[Riproponiamo un capitolo tratto da “Non fate i bravi”, e-book a cura di Claudia Boscolo uscito nel 2014 su Pol.it].

Moritz Schreber Mentore di tata Lucia

Non è serio scrivere di cose che non si conoscono. Non ho la televisione, non la guardo da decenni. Ho saputo qualche mese fa per caso dell’esistenza di tata Lucia, avendo visto una decina di minuti del suo programma a casa dei nipoti. Il format è, come tante altre merci tossiche, importato dagli Stati Uniti. Una tata raddrizza una famiglia disfunzionale in pochi semplici passi. Intervento rigorosamente behaviorista: analisi comportamentale e suggerimenti strategici, di volta in volta col bastone o la carota. Fuori luogo quindi ogni scrupolo di serietà, dieci minuti bastano per intendere il necessario. Di seguito proveremo a individuare alcune delle tracce culturali che fanno da sfondo alle tate televisive, imbarazzanti epigoni mediatici di quanto di peggio si è pensato per imporre ordine e disciplina al mondo.
A inaugurare la storia del comportamentismo è stata la salivazione indotta dei cani di Pavlov, e foche e cani e delfini vengono ammaestrati secondo i principi elementari che ne sostanziano gli interventi: premio e punizione. John Watson è il padre del behaviorism americano, un suo esperimento famoso ha dimostrato come in effetti la scienza del comportamento possa condizionare le reazioni delle persone. Al piccolo Albert vennero mostrati alcuni animali e oggetti, un cane, un topolino, un coniglietto, una scimmia, poi cotone, giornali infuocati, maschere con o senza capelli. Lui si avvicinava fiducioso alle cose mostrategli. L’idea era di generare una fobia in un bambino stabile, come riprova dell’efficacia del condizionamento. Alla vista del topino veniva quindi associato il rumore fragoroso di un martello su un tubo, cosa che naturalmente fece spaventare il piccolo Albert, che a seguire, alla sola vista del topino, si metteva a piangere a dirotto. L’osservazione scientifica, oltre che la verifica empirica della veridicità dei propri assunti, ebbe dall’esperimento accesso al fenomeno psicologico della generalizzazione, per cui non solo la vista del topino innescava la crisi fobica, ma anche quella di qualunque cosa lo evocasse, un cane peloso, una pelle di foca, la barba di una maschera di Babbo Natale, e financo il ciuffo bianco di Watson stesso. In effetti ciò che l’esperimento dimostra è che un intervento comportamentale può essere iatrogeno.
La storia del comportamentismo si trascina fino a oggi articolando in modo sempre più complesso e macchinoso i suoi principi elementari e riduzionisti, ma esattamente in ragione dei suoi limiti oggettivi ha continuato con successo a far proseliti. Mi occupo di autismo, tra le metodiche di intervento è in corso da tempo una guerra senza esclusione di colpi che vede sui due fronti opposti i professionisti di formazione psicoanalitica e quelli comportamentisti e cognitivo-comportamentali. Se gli psicoanalisti sull’autismo hanno saputo dare il peggio di sé (quantomeno la ego-psychology, famigerato e paradigmatico il libro di Bruno Bettelheim La fortezza vuota), i comportamentisti non sono stati da meno. A Ivar Lovaas, la cui prima pubblicazione trattava della somministrazione di terapia elettroconvulsivante a due gemelli autistici, si deve la codificazione dell’intervento comportamentale per l’autismo, noto come analisi comportamentale applicata, che si sostanzia in interventi intensivi (lo slogan è “precoce e intensivo”), fino a quaranta ore la settimana di interazione individuale con un operatore. La fortuna del metodo procede dall’essere strutturato sulle aspettative dei genitori (pretesa “scientificità” della “cura”, vantati esiti miracolistici, presa in carico del figlio per tempi lunghi, liberando così del tempo di vita), che investono tantissimo, in speranza e soldi, dando credito a quanto millantato dai suoi promotori. Invero ho conosciuto persone umanamente eccellenti formate alle metodiche comportamentiste e cognitivo-comportamentali, e i metodi valgono per lo più quanto chi li utilizza, non di meno, dovrebbe sollevare qualche questione etica il fatto che pratiche stigmatizzate in quanto alienanti per un bimbo normale vengano promosse spensieratamente per interventi su bimbi problematici.
A monte delle teletate c’è poi senz’altro lo strumento principe della normalizzazione nel frenocomio ottocentesco, il metodo morale. Sappiamo da Michel Foucault, Gladys Swain, Robert Castel e Jan Goldstein come la rivoluzione avviata da Pinel alla fine del diciottesimo secolo si appoggiasse a due premesse cardine, la natura sempre parziale della follia (presupposto della sua curabilità, attraverso l’appello a quanto di razionale residua nel malato) e il metodo morale appunto, inteso come tecnica dialogica finalizzata a far rinsavire il folle. Abbozzato da Pinel, sviluppato da Esquirol e codificato da François Leuret nel suo testo del 1840, Du traitement moral de la folie, in quegli stessi anni il metodo morale diviene una risorsa pedagogica nel lavoro pionieristico di Eduard Séguin, padre della pedagogia speciale, insignito del titolo di “apostolo degli idioti”. Séguin, allievo di Itard ed Esquirol, ritiene che la prima cosa che un educatore debba fare sia catturare lo sguardo del bambino. Nel suo testo del 1846, Traitement moral, hygiène et éducation des idiots et des autres enfants arriérés, la chiave del successo nella relazione educativa passa dalla conquista dello sguardo distratto dei piccoli “idioti”, e nello sguardo del Maestro (psichiatra, tata) è inscritta una gerarchia, è lo sguardo di Dio. Il successo del programma di tata Lucia mi costringe a riconoscerle un’attitudine notevole a catturare lo sguardo degli idioti.
C’è un’altra matrice del tatapensiero, nella sua dimensione ortogenetica, correttiva, normalizzante, ed è la black pedagogy ottocentesca, il cui alfiere è stato Daniel Gottlob Moritz Schreber, medico, docente universitario, ortopedagogista. Autore di best seller dell’epoca, tradotti in molte lingue. La sua ossessione era la salute fisica della gioventù, era il tempo delle teorie sulla degenerazione, il suo libro più famoso è sulla ginnastica casalinga, altri si occupano specificamente delle modalità educative e correttive. Un’attenzione particolare era riservata da Schreber alle modalità per prevenire nei giovinetti il ricorso alla masturbazione, al tempo considerata psicogena. I suoi libri promuovono curiosi strumenti meccanici per mantenere dritte gambe, schiene e spalle durante la lettura. Più famoso è al giorno d’oggi il meraviglioso libro di suo figlio, Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi. Morton Schatzman raccorda in Soul murder (in italiano: La famiglia che uccide, per cui il presente articoletto ha rischiato di chiamarsi La tata che uccide) le teorie educative del padre alla condizione del figlio, presidente di corte d’appello d’un tratto piombato in una psicosi paranoica. Altro ideologo del “fate i bravi” è il dottor Heinrich Hoffmann, insigne psichiatra e letterato, maestro di Alois Alzheimer, autore di un libro per bambini il cui eroe è Der Struwwelpeter, Pierino porcospino, in cui a immagini semplici corrispondono strofe in rima baciata, tanto graziose quanto agghiaccianti.

Sieh einmal, hier steht er,
Pfui! der Struwwelpeter!
An den Händen beiden
Ließ er sich nicht schneiden
Seine Nägel fast ein Jahr;
Kämmen ließ er nicht sein Haar.
Pfui! ruft da ein jeder:
Garstger Struwwelpeter!

Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcospino.
Egli ha l’unghie smisurate
Che non furon mai tagliate;
I capelli sulla testa
Gli han formata una foresta
Densa, sporca, puzzolente.
Dice a lui tutta la gente:
“Oh, che schifo quel bambino!
È Pierino il Porcopsino”.

Heinrich Hoffmann, Der Struwwelpeter - copertina
Un’ultima divagazione sulla proposta teorica di tata Lucia, il metodo “fate i bravi”. Senza scomodare Carl Abel e Sigmund Freud sui significati opposti delle parole originarie, “bravo” nelle lingue europee è un termine sovraccarico, ne sono rimasti sensi che l’italiano ha perduto, ad esempio, selvaggio è una delle valenze in francese, mentre il Diccionario de la Real Academia così definisce “bravo” in spagnolo:(Del lat. pravus, malo, inculto).
1. adj. valiente (esforzado).
2. adj. Bueno, excelente.
3. adj. Dicho de un animal: Fiero o feroz.
4. adj. Dicho del mar: Alborotado, embravecido.
5. adj. Áspero, inculto, fragoso.
6. adj. Enojado, enfadado, violento.
7. adj. coloq. De genio áspero.
8. adj. coloq. Suntuoso, magnífico, soberbio.
9. adj. coloq. desus. valentón.
10. m. germ. juez.“Fate i bravi!” “Ecco, io faccio il Nibbio e te il Griso, guarda, arriva lo Sparafucile, digli di tirare una scarabinata in testa a quella stronza della tata!”

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Immagine di copertina:
Sabrina Manfredi, Uncanny, 1993 (particolare)