Nelle ultime settimane, all’interno dei dibattiti sulla presunta contrapposizione tra identity politics e istanze di classe che hanno infiammato prima i microversi virtuali altrimenti noti come bolle e poi le pagine dei magazine più o meno mainstream, è comparsa sempre più spesso la categoria di intersezionalismo: in ogni dibattito che andasse oltre i cinque commenti qualcuno la tirava in ballo per spiegare le potenzialità di una lotta che includesse sia le rivendicazioni dei diritti delle minoranze sia quelle legate ad istanze di classe, in virtù della simultaneità, del sincretismo che queste diverse categorie di interpretazione della realtà mostrano e operano nel dare forma alla realtà stessa. Con un grandissimo sforzo di pazienza, poi, la maggior parte di quellə che tiravano in ballo l’intersezionalismo nelle discussioni che hanno preso piede sul tema nei luoghi dell’attivismo digitale diffusi tra Instagram e Facebook, provavano a scomporlo, parafrasarlo, sviluppare il termine per spiegare meglio di cosa si parlasse e quasi sempre lo descrivevano come l’intersezione tra istanze di classe, razza e genere. Semplicistico per forza di cose, riadattato allo spazio e al contesto di un dibattito via etere, ma non è questa ciò che mi ha colpita: ho notato, infatti, che ogni volta che nei dibattiti variamente di movimento e/o di bolle culturali attigue viene menzionato l’intersezionalismo, c’è sempre un grande assente nei termini dell’intersezione auspicata, ed è la specie. La performance dell’assenza della categoria di specie nei dibattiti di queste ultime settimane è risultata ancora più straniante, perché è accidentalmente coincisa con il periodo che precede la Pasqua, un momento in cui, come ogni anno, imperversano quasi ovunque le campagne di sensibilizzazione contro la mattanza degli agnelli: proviamo ad usare questa convergenza, i contrasti stridenti e le molteplici contraddizioni che lascia emergere per fare qualche riflessione, procedendo per punti.

Pensare solo agli animali carini: segnali infantili e cure parentali

Nel 1943 Konrad Lorenz, considerato il fondatore dell’etologia moderna, elencò in un lavoro dal titolo Le forme innate dell’esperienza possibile, pubblicato sull’Ethology Journal, le componenti del cosiddetto kinchenscheme, 1 ovvero le caratteristiche infantili dei cuccioli (testa grossa e viso piccolo rispetto al cranio, occhi grandi e tondi, orecchie piccole, muso corto, con mascella e maxilla poco sviluppate, fronte convessa, guance paffute, arti corti e grassocci, forme arrotondate, pelle morbida, vocalizzi, andatura goffa, comportamento giocherellone): secondo Lorenz queste caratteristiche innescano più o meno automaticamente l’istinto a prestare cure parentali all’animale percepito come cucciolo anche se appartiene ad una specie diversa dalla propria.
La teoria di Lorenz viene messa in discussione sia in maniera autoevidente dal fatto che la mattanza degli agnelli – che rispondono a gran parte delle caratteristiche infantili che dovrebbero innescare reazioni istintive di cura – va avanti da secoli, sia in maniera più mirata e scientifica da studi di neurobiologia come quello del 2017, a cui hanno partecipato anche ricercatori del Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento e che è stato pubblicato sulla rivista della National Academy of Sciences, che ha confrontato le risposte cerebrali di circa seicento madri di culture, etnie, classe e condizioni esistenziali differenti al pianto di un bambino, constando che di fatto non esiste alcuna reazione istintiva univoca.
D’altro canto, però, abbiamo anche numerose evidenze del contrario, ed è un fatto certo che l’uso di tratti infantili per suscitare reazioni di protezione è uno degli artifici più comuni delle narrazioni visuali (fumetti e cinema): Baby Yoda, Baby Groot, i personaggi dei manga e degli anime con gli occhi grandi, per citare solo tre esempi lampanti.
Esiste, dunque, una reazione istintiva di cura o il senso di protezione per le creature percepite come carine è un costrutto culturale e mediatico? Probabilmente entrambe le istanze si influenzano a vicenda.
La campagna mediatica annuale sulla mattanza degli agnelli si inserisce proprio nel solco tracciato da questa influenza biunivoca. Ciò è dimostrato sia dal fatto in sé che queste campagne esistono e che vengono addirittura sposate da persone variamente onnivore; sia, in modo ancora più esplicito, dal fatto che, ad esempio, alcune delle immagini più usate raffigurano gruppi di agnelli separati dalle loro madri, nel tentativo di evocare il concetto di negazione delle cure parentali e di tracciare un parallelismo implicito con l’immaginario standard dei lager nazisti, consolidato da cinquant’anni di film e documentari sul tema. A questo c’è da aggiungere la discrasia generata dal fatto che la stessa tradizione cristiana, nel nome della quale gli agnelli vengono massacrati, sottolinea come l’agnello sia la metafora per eccellenza dell’innocenza (metafora utilizzata poi anche dalla cultura pop, si veda The silence of the lambs).
Nella comunità vegan (nota bene: veganesimo e antispecismo non sono esattamente la stessa cosa. Possiamo riassumere la differenza dicendo che il veganesimo è una pratica, l’antispecismo una filosofia che tra le proprie pratiche adotta anche il veganesimo), intanto, infuria da anni il dibattito: moltə condannano l’ipocrisia lampante e il vago paternalismo del preoccuparsi letteralmente solo per gli animali percepiti come carini; moltə altrə si concentrano sul fatto che in termini di strategia comunicativa campagne del genere sono utili ad avvicinare e sensibilizzare persone onnivore e che, inoltre, anche un singolo agnello salvato dalla mattanza è una vittoria.
Come antispecista trovo molto vere, molto giuste e assolutamente non in contraddizione entrambe le istanze, però mi piacerebbe fare un passo in più e suscitare una riflessione ulteriore gettando qualche seme per iniziare a includere più spesso la categoria di specie nei discorsi sull’intersezionalismo.
La questione dell’istinto parentale e delle madri divise dai figli è emblematica: nell’idea che le madri animali esistano solo in virtù del loro essere madri, sia in termini letterali che in termini di produttrici di latte, e nel fatto che lo stesso sistema che le spinge a essere madri tagli prima del tempo il legame con la prole c’è, infatti, la stessa matrice di oppressione capitalistica e patriarcale che troviamo nell’idea che le femmine umane vengano spinte in tutti i modi alla maternità dallo stesso sistema che nega loro le tutele necessarie anche solo per pensare di mettere al mondo un figlio. La questione dell’invisibilizzazione dell’oppressione subita da alcune specie rispetto ad altre, invece, ha pressoché la stessa matrice delle dinamiche di potere insite nelle rappresentazioni delle minoranze nella specie umana. In virtù di ciò, iniziare a pensare l’intersezionalismo anche in termini di specie diventa uno step fondamentale.

Natura e cultura

Anche in contesti intersezionali, tuttavia, quando viene messo in campo l’antispecismo si assiste ad atteggiamenti difensivi e a risposte che, appiattendo l’antispecismo sul veganesimo mainstream lo derubricano a velleità borghese, allo stesso modo in cui i veteromarxisti – per cui la sola lotta che conta è quella di classe – screditano le istanze di rivendicazione legate a razza e genere. Se infatti da un lato è vero che alcune forme di veganesimo mainstream (esattamente come alcune forme di femminismo liberal) sono effettivamente l’espressione di velleità borghesi e colonialiste e ignorano qualsiasi istanza di accessibilità economica e/o geografica, dall’altro è altrettanto vero che gettare il proverbiale bambino con l’acqua sporca è una strategia quantomeno discutibile.
Vale la pena, comunque, di analizzare in modo più dettagliato una delle critiche che – soprattutto quando si affronta il tema specifico della mattanza annuale degli agnelli – viene rivolta anche da sinistra all’antispecismo, ovvero quella che in un certo senso potremmo definire antropologica e che oppone alle istanze antispeciste presunte rivendicazioni di cultura popolare, configurandosi come una sorta di conflitto dualistico tra difesa della Natura e difesa della Cultura: posto che non stiamo parlando della tradizione in via di estinzione di una minoranza etnica, ma di quella di un gruppo culturalmente, religiosamente ed etnicamente dominante, anche questa controversia può offrirci a suo modo un’occasione per riflettere e per aggiungere qualche pezzo in più al dibattito.
Innanzitutto, è bene notare che questo uso identitario del concetto di cultura è più o meno lo stesso che Furio Jesi identifica come cultura di destra:
«la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari […]. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire» (Furio Jesi, da un’intervista a L’Espresso, 1979).
Interessante, tra l’altro, notare il passaggio di Jesi sulla religione della morte, perché, sebbene di solito si dia di questo passaggio una lettura antropocentrica, sembra adattarsi quasi letteralmente al nostro tema.
D’altro canto, anche l’idea monolitica di Natura viene impugnata piuttosto spesso dalle destre più estreme come arma discorsiva per sostenere le proprie idee oscurantiste (omofobia e sessismo, in particolare).
In virtù di ciò, il tipo di antispecismo intersezionale che dovremmo auspicare e provare a costruire non può configurarsi banalmente come una celebrazione della Natura, come entità contrapposta alla cosiddetta Cultura ma dovrebbe, piuttosto, tenere conto della natura tentacolare e multiforme della realtà e puntare al sincretismo, o alla simbiosi che dir si voglia, tra natura e cultura, a un cosmo fatto di complessità e trame di relazioni.

Making kin, making babies

Imprevedibilmente, alle convergenze teoriche di queste settimane, si è aggiunto un altro tassello: in questi giorni sta tornando alla luce anche il dibattito, che segue più o meno di pari passo le alterne vicende dei discorsi sui cambiamenti climatici, su natalità e denatalità, genitorialità e antinatalismo.
Nell’antinatalismo filosofico vediamo delinearsi la contrapposizione tra due posizioni: la prima è quella di David Benatar, che nel suo Meglio non essere mai nati, sostiene posizioni antinataliste (e in definitiva estinzioniste) anche in virtù di quanto ne gioverebbero gli animali non umani e i loro habitat. La seconda è quella di Magnus Vinding, che, proprio in quanto antispecista, sostiene, in un modo che potrebbe quasi sembrare paradossale, la necessità di un antinatalismo esteso agli animali non umani per mettere fine anche alle loro sofferenze (che per Vinding sono insite nella loro esistenza e non dipendono solo dallo sfruttamento da parte degli umani).
L’antinatalismo mainstream, invece, si pone almeno apparentemente su posizioni simili a quella di Benatar. In contrapposizione con idee di maternità antropocentriche, positiviste e che oltretutto hanno spesso come presupposto i soli tassi di natalità e denatalità dell’occidente bianco, esprime la necessità dell’estinzione o comunque di una riduzione della natalità in virtù di una riduzione della (presunta) sovrappopolazione del pianeta come forma attiva di salvaguardia del pianeta stesso, e di una Natura che ricorda quasi quella monolitica, favoleggiata e incontaminata a cui si accennava nel paragrafo precedente.
Questa contrapposizione è, ancora una volta, riduttiva e dualistica: sostenere l’idea di maternità antropocentrica e positivista è paradossale, perché quell’idea di maternità è un’espressione e una componente del collasso della specie. Non tanto per la sovrappopolazione, quanto piuttosto poiché espressione di un’idea di realtà basata sulla centralità della specie umana e quindi della sua facoltà di decidere le sorti delle specie non umane – considerate solo in termini di risorse.
Esiste una terza strada, ma per attuarla bisogna prima di tutto entrare nell’ordine di idee che la realtà è una rete tentacolare e complessa di relazioni e istanze tra specie e individui. Parliamo della strada che Donna Haraway, nell’ultimo capitolo di Chthulucene dal titolo I bambini del compost presenta come esperimento di speculative fiction 2 e che ci può dare qualche spunto concreto sui discorsi da mettere in campo, per iniziare a costruire un’idea di realtà nuova in cui non esistano né la contrapposizione tra le specie, né istanze salvifiche paternalistiche. Quello che esiste, invece, è un’unica lotta fondata sulla simbiosi, su un’intersezione che non sia solo geometrica ma vera e propria compenetrazione tra le specie e tra le diverse istanze che le animano. E, a margine, c’è da fare una riflessione su una delle citazioni più famose, più riproposte e più vituperate dell’opera della Haraway, quel «Making Kin, Not Babies» che troviamo in Chthulucene prima, diverse volte, in forma più o meno implicita e poi esplicitata sottoforma di foto di un adesivo realizzato dalla stessa Haraway insieme a Kern Toy, Beth Stephens ed Annie Sprinkle: 3 nell’uso che se ne fa in gran parte degli ambienti dell’attivismo transfemminista e queer si può notare, infatti, un ripiegamento, un appiattimento su posizioni antinatalistiche e dualistiche come se kin fosse in contrapposizione a baby e non un ente nuovo che preveda la compenetrazione tra specie. Forse potrebbe essere un primo passo in questo senso: sarebbe bello distruggere la metafora degli agnelli come simbolo d’innocenza e farne invece, in virtù del loro status di intersezione tra kin e baby, un simbolo dell’inizio della lotta.

Bibliografia

Marc Bornstein et al., Neurobiology of culturally common maternal responses to infant cry, PNAS, 2017
David Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, Carbonio Editore, 2018
Magnus Vinding, Antinatalism and reducing suffering: A case of suspicious convergence, magnusvinding.com, 2021
Donna Haraway, Chthulucene, Not, 2019

———

Note:

1) Lorenz K., “Die angeborenen Formen möglicher Erfahrung”, in Ethology: International Journal of Behavioural Biology, n. 5, pp. 235-409.
2) Robert A. Heinlein, Science fiction, its nature, faults and virtues, in The science fiction novel: imagination and social criticism, Advent, 1959.
3) Donna Haraway, Chthulucene, Not, 2019, pp. 156, Fig. 8.2.

———

Immagine di copertina:
PhotoKing, Sheep with lambs, Wales UK, 2011 – Wikimedia