululati che simulano con voce umana e uscendo di pochi metri dallo chalet. Il lupo nella notte cercherà di avvicinarsi per scoprire e modulerà per un po’ degli ululati, fino a quando non scomparirà di colpo, a livello acustico. Le poche tracce sulla neve, che la spedizione vede l’indomani, sono la sola traccia del tentativo esplorativo, da parte del lupo, di capire e vedere (pur tenendosi nascosto) “chi” fossero i suoi strani interlocutori. Ora, per Morizot si tratta di comprendere il senso dell’ululato. È davvero mai possibile? Quali sono le condizioni per “con-vivere” e “afferrare” il senso del canto, senza ridurlo a un fenomeno di studio etologico e comportamentale? Come posso, in quanto essere umano vivente, “con-vivere” negoziando senso con “l’ululato” di questo altro abitante del territorio? Si tratta, sostiene Morizot, della necessità di uno sforzo particolare da parte del viandante/esploratore: uno “sforzo d’attenzione” per quel linguaggio, per quei tentativi di comunicazione. Questi tentativi nascondono una complessa macchina evolutiva e comportamentale, che non si riduce alle sole finalità evolutive. Nel ri-presentare la traccia acustica di una pratica biologica ancestrale, il lupo rivela l’inventività dell’uso unico, singolare, la sua creatività, e al contempo la richiesta, all’ascoltatore, di uno sforzo attentivo, di una postura e di una pratica che Morizot non esita a definire “traduttiva”. Trasponendo alla comunicazione interspecifica la filosofia della traduzione di Barbara Cassin, Morizot sostiene che lupo e individuo umano sono entrambi “barbari” l’uno per l’altro: questa dimensione barbarica è la chiave di volta per prendere coscienza che siamo di fronte a due linguaggi e che, di conseguenza, deve iniziare uno sforzo di negoziazione, prossemica, semantica, performativa, culturale:

«se c’è la possibilità di essere un barbaro per un lupo, è perché c’è il tentativo di una traduzione, e quindi che esiste in un modo o nell’altro qualcosa come due linguaggi. Più semplicemente: se c’è incomprensione e sforzo da parte sua per superarla, se c’è un barbaro da una delle due parti, è perché c’è un linguaggio fra loro».20

In questo scambio enigmatico, allora, vi è senza dubbio un ascoltatore, che è unico e multiplo al contempo. Tale destinatario dell’ululato, singolare, unico e creativo, può essere tanto il viandante incontrato, quanto il capo branco, il resto della muta, i gregari, l’amante, o ancora i membri di un branco avversario da confondere, spiazzare, depistare. Ascoltare e cercare di comprendere vuol dire, allora, diventare diplomatico, interprete, forse spia: è questo che condividiamo, dal punto di vista “linguistico” con un animale come il lupo. Confrontare la parola umana e la “parola del lupo”, dice Morizot, implica osservare come il rapporto fra le due specie sia un rapporto di “alterità intima”, dove l’altro vivente è un alien kin. Morizot lo scrive esplicitamente:

«l’urlo del lupo fonde più funzioni della parola umana: informativa, incitativa, performativa. In quest’urlo vi è tutt’un linguaggio senza linguaggio. È simultaneamente un parlare-di (sono qui), un parlare-a (trovami!), e un parlar-fare. Il lupo formula in un solo canto inseparato: “sono qui, ci siete? Facciamo branco!” […] ma dice anche, con lo stesso suono: “vi sto cercando, trovatemi”, poiché la solitudine è una mancanza che bisogna colmare chiamando. E il lupo chiama probabilmente anche sé stesso, richiama sé all’esistenza nel silenzio della notte […]. Si mette a parlare ad alta voce per sé stesso. A chiamarsi per nome. La sua voce lo issa nell’esistenza, come se si tirasse dal nulla per i capelli, grazie alla forza della parola».21

Si potrebbe obiettare a questa descrizione l’eccessivo antropomorfismo, ma sarebbe gioco facile. L’obiettivo di Morizot è di cogliere, attraverso il racconto di questo incontro, e attraverso un modello dell’ululato lupino come “gesto linguistico-performativo complesso”, la radicale e intima alterità dei viventi, vale a dire il loro con-vivere che richiede necessaria attenzione reciproca, una politica d’invenzione diplomatica e un’etica della convivenza e una della traduzione incessante che entrambi, uomini e lupi, “possiamo” esercitare, restando radicalmente diversi.

È questa necessità d’allargare il principio di traduzione verso gli “intraducibili” (ossia verso le caratteristiche biologiche di ogni specie animale) che può, forse, rappresentare una speranza politica per il pensiero ecologico, e per ricollocare in maniera diversa anche l’uomo e le sue parole nel mondo, ritrovando, come auspicava già Ingold, quell’attenzione al comune che è un semplice camminare per un po’ l’uno accanto all’altro, conversando, in contrappunto, senza fare pace mai, come cuccioli che si mordono per gioco.

Bibliografia
F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, 2015.
V. De Luca, Matérialité et développement des formes sémiotiques: de l’hyperobjet à la niche, in “Signifiances/Signifiyng”, 4/1, pp. 66-84, 2020.
C. Di Martino, Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, Raffaello Cortina, 2017.
P. Fabbri, Zadig e il lupo ovvero semiotizzare le tracce, in D. Bertrand & G. Marrone (a cura di), Umanimalità. Il discorso animale, Mimesis, 2019, pp. 52-67.
T. Ingold, Point, Line and Counterpoint: From Environment to Fluid Space, in A. Berthoz & Y. Christen (éd.), Neurobiology of “Umwelt”. How Living Beings Perceive the World, Springer-Verlag (2009), pp. 141-156.
T. Ingold, Prêter attention au commun qui vient. Conversation avec Martin Givors & Jacopo Rasmi, in «Multitudes», 68/3, 2017, pp. 157-169.
T. Ingold, Back to the future with the theory of affordances, in «Journal of Ethnographic Theory», vol. 8, n. 1-2, 2018, pp. 39-44.
F. Keck, L’écologie négative de Claude Lévi-Strauss, in «Dissolution du sujet et catastrophe écologique chez Lévi-Strauss, in «Archives de Philosophie», 3, 2013, pp. 375-392.
C. Lévi-Strauss, D. Éribon, De près et de loin, Odile Jacob, 2001 [1988].
B. Massumi, What Animals Teach Us about Politics, Duke University Press, 2014.
M. Merleau-Ponty, La Natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, Raffaello Cortina, 1996.
B. Morizot, Sulla pista animale, Nottetempo, 2020a.
B. Morizot, Manières d’être vivants, Actes Sud, 2020b.

———

Note:

1) T. Ingold, Point, Line and Counterpoint: From Environment to Fluid Space, 2009, pp. 141-156.
2) Poco importa, a questo stadio, se si tratta di organismi, d’individui o di specie.
3) Prendo in prestito la formula di «territorio esistenziale» da Brian Massumi,What Animals Teach Us about Politics, 2014, pp. 50-53.
4) T. Ingold, Point, Line, Counterpoint, cit. p. 154. Traduzione e corsivi miei.
5) M. Merleau-Ponty, La Natura, 1996, pp. 210-225. Per un approfondimento della persistenza di un residuo antropocentrico nella filosofia della cultura di ispirazione fenomenologica, rimando a C. Di Martino, Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, 2017. Per una discussione sull’ambiguità concettuale dei termini “animalità” e “umanità”, rimando a F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, 2015.
6) Sottolineiamo che il discorso di Gibson non è del tutto riconducibile – a voler essere rigorosi – a questo stiramento realista così accentuato. Lo stesso Ingold in anni recenti è tornato sull’eredità di Gibson, sfumando le proprie critiche allo psicologo statunitense. Cfr. T. Ingold, Back to the future with the theory of affordances, 2018. Il punto interessante è che una tale accentuazione delle proprietà relazionali intrinseche agli oggetti è oggi una bandiera teorica della riflessione ecologica nell’ambito del realismo speculativo, come nel caso di Timothy Morton. Per una discussione critica sulla filosofia di Morton da posizioni più vicine a quello di Ingold, rimando a V. De Luca, Matérialité et développement des formes sémiotiques: de l’hyperobjet à la niche, 2020.
7) Corsivo mio.
8) T. Ingold, Point, Line, Counterpoint, cit. p. 149. Traduzione mia.
9) Ibid.
10) Ibid., p. 150.
11) In anni più recenti Ingold è tornato sulla questione, sostenendo che un approccio merleau-pontiano ed ecologico in antropologia non culmina necessariamente in una teoria irenica della coesistenza degli esseri, ma può prevedere un «oceano della variazione: come un paesaggio in cui ciascun luogo è differente da ogni altro luogo senza che questi, però, siano separati l’uno dall’altro», in T. Ingold Prêter attention au commun qui vient. Conversation avec Martin Givors & Jacopo Rasmi, 2017, p. 158.
12) B. Morizot, Manières d’être vivants, 2020b, p. 35. Traduzione mia.
13) C. Lévi-Strauss, D. Éribon, De près et de loin, 2001, p. 193). Traduzione e corsivo miei. Per un approfondimento sui rapporti fra Lévi-Strauss e la sua teoria ecologica, rimando a due articoli particolarmente acuti di F. Keck, L’écologie négative de Claude Lévi-Strauss, 2011, pp. 65-76; e F. Keck, Dissolution du sujet et catastrophe écologique chez Lévi-Strauss, 2013, pp. 375-392.
14) B. Morizot, Manières, cit., p. 35.
15) Ibid., pp. 15-20.
16) Uno spunto fondamentale per ragionare su questo tema, discutendo peraltro il libro di Morizot sul pistage, si trova in P. Fabbri, Zadig e il lupo ovvero semiotizzare le tracce, 2019, pp. 52-67.
17) Pensiamo, ad esempio, a come è cambiato il ruolo degli animali nei nostri sogni, come si sia impoverito sempre più, anche in termini di condensazione metaforica, per incistarsi in figure pseudo-archetipali da far circolare in occasioni socialmente condivisibili.
18) B. Morizot, Manières, cit., p. 30. Traduzione e corsivi nostri.
19) Ibid.
20) Ibid., p. 50.
21) Ibid., p. 69.

———

Immagine di copertina:
una fotografia di Steve Felberg da Pixabay