«Insistere sulla dimensione storica non consiste nell’andare semplicemente a cercare nel passato ciò che può rendere conto dell’identità presente di un gruppo. Un tale tentativo rischia di chiudere le culture in un rigido particolarismo e di rafforzare la dimensione passatista dell’etnologia classica. La storia, al contrario, deve apparire come il quadro in cui si è dispiegata e sempre si dispiega la dinamica dello scambio fra i due livelli del locale e del globale, del particolare e del generale, della tradizione e della modernità, del passato e del presente.»

(Mondher Kilani, Antropologia. Dal locale al globale; p. 313)

 

Alla parola Brasile il pensiero scivola, quasi divertito, accarezzando il verde intenso della foresta Amazzonica, il profumo del legno umido, le distese di sabbia e mare, il ritmo incalzante e i colori dirompenti del Carnevale. Poi, tra il chiasso delle risate e l’allegria i bambini che rincorrono un pallone, ci ritroviamo nelle Favelas a contatto con quella povertà disarmante che sconfina nell’indigenza, con una criminalità e una corruzione che ci indurrebbero a chiudere gli occhi, rimanere immobili e trattenere il fiato quando fino ad un momento prima saremmo stati pronti a celebrare la vita cantando e ballando.
Già nell’immaginario emerge un popolo e un paese che affondano le proprie radici nella mescolanza, in una pluralità che prende forma dall’incontro di vissuti e di dimensioni tanto differenti. Chiunque abbia fatto esperienza del Brasile riconosce la magia di queste incongruenze che si fondono generando un tessuto sociale eterogeneo e unico, che fa dell’alterità ricchezza e risorsa proprio perché endogena. É nel con/tenere, tenere con sé accogliendo questa Alterità quasi paradigmatica, che il Brasile rivela una realtà così composita da diventare una coexistentia oppositorum, facendosi grembo della complessità. Ne nasce una cultura dell’incontro che vede l’ontologia degli Indios inglobare quella europea in un atto d’amore che si manifesta con l’attività antropofagica. Un’Antropofagia che unisce socialmente, economicamente e filosoficamente, unica legge del mondo contro individualismi e collettivismi – come la dipingerà Oswald De Andrade nel suo Manifesto Antropófago (1928).
“Cosa ci può insegnare il Brasile”, quindi?
Questa domanda, che dà il titolo a un intervento di Mario Galzigna su Pol.it del 2012, è stata anche apertura, fulcro e chiusura della riflessione tracciata da Pietro Barbetta il 9 Febbraio, durante il secondo Seminario Permanente del Gruppo BDF, quest’anno dedicato, appunto, alla memoria di Mario Galzigna. Come sottolineato nel video, il Brasile, nutrito di questa poliedricità caleidoscopica, ha creato le condizioni per dare quell’ampio respiro culturale all’intellettualità di figure come Darcy Ribeiro – impossibile da collocare all’interno di un alveo, ma paradigmaticamente molteplice nel suo essere tante cose: antropologo, politico, romanziere, esperto di educazione e molto altro ancora. Riprendendo le parole di Mario Galzigna, l’intellettuale brasiliano si allontana dall’essere uno specialista ma sa essere profondo in ogni disciplina di cui si occupa quanto può esserlo un bravo specialista, non limitato e aperto anche alle altre discipline e agli altri specialismi. Agevolato dagli studi su Foucault, Deleuze e Guattari che hanno difeso la pluralità lungo tutta la loro esperienza intellettuale, ecco, allora, il collocarsi agevole di una figura come quella del nostro eclettico pensatore all’interno della società Brasiliana. Una società del pluralismo, in cui la molteplicità acquista una dimensione concreta, tangibile e reale. Un contesto culturale dove lo spaziare da un sapere all’altro abbatte frontiere e genera soglie osmotiche di contaminazione grazie alle quali l’immaginario si fa strada nell’impresa scientifica, esplorando profondità e abbracciando orizzonti altri.
Ma allora che cosa intendiamo noi con “Derive dell’invarianza e metissage culturale”? Ebbene, benché Mario dica che «il metissage è la cifra del nostro destino» (Mario Galzigna) 1, purtroppo non è (ancora) la cifra della nostra società e culturalità, che con tutta sé stessa desidera ardentemente repellere tale fato e rifugiarsi in una distinta individualità. Dove sussiste l’invarianza, allora ci troviamo di fronte a una ripetizione senza differenza, una in/differenziazione non data da una molteplicità condivisa, bensì da una reiterazione dell’univocità invariante. Nel vivere la modernità occidentale non si ricerca l’ibridazione, anzi. Si vive anche la propria professione come una località collocata da cui non ci si allontana, in un certo senso terra natìa e al contempo “prigione dorata”, e in cui restare e solidificarsi. Tuttavia, citando un passaggio particolarmente interessante di Mente e natura, «se ciò che importa è la pura sopravvivenza, la pura persistenza, allora le rocce di tipo più duro, come il granito, devono essere messe ai primi posti in un elenco delle entità macroscopiche di maggior successo» (Bateson, 1984; p. 140). Nonostante questa arguta provocazione, è indispensabile – e, forse, non poi così intuitivo come appare – considerare che «il modo in cui la roccia partecipa al gioco è diverso da quello delle cose viventi» (Ibid.). La “cosa vivente” non può restare immutabile e immutata, resistere al cambiamento senza modificarsi. Essa può solamente tentare di sottrarsi al cambiamento attraverso modificazioni che gli consentono di adattarsi. In ciò, rincorre una “stabilità” improvvida e non durevole: «la natura evita (temporaneamente) ciò che appare un cambiamento irreversibile accettando un cambiamento effimero» (Bateson, op. cit.).

L’iperspecializzazione, in quest’ottica, si colloca come una nazionalità da esercitare specificamente, da vivere come una località a cui appartenere; l’“intellettuale dissidente”, a questo proposito, si può collocare come una figura che volentieri si Ibrida verso altre discipline, anche distanti da sé e dalla propria epistemologia di appartenenza – se così vogliamo chiamarla. In questo senso, dovremmo anche noi “riaprire il tempo” – per citare una suggestiva immagine nel sottotitolo di Rivolte del pensiero di Mario Galzigna – per riappropriarci dell’imprescindibile possibilità di contaminazione. Potremmo anche considerare l’iperspecializzazione come un “meccanismo di difesa”, una risposta antagonista alla pressione delle domande che, intrinsecamente e paradigmaticamente, non hanno risposta – o perlomeno, non ne hanno una univoca. E questa rincorsa solipsistica, destinata a non esaurirsi mai (in quanto priva di un criterio ermeneutico) paradossalmente ci allontana dall’oggetto di interesse, ovvero la disciplina e il suo rapporto con il Mondo. A noi sorge quindi il dubbio che il tema non risieda tanto nel cercare delle risposte, quanto nel sostare all’interno delle domande, nell’approfondire e aumentare le domande disponibili. Così facendo, aumentare il numero di possibilità e di scelte, ma anche coltivare quell’«arte di ascoltare e Mondi possibili» che ci consente di «uscire dalle cornici di cui siamo parte» (come direbbe Marianella Sclavi, 2000).

Forse, cercando anche noi in maniera genealogica, potrebbe essere che l’origine di questo fraintendimento – o, se vogliamo così chiamarla, di questa inversione equivoca – risiede nella diatriba che sussiste tra particolarità e particolarismo. Soffermarsi su questa dinamica, per quanto per taluni possa essere una finezza puramente semantica, racchiude forse una possibile chiave di lettura. Possiamo in qualche modo valutare la particolarità come il libero esercizio dell’individualità, nonché come svincolata espressione della specificità, elemento squisitamente idiografico – e, appunto per questo, prezioso per la caratterizzazione. È poi, sempre nella nostra modesta visione, possibile considerare all’opposto i rischi dell’eccessiva attenzione al particolare come azione disgregatrice, che si concentra e diventa un locale quasi invischiante e incatenante, che impedisce allo sguardo di allontanarsi dal vicino per spingersi verso l’Oltre. La particolarità se vogliamo ha a che vedere con l’emergenza di ciò che, tutt’altro che banale, spicca proprio per la sua non-banalità, per la sua infrequenza. Il particolarismo, invece, caratterizza ciò che vuol rendere un tratto distintivo (e, in potenza, emergente) un tratto univoco, donandogli quella predominanza che senza dubbio lo impoverisce e – negando la differenza – in atto lo livella ed omologa. In ciò, non si vuole affatto negare la preziosità del mantenere uno sguardo prospettico ben radicato, foss’anche professionalmente “radicato”; ma ciò mostra carattere di risorsa solo ed esclusivamente quando non si frappone tra noi e la nostra possibilità di sondare l’Esterno, ovverosia quando funge da ponte di collegamento e non da finis, da termine ultimo.

In conclusione di questo ragionamento, non c’è un sunto sulla questione della dissidenza come viatico all’intellettualismo, né la volontà di offrirlo. C’è però la volontà di meditare circa quale posizione è possibile assumere in questo specifico contesto culturale e storico. Difatti, nonostante le riflessioni avanzate sia nel corso della serata che in questo umile contributo, resta il problema di dove collocarsi, quali sfide si pongono oggi, nonché (ultimo ma non meno importante) quali possibilità concrete si hanno di esercitare questo eclettismo, sia esso “naturale” o “dissidente”. Nella nostra prospettiva, risibili sono le possibilità di ascoltare, ancor più risibili quelle di diventare voci che richiamino alla poliedricità – soprattutto in questo momento storico che potremmo definire di contrazione: contrazione dei tempi, contrazione degli spazi, contrazione dei contenuti. I libri letti si riducono, aumentano articoli (meglio se brevi e sintetici), le piattaforme social si avviano sempre più alla predominanza di contenuti multimediali e senza scritte; pure le riproduzioni audio/video si accorciano sensibilmente (dai film alle serie TV, dai video su piattaforme estese a spezzoni musicati della durata di pochi secondi). E mentre tutto si irrigidisce, si accorcia e si stringe, il Sé allargato che la rete comporta ci tiene tutti irrimediabilmente connessi ed esposti in una dimensione di anonimato che altera lo stato di coscienza e dissuade dal posizionamento e dalla presa di responsabilità. Essere dissidente significa, allora, “esserci” assumendo una posizione critica, anche nei confronti delle proprie griglie di lettura. Noi pensiamo che la figura dell’intellettuale poliedrico – vogliamo chiamarlo esteso? – debba seriamente considerare il suo essere immerso in una società in continua contrazione ed esposizione, volto ad evitare che questa tensione tra forze opposte porti all’annullamento.

Probabilmente la speranza che rimane è cercare di tenere vive quelle iridi multicolori che sono stati i pensatori e gli intellettuali che ci hanno preceduto, cercando di conservare in noi quella grande luce. Certamente i tempi cambiano, e non possiamo perpetuare lo Zeitgeist di altri momenti storici, foss’anche solamente il decennio scorso. Come sistemi complessi forgiati dalla contingenza, tra vincoli e possibilità, emergiamo come sintesi di intrecci unici. L’universo del possibile si rigenera in noi in modo discontinuo, imprevedibile e resiliente (Ceruti, 2015). Anche in questo consisterà quello che, all’inizio di questo contributo, abbiamo rievocato come coexistentia oppositorum; non solo nella dimensione puramente filosofica, ma anche nella dimensione più fattuale della figura dell’intellettuale. Intellettuale che, proprio come quel “Prothée estrange” citato da Claudio Sensi nei suoi Emblemi dell’inconsistenza (1982), muta forma e si adatta, nel tempo e nelle discipline, a ciò che accade nel Mondo. È respirando con esso e lasciandosi nutrire da contraddizioni e paradossi che l’intellettuale contemporaneo mette in dialogo il teatro interno con quello esterno per essere allo stesso tempo incarnato, incorporato ed esteso. Emblema di quel Metissage tanto auspicato dal nostro visionario, poliedrico e dissidente Mario Galzigna.

Bibliografia

Bateson, G. (1984). Mente e natura. Adelphi, Milano.
Ceruti, M. (2015). La fine dell’onniscienza. STUDIUM, Roma.
Kilani, M. (2011). Antropologia. Dal locale al globale. Dedalo Edizioni, Bari.
Sclavi, M. (2000). Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Bruno Mondadori, Milano.
Sensi, C. (1982). Gli emblemi dell’inconsistenza e l’«arcimondo» della fantasia. In Lettere Italiane, 34:2, Leo Olschki, Verona.

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Note:

1) Passaggio presente nel video citato.

 

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Immagine di copertina:
Sabrina Manfredi, Coexistence, 2021