[Riproponiamo un pezzo di archivio del primo Ibridamenti, apparso il 15 gennaio 2012, nato in seguito alla presentazione veneziana dell’edizione integrale della “Storia della follia nell’età classica” di Michel Foucault curata da Mario Galzigna].

Mercoledì 5 ottobre 2011, a Ca’ Dolfin, nella splendida cornice dell’Aula Magna dell’Università veneziana di Ca’ Foscari, si è tenuta la presentazione della nuova edizione integrale del libro di Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, introdotta e curata da Mario Galzigna per Rizzoli/BUR. Il volume è stato presentato dal curatore, docente di Etnopsichiatria e Psichiatria clinica a Ca’ Foscari, da Umberto Margiotta, docente di Pedagogia a Cà Foscari e dallo psicoterapeuta Pietro Barbetta, docente di Psicologia dinamica presso l’Università di Bergamo. L’opera è arricchita da una densa introduzione di Mario Galzigna, che è stata al centro, assieme ai contenuti più innovativi dell’opera e del pensiero foucaltiani, dell’animata discussione che ha avuto luogo in un’Aula Magna molto affollata.

L’opera, come è noto, ha subito importanti modifiche – apportate dallo stesso Foucault – tra la prima e la seconda edizione, rispettivamente del 1961 e del 1972. Oltre a riproporre «molti passaggi omessi nella prima traduzione italiana del 1963», e in particolare il primo capitolo della parte terza e la terza sezione del terzo capitolo della parte seconda, Mario Galzigna reinserisce qui la prefazione originale, cosa che probabilmente costituisce la principale delle modifiche apportate. Questa diventa quindi la prima edizione integrale del testo foucaultiano, ora finalmente rapportabile, senza cesure, alle diverse anime del pensatore francese. Al lettore è permesso di comprendere in dettaglio la sinergia tra l’approccio medico-clinico e quello letterario-filosofico circa la questione essenziale del libro: ovvero la nascita della follia reclusa e dell’istituzione manicomiale.

Fra le varie problematiche suscitate dalla presentazione, sono stati messi a fuoco alcuni interrogativi a proposito del rapporto che il testo foucaultiano instaura con il discorso della follia, raffrontato con l’esperienza clinica del manicomio. Se da un lato vi è una follia letteraria, laddove la letteratura si identifica con il discorso, dall’altro lato vi è una follia clinica, che viene interpretata, lacanianamente, attraverso l’analisi del linguaggio. Costruzione discorsiva, quindi, contro autenticità inverata dal linguaggio.

Riproponendo questa distinzione, si è fatto riferimento, nella discussione, alle presunte “fonti” dell’Histoire de la folie, trattate come oggetti di studio a sé stanti e perciò separate dal testo foucaultiano del 1961 che le avrebbe utilizzate. Questa concezione della fonte poggia su una resistenza a concepirla come materiale di riflessione, come strumentazione a partire dalla quale si genera un quid novum ed emergono pensieri altri, irriducibili alle forme e ai contenuti della fonte medesima. Il testo di Foucault, in tal modo, perde la sua specificità, la sua singolarità, e viene ridotto alle sue presunte fonti: viene su di esse appiattito e impoverito. Poiché Foucault in questo contesto si esprime come autore, prima che come storico, filosofo o clinico, è allora necessario riferirsi a una poetica del testo foucaultiano, intendendolo esplicitamente come testo letterario.

Esiste in effetti quella che vorrei chiamare una poetica delle fonti. È facile trovare in letteratura esempi illustri in cui versi o brani di autori antichi o coevi allo scrivente sono utilizzati come humus favorevole alla fioritura di un pensiero originale: come rampa di lancio, se così si può dire, di una costruzione che costituisce il cuore di una riflessione individuale e personale.

Utilizzare una fonte in letteratura non significa esclusivamente citarne i contorni precisi e fornirne gli estremi editoriali, pratica che appartiene alla saggistica e non alla narrazione in senso più ampio. Ridurre gli scritti di Foucault a pura saggistica significa forse non averne colto la natura profondamente letteraria: cioè quella che comunemente si suole chiamare la bellezza del testo. Un testo la cui utilità nella decodifica della casistica clinica è di grande supporto; il cui valore nell’ambito della critica alle pratiche di desoggetivizzazione operate dal potere è indispensabile; la cui natura di testo letterario è tuttavia altrettanto irrinunciabile.

È così che un verso di Yves Bonnefoy dissimulato fra le righe foucaultiane diviene l’emblema dell’ineffabile, dell’indicibile, ciò che nella letteratura medievale viene affermato per via negativa, sul modello di quella teologia apofatica con cui lo Pseudo-Dionigi parlava di Dio attraverso la sua negazione. Cos’è quello che non si può dire se non ciò che prende la forma dell’assenza: del deserto, della notte; quindi della privazione che è alla radice della follia, laddove la sublimazione del desiderio si fa cassa di risonanza delle nevrosi che lo producono? Nella letteratura clinica, la follia desiderante identificata con la patologia, inquadrata in uno schema curativo e di conseguenza normativo, non può che essere descritta con il procedimento inverso rispetto alla poesia, cioè con un linguaggio analitico. Ecco quindi che entra in scena il linguaggio, ovvero da un lato, per i clinici, l’esteriorizzazione decodificabile del disagio psichico; dall’altro lato il dispiegarsi dell’essenza stessa del disagio attraverso le forme più varie, fra cui quella della poesia, ovvero quel prodotto della mente umana che si nutre di allusione, e quindi di assenza.

I linguaggi della prosa letteraria e della poesia si possono certamente distanziare, tanto da isolare una parte della letteratura e intenderla come operazione discorsiva che esercita effettivamente un controllo sull’aleatorietà della parola attraverso procedure di esclusione. Tuttavia – mi chiedo – è possibile affermare che questa mutilazione appartiene a ogni discorso letterario, e che non si possa escludere da esso per esempio la poesia, laddove a procedure discorsive di esclusione si ripara con l’allusione? Il discorso della ragione non è necessariamente il discorso di tutta la letteratura, specie laddove essa non può davvero veicolare una partizione della follia dalla ragione, compreso perfino un certo romanzo borghese più maturo, in cui la follia è fatta emergere con modalità allusive.

Una poetica fondata sul registro connotativo spalanca significati che palesano la natura più intima di ciò che in letteratura clinica si riduce a patologia. L’adozione di questo registro espressivo da parte di Foucault, più vicino al linguaggio della poesia che della prosa saggistica, fonda quella che si può definire una sua poetica dell’allusione, come soluzione al discorso mutilato, e attraverso cui è lo stesso autore ad impadronirsi di quel potere cui il registro saggistico preclude l’accesso.

Se, seguendo Foucault, il discorso letterario non è semplicemente ciò che manifesta o nasconde il desiderio, la parola poetica può essere intesa come desiderio sublimato: come unica via di fuga da quel quadrato normativo che regge l’ordine e la decenza, capisaldi della società irreggimentata, all’interno della quale non è data psicosi che non sia contenibile.

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Immagine di copertina:
Martine Franck, Michel Foucault and Cat, Paris, 1978 (particolare)