Il connubio tra letteratura e male può assumere forme molto diverse. Si va dal male inteso in quanto pura eccedenza, futilità o inutilità – nell’importante accezione coniata da Georges Bataille 1 – al male incarnato della narrativa horror e fantasy. In quest’ultimo genere, in particolare, il male ha assunto, nel corso del ventesimo secolo, un ruolo pivotale nella definizione non solo del campo semantico di pertinenza (ad esempio in frasi come: “i suoi occhi brillarono fugaci, come abissi spalancati sulla notte”, ma financo della struttura narrativa in sé e per sé. Da un lato, la contrapposizione tra bene e male è l’autentico motore di una narrazione destinale ‒ secondo l’archetipo dell’eroe che sconfigge il drago ‒ dall’altro, sfocia in una messa a problema di questa stessa contrapposizione. In reazione alla struttura classica, la letteratura fantasy della seconda metà del ’900 ha fatto di tale problematizzazione il fulcro di una nuova modalità narrativa.
Sangue, brutalità, violenza gratuita, discriminazioni, fanatismo radicale, nichilismo spicciolo e valori posticci. Tutto ciò rientra, di diritto, all’interno di una specifica tendenza letteraria, sintetizzabile attraverso il termine-ombrello “grimdark”. Considerare tale setting metodologico come un genere a sé, di fatto, rappresenterebbe non tanto un errore, quanto una grossolana approssimazione. Non appena l’impeto tassonomico entra in contatto con un caleidoscopico vortice di sfumature e atmosfere, è immediatamente costretto a ridimensionare le proprie pretese.
Uno dei primi e tra i più celebri mondi narrativi legati al grimdark è senza dubbio quello di Warhammer 40K, noto marchio di miniature impiegate nella riproduzione “da tavolo” di scontri bellici in un ambientazione fantascientifica. Non a caso, una delle storiche tagline pubblicitarie del franchiserecita: «In the grim darkness of the far future there is only war». Poche parole, ma così potenti da risuonare imperiose, ancora e ancora, nella mente del lettore. Un motto che ha ispirato un intero movimento letterario, sacralmente raccolto attorno al verbo dell’oscurità.
Tuttavia, WH4K – trasposto nel reame del fantasy letterario dal leggendario Dan Abnett ‒ non ha di certo esaurito tale approccio narrativo: l’elemento chiave del grimdark non è lo spazio profondo, né il gotico (o il neo-gotico), né il caos indomito o lo sterminio incondizionato ‒ sebbene ciascuno di questi elementi giochi un ruolo fondamentale all’interno di un movimento letterario, ruolistico e cinematografico decisamente di confine. Per averne conferma, è sufficiente volgersi ad alcuni degli autori e delle autrici che, negli ultimi decenni, hanno legato il proprio nome a questa tendenza: George R.R. Martin, Anna S. Spark, Scott Bakker, Adrian Tchaikovsky, Anna Stephens, Richard K. Morgan, John Gwynne, Deborah A. Wolf, John Abercrombie e Mark Lawrence ‒ senza contare un gran numero di autori, molto noti e molto, molto affini al grimdark, quali, ad esempio, Michael Moorcock e Andrzej Sapkowski. Ciascuno di loro diverge dagli altri quanto dal paradigma del fantasy tradizionale. Quest’ultimo potrebbe essere controversamente stabilito nella trilogia del Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, nella saga delle Cronache di Narnia, di Clive Staples Lewis, e nelle prime due edizioni del giochi di ruolo “Dungeons & Dragons”, creato dai due pionieri Gygax e Arneson – nonché nei suoi derivati ludici, quali l’ambientazione dei “Forgotten Realms”, e letterari, come la saga di Dragonlance, a opera di Margaret e Tracy Hickman.
Nel configurare tale canone, l’elemento primario, come vedremo, consiste in una netta contrapposizione tra il bene, condensato nella figura dell’eroe, e il male, solitamente incarnato da un signore oscuro (mago, stregone, dio o semidio), da un arcidemone, da un drago o da un lich (una creatura non-morta assetata di potere, al comando di legioni di zombie, scheletri e vampiri).

Nel tentativo di categorizzare il grimdark, individuando costanti, ricorsività e strategie narrative, si è spesso tentato di evidenziare la distanza di quest’ultimo ‒ e dei suoi antecedenti ‒ dall’heroic fantasy (anche detto epic fantasy o high fantasy). Qualche anno prima dell’avvento della tendenza grimdark, questo tipo di argomentazione ‒ che potremmo denominare “differenziale” ‒ è stata impugnata da Michael Moorcock, in un breve e dissacrante scritto del 1978, intitolato “Epic Pooh” 2. Per Moorcock 3, il fantasy tradizionale possiederebbe una struttura essenzialmente morale, anzi, pienamente moralista ‒ affine a quella della religione, o della letteratura per l’infanzia. Secondo Moorcock, la funzione “consolatoria” del fantasy classico ‒ incentrata sull’escapismo e sull’alienazione dai mali della vita ‒ dovrebbe essere inserita all’interno di un più ampio dispositivo reazionario, incentrato sulla riproduzione di un passato illusorio, del tutto ideologico, assemblato a uso e consumo della borghesia.
Una narrativa fantastica davvero interessata a confrontarsi con il passato e con l’ideologia egemonica, dovrebbe, per Moorcock, “sfidare” ‒ e non consolare ‒ il lettore.
Si tratta, a ben vedere, di un’idea in qualche modo vicina al concetto ejzenšteinano di “cine-pugno”, applicato dall’avanguardia sovietica alla sfera del cinema: un montaggio capace di penetrare nel cranio dello spettatore e conficcarsi irrimediabilmente in esso, impiegando le immagini come un ariete da sfondamento.

I due principali avversari del fantasy anti-tradizionalista, sarebbero, di conseguenza, l’escapismo e la riduzione della complessità ‒ spesso conseguente alla stessa fuga dalla realtà. A ciò, si va ad aggiungere un’ulteriore aggravante: nella (ri)produzione contemporanea del fantasy tradizionale, il consumo di prodotti di intrattenimento è indissolubilmente legato alla replicazione di stereotipi razziali, di genere e di specie ‒ oltre che di stereotipi prettamente letterari.
È proprio uno dei più celebri autori contemporanei, Richard K. Morgan (Altered Carbon, Takeshi Kovacs, A Land Fit for Heroes), ad avanzare, in una recente intervista, l’ipotesi che l’ossessiva replicazione di un certo standard narrativo ‒ legata a importanti interessi commerciali e propagandistici ‒ abbia condotto a tutta una serie di semplificazioni, di natura morale, politica e letteraria. Secondo Morgan, la parabola ascendente che da Reagan e Nixon giunge fino alla catastrofe del 9/11 presenterebbe forti legami con l’esplosione di popolarità dei franchise Marvel e DC, nonché, più in generale, della fiction a carattere morale ‒ lungo un asse che, dalla contrapposizione USA/Unione Sovietica, condurrebbe direttamente allo scontro di civiltà tra Occidente e Medio Oriente 4 e, infine, alla contrapposizione tra società e guerra civile.
In modo molto simile a Moorcock, Richard Scott Bakker, nella sua prefazione all’antologia Evil is a Matter of Perspective 5, evidenzia come l’archetipo flessibile del grimdark consista proprio nello sfidare il lettore sul territorio valoriale. Se, nell’heroic fantasy, ogni ambiguità morale viene appiattita su di una cornice metafisica di matrice cristiana ‒ di modo che sia immediatamente possibile distinguere tra bene e male ‒ nel grimdark si assisterebbe al dramma della scelta o, ancora, a una tragica assenza di scelta. Per Bakker, il pensiero grimdark discende da un evento seminale della storia dell’Occidente: la morte di Dio, la scomparsa dell’arbiter.
Nella definizione di Bakker, l’essere umano, gettato nel mondo e privo di una luce guida, è costretto a confrontarsi con la propria storia ‒ tanto individuale, quanto di specie ‒ armato della propria sola dotazione razionale.

Nonostante la rilevanza critica delle osservazioni di Moorcock, Morgan e Bakker, ciò che accomuna questo tipo di interpretazioni del conflitto tra grimdark ed heroic fantasy è proprio quel che si presenta, a sua volta, come una semplificazione di secondo grado. In tale prospettiva, il fantasy eroico, alto o “tradizionale” (pedissequamente derivato dai modelli classici del canone tolkeniano-gygaxiano), non sarebbe null’altro che una delle più fulgide e immediate espressioni letterarie di un’entità più vasta e articolata: il pensiero conservatore-reazionario.
In fin dei conti, il male è una questione di prospettiva, ed è pur sempre il potere ‒ il potere dei media, dell’accademia, della politica, degli editori e dei preti ‒ a decidere cosa è bene e cosa è male.
Tale orizzonte critico ‒ composto da ciascuna delle singole ipotesi finora prese in esame ‒ potrebbe essere definito come una sorta di sintesi relativista, all’interno della quale sarebbe costantemente possibile giustificare le azioni dei singoli personaggi in base a un codice morale privato o, all’inverso, attraverso la negazione di un certo codice morale, al quale si opporrebbero.

Di fatto, il dark fantasy non può semplicemente esistere in quanto antitesi negativa o relativista del fantasy tradizionale. Traslando il processo di definizione del grimdark su un piano strettamente morale, inoltre, si sorvolano le specificità narrative di tale tendenza ‒ evidenziandone, al modo della sociobiologia, unicamente gli aspetti funzionali, ossia la loro utilità speculativa. A soffrire maggiormente gli effetti di tale slittamento funzionalista è l’interpretazione di Bakker. Dopotutto, una lettura meramente intenzionata a indurre il lettore a riflettere sulle implicazioni morali delle trame e sottotrame in essa contenuta, non sarebbe null’altro che un manuale di etica pratica.
Con una terrificante torsione, l’opera grimdark, spogliata dalla critica di ogni attributo morale, si rivolta contro i suoi stessi autori, tramutandosi, ancora una volta, in un oggetto di pura contemplazione morale.
Operando attraverso i vettori antitetici della differenza, la via negativa di Bakker e Moorcock dischiude, nondimeno, il sentiero della complessità. A condurci più lontano degli altri, tuttavia, è un quarto contendente: China Mieville che, nelle ultime righe di un conciso e violento attacco a Tolkien 6, redatto sul suo sito, è riuscito a individuare con estrema precisione il nodo del problema. Per Mieville, Tolkien avrebbe posto le basi per un assolutizzazione morale ed estetica del genere fantasy, stabilendo quale strato sociale, quali razze, quali strumenti, quali affetti e addirittura quale sesso possa accedere, di pieno diritto, all’avventura e alle imprese eroiche. La riproduzione paranoica dell’archetipo classico, a opera dei vari epigoni dell’autore inglese, avrebbe poi fatto il resto, promuovendo una vera e propria semplificazione narrativa, depotenziando il bacino operativo ‒ altrimenti illimitato ‒ del fantasy.
Ancor prima che morale ‒ sebbene ancora intensamente e consequenzialmente etico e politico ‒ il problema sarebbe di ordine narrativo ed estetico.
La sintesi relativista sfocia così in una grande “sintesi prospettica”, dalla quale originano traiettorie viventi: mondi, corpi ed eventi.

Oltrepassato il nodo gordiano della morale, il male, la devianza e l’orrore appaiono fecondi, produttivi e proliferanti ‒ laddove il bene si rivela puramente sterile, ossia incapace di generare altro da sé. Il bene, in virtù della propria struttura rigida e immutabile, può solo riprodurre l’identico, può solo essere accumulato lungo una linea di progressione che non fa altro che muoversi come un gambero, avanzando di un passo e arretrando di due. Il male, all’inverso, è in grado di assumere forme sempre nuove e sempre originali. «Il male è il contrario della costrizione» 7, scrive Bataille in Su Nietzsche, e ancora: «L’esercizio positivo della libertà e non la lotta negativa contro un’oppressione particolare mi innalzò al di sopra dell’esistenza mutilata […] L’esercizio della libertà sta dalla parte del male, mentra la lotta per la libertà è la conquista di un bene. Se la vita in me è intera, in quanto tale, io non posso metterla al servizio di un bene» 8.
Indagando le pieghe più profonde dell’animo umano e della carne, ci si accorge di meandri, di stanze e vestiboli precedentemente assenti. Il divenire narrativo, come il divenire organismico, si articola attraverso un esercizio positivo della libertà, ossia attraverso la degenerazione e lungo il sentiero della morte. In questo consisterebbe l’esperienza, l’avventura di un corpo vivo.

Narrando, ancora e ancora, l’immortale storia del trionfo del bene sul male, si narra, grossomodo, sempre la medesima storia ‒ come testimoniano le migliaia di miti solari ed escatologici prodotti dall’essere umano. Un archetipo narrativo che affonda le proprie radici nel tempo profondo. Ciò non sarebbe di per sé negativo. Anzi, tale approccio dischiude importanti territori di analisi, offrendo scorci sulla mente umana e persino sulla struttura della storia e della civiltà. Nondimendo, il limite imposto da tale setting imprime all’opera letteraria un carattere paranoico, compulsivo, al confine con il delirio di onnipotenza. Al contrario, seguendo il male nella sua avventura metamorfica, nel suo costante divenire altro-da-sé ‒ nella sua tragica guerra intestina ‒ si narra sempre una storia differente. O, forse, si racconta la storia della differenza in sé ‒ del differire delle cose del mondo, di come esse divergano le une dalle altre. Quando la lama affonda in un corpo di carne e sangue e pensieri, ha luogo un contagio, uno scambio tanto materiale quanto simbolico. Non è più possibile tornare indietro, trattandosi di un gesto irreversibile, irripetibile, unico.

Come ha evidenziato la psicoanalista russa Sabina Spielrein, «L’istinto di autoconservazione è un istinto “statico” in quanto deve proteggere l’individuo già esistente contro influenze estranee […] Nessuna trasformazione può verificarsi senza l’annientamento dello stato precedente» 9.
A tale superamento di una forma pietrificata si oppone il mantenimento e la difesa acritica di una forma preesistente. Di fatto, l’approccio paranoico e autoriferito del fantasy tradizionale traccia profondi confini tra il bene e il male, tra il protagonista e l’avversario, producendo conseguenze radicali. Nello scontro la l’eroe e il villain, quando il male incarnato muore, quando la lama affonda nella carne, il morituro è un oggetto, un’astrazione, una cosa già morta migliaia e migliaia di volte, in migliaia e migliaia di altre storie. Sul cammino destinale dell’eroe, il male è solo un ostacolo e non una matassa problematica, capace di dipanarsi lungo un cammino di annientamento trasformativo. È stato spesso sostenuto che la distinzione tra fantasy tradizionale e grimdark consiste nel realismo o, meglio, nell’“aderenza” alla realtà di quest’ultimo. Mi pare, tuttavia, che il grimdark scardini a priori tale preconcetto, mettendo in mostra l’osceno scollamento della realtà da sé stessa, lungo linee iperboliche ed eccedenti. Non vi è limite al peggio e la realtà sarà sempre in grado di oltrepassare sé stessa: è questo il principio fondamentale del grimdark.
Nel grimdark e nel dark fantasy, la crudeltà, la malvagità, l’emarginazione e la mostruosità ‒ spesso ispirati a fatti di cronaca, a eventi storici e a reportage di guerra ‒ non sono puramente accessori, né svolgono una funzione prettamente estetica, ma rappresentano l’autentico motore della trama. Il loro scopo è di spingere l’azione agli estremi, valicando ogni limite. Buona parte del processo di ideazione delle vicende ‒ e, di conseguenza, buona parte del tempo di lettura ‒ è dedicato a due semplici interrogativi, tra loro complementari: quale linea è disposto a oltrepassare, un certo personaggio? Ma anche: fin dove potrà spingersi l’orrore della realtà? A quali ingiustizie, a quali vicoli ciechi, a quali soprusi, a quali vette è in grado di giungere?

Catturato all’interno di questa escalation illimitata, il lettore non può fare a meno di farsi trascinare nella polvere e nel sangue. Il difetto del male ‒ nonché il suo principale pregio ‒ sta nell’essere estremamente contagioso. L’escapismo e lo spirito reazionario non sono problemi che affliggono unicamente il fantasy tradizionale (se davvero di “problemi” vogliamo parlare ‒ tornando, ancora una volta, a una concezione morale, utilitaristica, della scrittura).
In effetti, fuggire dalla realtà per rifugiarsi in un mondo di unicorni, principesse e valori in bianco e nero, è di gran lunga meno… inquietante, che fuggire dalla realtà per immergersi in un mondo nel quale imperversano guerre, stupri e genocidi.
Cosa induce il lettore a seguire con entusiasmo una trilogia nella quale più della metà dei personaggi, entro la fine del terzo tomo, sarà morta in modo umiliante o orripilante?
Nella vasta community dei forum online, i fan del fantasy tradizionale hanno spesso lamentato una crescita tendenziale della brutalità all’interno del grimdark. Secondo alcuni, gli autori (consapevolmente o meno) ascritti a tale corrente farebbero ormai a gara per aggiudicarsi lo spargimento di sangue più macabro e iperbolico della storia.
L’autore, critico letterario e blogger conservative, Tom Simon ha addirittura parlato di “pornografizzazione della violenza” e di “ossessione miniaturistica per il massacro”. Per Simon tale atteggiamento condurrebbe a quattro fondamentali conseguenze: la prima, quella di stuzzicare l’interesse morboso del pubblico (come dimostrerebbe il successo commerciale di Martin); la seconda, quella di educare il pubblico alla mostruosità; la terza, una paradossale derealizzazione iperrealista ‒ è davvero possibile che Westeros sia totalmente nelle mani di un’orda di psicopatici? La quarta, la creazione di una bolla speculativa che condurrà il gore all’estremo, fino a una totale desensibilizzazione del pubblico 10.
Il discorso di Simon rimanda immediatamente al gergo della pornografia, ma anche a quello della finanza, osservate attraverso la lente distorcente del conservatorismo. Sintetizzando l’argomento di Simon in poche parole, il grimdark sarebbe reo di corrompere la gioventù, erotizzando e mercatizzando la violenza.

Senza dubbio, il grimdark sfocia, non di rado, nella soddisfazione immaginaria di macabre fantasie di potere e sottomissione. Già nel classico a tinte dark La spada della verità, dell’oggettivista repubblicano Terry Goodkin, il bene sembra cadere tra le mani del male con un sordido, perverso brivido di piacere (in particolar modo nel corso di un arco narrativo nel quale il protagonista, Richard, viene catturato dalle Mord Sith, un gruppo di guerriere d’élite ammantante di pelle e dedite all’arte della tortura).
Tali tendenze, già contenute in nuce nel fantasy eroico, trovano il loro apice nell’iper-fascismo dell’Impero di Warhammer 40K, ma anche nelle singolari gioie della sofferenza messe in scena da opere molto più recenti, quali le produzioni giapponesi Goblin Slayer e Made in Abyss. Di fatto, WH4K è ormai divenuto uno dei capisaldi della cultura memetica di estrema destra; in particolare, la figura dell’irriducibile space marine, pronto a morire per la gloria dell’Imperatore, ha acquisito un notevole valore simbolico ‒ agendo come segno di riconoscimento immediato. Goblin Slayer, a sua volta, si è tramutato in uno dei principali esempi di quello che, nel gergo del fandom, viene denominato “power fantasy” (una sorta di delirio di onnipotenza, attraverso il quale sublimare il proprio fallimento esistenziale). Sebbene Made in Abyss non presenti direttamente caratteristiche di questo tipo, le violenze fisiche e psichiche in esso mostrate si accompagnano a una costante reificazione dei corpi: corpi infantili, corpi non-umani o non-più-umani e – in particolar modo nella sua versione manga – corpi femminili, costantemente ridotti alla stregua di bambole, sessualizzati e seviziati senza alcuna pietà da un habitat estremo ‒ con effetti radicalmente perturbanti.
Sorprendentemente, tale sublimazione assume tinte particolarmente morbose nel fantasy di matrice classica: la reificazione e l’animalizzazione dei personaggi malvagi, traslata in un contesto più dark, più violento e sanguinario, fa sì che tale approccio narrativo rientri a pieno all’intero di una norma sacrificale. Il goblin, la prole del caos, il traditore e l’orco sono i sacrificabili per eccellenza, coloro la cui vita conta niente o meno di niente. Nulla più che corpi brutalizzabili.
Se nel fantasy tradizionale, l’eliminazione fisica del nemico non è che un dettaglio, più o meno importante, e la tortura uno scomodo inconveniente, da liquidare con una serie di rapide immagini, nel grimdark tali elementi narrativi saturano la pagina e lo schermo, impiegando i corpi come uno spazio di godimento perverso.
Si tratta di un modello affine a quello elaborato dal marchese De Sade 11, attraverso il quale la scrittura si fa crimine, esondando a ogni pagina i limiti imposti non solo dalla morale ma persino dalla legge. Da Sade al grimdark, tuttavia, tale eccedenza si fa a sua volta legge: la violenza, l’omicidio e il sopruso vengono naturalizzati, andando a costituire il fondamento dell’esistenza umana o della vita stessa. Il male si fa principio, ponendo il lettore dinanzi agli aspetti più radicalmente problematici della realtà e della psiche umana.
Qui, la sublimazione dei desideri repressi giunge ai limiti del disgusto, della nausea e dello stordimento, senza perciò perdere una fondamentale componente estetica.

L’idea di Simon, secondo la quale un’opera letteraria sarebbe in grado di corrompere i propri lettori, è antica quanto la stessa civiltà occidentale. Già Platone, nello Ione, condannò la poesia in quanto arte della possessione e della seduzione, in grado di stornare l’ascoltatore dal pieno dominio sulle proprie facoltà razionali. La proibizione di testi messi all’indice è senz’altro un altro esempio di rilievo, così come l’incarcerazione e la detenzione manicomiale dello stesso De Sade, reo di aver prodotto letteratura degenerata. Persino l’anonimato e lo pseudonimato dei filosofi libertini del ‘600, rappresenta, di fatto, un’ennesima testimonianza del potere della parola scritta 12.
Si tratta di un’ipotesi di gran lunga più interessante della ben più diffusa linea argomentativa psicologista, secondo la quale le opere “violente” aiuterebbero i lettori a esaminare con più assennatezza dilemmi morali e problematiche etiche 13. Dopotutto, per credere che un’opera sia in grado di produrre emozioni e processi cognitivi, così potenti e intensi da mutare la personalità di chi ne fruisce, è semplicemente necessario aver letto, ascoltato o osservato un’opera ben fatta ‒ in parole povere, “bella”, persino al culmine dell’orrore, della perversione e della bruttezza.
Il male, proprio come nel folklore tradizionale, appare fin dal primo istante dotato di facoltà fascinatorie attraverso le quali sedurrebbe le proprie vittime, distogliendole dalla retta via.
Nella Quaestio disputata de malo, ad esempio, Tommaso d’Aquino mostra come il male sia incapace di operare per via diretta, andando a isolare i due poteri fondamentali delle entità malefiche: la capacità di agire dall’esterno, sfruttando determinati oggetti del desiderio, e quella di agire dall’interno, producendo volizioni aliene all’individuo 14. Si tratta, a ben vedere, di una vera e propria opera di seduzione, per mezzo della quale i demoni trascinano le loro vittime verso le tenebre spirituali. È proprio per mezzo di tali facoltà indirette che il male ‒ essendo privo degli identici mezzi, e delle forze in possesso al proprio avversario ‒ sfida l’ordine costituito, alimentando, al contempo, la propria inestinguibile fiamma.
L’idea che un libro possa essere in grado di agire come un demone, di condurre il lettore lontano, verso una dimensione aliena, un imperscrutabile altro-da-sé, è estremamente affascinante.

La carne e il sangue del grimdark sono costituiti dalla violenza, dalla morte, dal caos, dalla sventura, dalla mostruosità, dalla follia, dall’inganno e dal tradimento. Questi operatori oscuri traghettano tale tendenza all’interno di opere appartenenti ai generi e sottogeneri più disparati: dalla space opera all’heroic fantasy, dal post-apocalittico all’horror. Non di rado, di fatto, capita di ritrovarsi dinanzi a produzioni di carattere ibrido e di difficile classificazione. Gli esempi di questo genere sono numerosi: l’orrore cosmico di Lovecraft; gli interessi economici e politici che dilaniano i mondi di Howard; la perversa follia che giace al cuore di un’opera di carattere prettamente filosofico, Il processo di Gilles de Rais, di Bataille; la casta onnipotente dei Meth in Altered Carbon, di Morgan; i venti di guerra e gli oscuri anfratti cosmici dell’Ombra dello scorpione e della saga della Torre nera, di King. Persino un classico della letteratura contemporanea quale The Road, di McCarthy, manifesta alcuni dei tipici elementi del grimdark ‒ il cannibalismo, le bande di predoni nomadi e un’inquietante, spettacolare, processione di schiavisti neo-tribali.
Negli ultimi decenni, il fantasy ha tentato di incorporare caratteri, metodologie e stilemi mutuati dal postmodernismo, dall’esistenzialismo e, più in generale, dalla letteratura “alta”. Nondimeno, l’origine ‒ l’essenza radicale ‒ del genere continua a pulsare, ad agitarsi irrequieta, al fondo di ogni narrazione. Lo scontro, la lotta, la guerra che spazza e sconvolge l’intero universo trasuda dalla pagine maledette di un grosso romanzo acquistato a una bancarella, o rinvenuto su una panchina.
Spogliato di ogni connotazione di natura morale, de-nobilitato di ogni pseudo-aderenza fotografica al mondo reale, il grimdark rivela la propria sostanza: più reale del reale, un ammasso nero, negativo, capace di sintetizzare e condensare il male ‒ della vita, dell’esistenza, della natura, del mondo, dell’universo.
Avanzare, analizzare, sopravvivere, uccidere e, infine, morire ‒ attraverso un tetro, imperscrutabile labirinto, in continua espansione.

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Note:

1) G. Bataille, La letteratura e il male, SE, Milano 1957. Tra gli autori presi in esame da Bataille vi sono, tra gli altri, Kafka, Baudelaire, Sade e Blake.

2) M. Moorcock, “Epic Pooh”, 1978, in Wizardry and Wild Romance: A Study of Epic Fantasy, MonkeyBrain, Austin 2004. Gratuitamente disponibile, in una delle sue versioni più datate al seguente indirizzo: https://warwick.ac.uk/fac/arts/english/currentstudents/undergraduate/modules/en361fantastika/bibliography/2.7moorcock_m.1978epic_pooh.pdf

3) Ma anche per China Mieville, si veda il seguente link: https://web.archive.org/web/20021107084748/http://www.panmacmillan.com:80/features/china/debate.htm

4) E. Tabler, R.K. Morgan, “An Interview with Richard K. Morgan”, “Grimdark Magazine”, 2 ottobre 2020: https://www.grimdarkmagazine.com/an-interview-with-richard-k-morgan/

5) A.A.V., Evil is a Matter of Perspective, Adrian Collins (a cura di), Grimdark Magazine, Sidney 2017.

6) C. Mieville, ibidem.

7) G. Bataille, Su Nietzsche, Se, Milano 2006, p. 21.

8) Ivi, p. 24.

9) S. Spielrein, “La distruzione come causa della nascita”, in Comprensione della schizofrenia e altri scritti, Luguori, Napoli 1986.

10) T. Simon, “A song of gore and slaughter”, Bondwine Books, 28 gennaio 2013: http://bondwine.com/2013/01/28/a-song-of-gore-and-slaughter/

11) Si veda, tra tutti, D.A.F. De Sade, La filosofia nel boudoir.

12) Cfr. M. Onfray, L’età dei libertini. Controstoria della filosofia, Vol. III, Fazi, Roma 2009.

13) Una panoramica sulle diverse posizioni in gioco può essere ottenuta, ancora una volta, tra le pagine di “Grimdark Magazine”; si veda: M. Cropley, “Barbarians or philosophers? What psychology has to say about grimdark fans and their dark obsession”, “Grimdark Magazine”, 3 maggio 2018: https://www.grimdarkmagazine.com/barbarians-or-philosophers/

14) Si veda Tommaso d’Aquino, Il male, Bompiani, Milano 2001.

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Immagine di copertina:
Albrecht Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, 1513, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe