[Mercoledì 12 gennaio 2021 si è svolto il primo incontro del Collettivo Guaranì, nato con l’intento di raccogliere l’eredità del gruppo “Bateson Deleuze Foucault” a cura di Pietro Barbetta, dedicato alla memoria di Mario Galzigna. Pubblichiamo la relazione di questo primo appuntamento: sono intervenuti (nell’ordine) Claudia Boscolo, Laura Liberale, Gerardo Favaretto, Enrico Valtellina, Pietro Barbetta, Egidio Priani, Andrée Bella, Roberto Plevano, Matteo Galzigna. La registrazione integrale dell’incontro si può vedere sul canale YouTube del seminario Bateson Deleuze Foucault].

«Le manifestazioni della follia mi hanno sempre attratto e incuriosito. In alcuni casi, non esito a riconoscerlo, mi hanno personalmente coinvolto. Già durante gli anni universitari, tuttavia, i miei coinvolgimenti si sono frequentemente coniugati con una curiosità analitica, con una volontà di sapere e di capire, e quindi con un desiderio di trasformare le urgenze del vissuto e i sussulti dell’esperienza in oggetto di analisi e di ricerca» (Mario Galzigna, Il mondo nella mente, p. 17).

Come la follia, anche il lutto ha la triste caratteristica di «interrompe[re] l’opera, “apr[ir]e un vuoto, un tempo di silenzio, una domanda senza risposta”». E questa interruzione ha anche il cupo potere di impedire a chi resta di conoscere e incontrare, di condividere e sentire. E proprio come la siepe che «il guardo esclude», invalicabile, essa impedisce a noi che restiamo di poter raggiungere coloro che, nell’“infinito Oltre”, sono già. Allora come ricostruire allo sguardo di chi verrà questa figura così eclettica che non può essere ricondotta a una forma o a una categoria, ma a una pluralità di saperi che si intersecano caleidoscopicamente e che ci rimandano una dimensione di lui diversa ad ogni possibile osservazione?

L’unica risposta giace nella memoria, che in ciascuno di noi raccoglie, restituisce e dipinge immagini sempre uniche e sempre diverse di quello stesso soggetto, osservatore tra gli osservatori, osservato tra gli osservati. Quando si parla di memoria, si entra in una tra le più complesse dimensioni dell’umano. Memoria è ricordo, è esperienza, è emozione. Essa rende vivo chi resta e, si spera, chi ci lascia. Memoria (Mnemosine) è anche madre delle nove Muse esiodee, divinità delle arti che ben si accostano al nome di Mario Galzigna, poiché in lui e con lui furono davvero generose di doti e talenti. La loro fervida danza ha fatto da cornice alla sua vita, che rappresenta una gemma preziosa sulla corona della conoscenza. Linguisticamente parlando, è molto interessante anche pensarla à la Jean Bollack (2014) su come la memoria, in altre lingue, sia anche connessa strutturalmente – quasi anatomicamente, verrebbe da dire – al concetto di pensiero, di commemorazione e di ringraziamento. Si pensi all’inglese, generalmente considerato una lingua “spoglia”, in cui il verbo “pensare” (to think) è di fatto molto simile al verbo “ringraziare” (to thank); ancor più marcato e interessante si fa il ragionamento riferito al tedesco, dove “pensare” (denken) è analogamente all’inglese simile al verbo “ringraziare” (danken), ma anche al sostantivo “idea/pensiero” (Gedanke) ed al verbo “commemorare” (gedenken). Ecco, l’intento della serata svoltasi martedì 12 gennaio, “In ricordo di Mario Galzigna”, organizzato dal Gruppo BDF riunitosi nel Collettivo Guaranì proprio in onore di Mario – che coi Guaranì aveva un forte legame – era proprio questo: pensare, ricordare, ma anche e soprattutto ringraziare una persona che tanto ha fatto, ha dato e ha lasciato nella Memoria di coloro che l’hanno conosciuto.

Come si interroga Gerardo Favaretto in occasione di quell’incontro, «di quanti Mario si può parlare?». La risposta a questa domanda è tutt’altro che banale. Il tema qui è quello dell’eteronimia, un argomento assai caro a Mario Galzigna che in quell’heteronymos viveva la sua molteplice complessità. Ma, a differenza di Pessoa – che di eteronimi ne aveva a ben vedere quattro, con biografie diverse e fittizie – di Mario si può dire che la molteplicità avesse realmente trovato una sintesi in grado di preservare le unicità senza frammentarle o disperderle; al contrario, una unicità che le valorizza nella sua generatività umana. In questa direzione, tuttavia, si può ben pensare che la vocazione alla scoperta e la tensione verso una pluriprospettiva ci parlano di un Mario che temeva l’egemonia dell’Uno, dei molteplici Uno fin troppo spesso incarnati nella filosofia e nella storia. Come lo rievoca Laura Liberale, lui era viceversa un «bellissimo polimorfo» – l’uomo dai tanti nomi, l’uomo dai nomi diversi (heteronymos, appunto). Nell’affezionato ricordo di Claudia Boscolo, l’uomo Mario – nel suo eclettismo – era composto di molteplici dimensioni e lati, portatore sì di grandi talenti (che pure non mascherava), ma che mostrava con grande umiltà. Profondo studioso dell’arte in generale, era in grado di trasmettere l’amore in tutto quello che faceva, riuscendo a coltivare tutto ciò non solo in parallelo, ma anche sovrapponendo, intersecando, IBRIDANDO, con quella capacità inclusiva che lo caratterizzava. Boscolo ci ricorda come, nella sua trasparente semplicità, fosse in grado di fondere il pensiero alto e complesso con la naturalezza della quotidianità che li sorprendeva «parlare di sintesi disgiuntiva bevendo un caffè al bar».

In questo senso, Mario era in grado di portare nella conversazione le riflessioni e tensioni creative con un linguaggio accessibile, frutto di una pedagogia della relazione vera e di un dialogo profondo e autentico tra pari, dove docente e discente si collocano allo stesso livello, poiché vicendevolmente possono imparare l’uno dall’altro. Nei loro numerosi scambi, ricorda Boscolo, uno dei temi principi era certamente quello dell’apprendimento efficace, dove l’importanza della strategia didattica va di pari passo con la cura della relazione. Dove coinvolgimento e passione, sebbene mai scontati, divengono elementi propedeutici alla costruzione e co-costruzione di tutte le praxis. È allora che i discorsi diventano rizomatici ed embricanti, fondono il linguaggio poetico, narrativo, quello della prosa, del canto e dell’arte quali veicoli per portare in superficie l’inesprimibile – esprimere l’inesprimibile.

Ritornando alla domanda prima posta da Gerardo Favaretto: quanti Mario?

Per rispondere, proviamo a ricostruire un po’ attraverso gli occhi di chi rimane CHI fosse Mario Galzigna. Gerardo, ad esempio, parla della sua forte propensione verso la storia della medicina psichiatrica. Egli soleva soffermarsi e interrogarsi sul linguaggio, su ciò che in un certo qual modo potesse considerarsi il fondamento di una “cultura psichiatrica”. In una definizione davvero affascinante, una filosofia della psichiatria. Questo interesse di Mario al tema della comunicazione, del linguaggio con cui si entra in contatto/scambio, non era de facto solo un modo per problematizzare la questione; rappresentava un punto focale che caratterizzava anche il suo modo di interpretare la comunicazione, che restava limpida nonostante la macchinosità dell’argomento. Le parole d’ordine sembrano pertanto essere “semplicità nella complessità”. E complessa è anche la tematica d’avant-garde relativa alle sue riflessioni sulla tecnologia, sulla digitalizzazione e sulla questione sempre più attuale dell’anonimato. In questo – come in molto altro – un pensiero innovatore, prezioso e che forse, ora, sarebbe ancora più importante ascoltare.

Saper parlare con essenzialità i molteplici linguaggi del mondo e della cultura (come quelli dell’arte visiva, che cita Roberto Plevano nel corso della serata) non è impresa comune. Padroneggiarli con disinvoltura è poi ancora più straordinario.

Alle intense parole di Laura Liberale, che ha sottolineato come nel suo essere inquieto e sempre “alla ricerca di”, sapesse essere estremamente generoso e generativo, fa eco il sentito ricordo di Pietro Barbetta, il quale ha rammentato con nostalgia e tenerezza l’assidua vicinanza di Mario durante la malattia che lo ha colpito nel corso dell’emergenza COVID. «Verve polemica, dire pane al pane e vino al vino, la sua parresìa»: ecco le doti che con tanto affetto e stima trapelano dalle parole dell’amico Barbetta. Doti che, non sempre, gli avevano reso la vita facile. Essere fedeli alle proprie opinioni – e non innamorarsi delle proprie ipotesi – non si configura come un atto eroico, bensì, come un atto di giustizia. Verso la fine della serata, commosso, Pietro così descrive Mario Galzigna, come amico e come studioso: «Credo che Mario fosse uno dei miei migliori amici in assoluto, assieme a Marcelo Pakman. Credo che non scorderò mai tutto quello che è stato detto di lui. […] La Storia della Follia è stata tradotta in parte nel mio studio con Beatrice Catini, che è una mia studentessa con la quale lui ha lavorato nella traduzione. Gli ha dato una grossa mano a trovare i buchi che c’erano nella vecchia edizione e a rimettere assieme quest’opera straordinaria. La sua introduzione è la migliore introduzione alla Storia della Follia del mondo». In un’immagine molto accorata ed emozionante, anche Enrico Valtellina fa riferimento assieme ad altri ai diversi lavori di traduzione (a San Servolo, ma anche lavori a Rio de Janeiro e al College de France); molte delle collaborazioni rievocate fanno riflettere su come Mario fosse in grado di “vedere prima”, pre-vedere, le potenzialità nascoste persino a sé stessi, e sfidare l’Io e l’Altro a superare i propri limiti.

Verso la fine della serata, anche il figlio Matteo, pianista e musicista, ci ha regalato alcune riflessioni ed immagini commoventi: in particolare, l’immagine delle mani del padre che suonavano al pianoforte. A Mario piaceva molto cantare, si può considerare un suo tratto distintivo. E il calore che era in grado di comunicare e trasmettere attraverso la sua voce è palpabile, fa parte di lui e arriva a noi attraverso la memoria di chi ha potuto ascoltarne la melodia. La sua musica, nonostante si dedicasse anche ad autori elevati e sublimi, quasi eterei, come Schubert e Mozart, non perdeva quel calore popolare, a tratti “partenopeo”. Le complessità interiori che stanno-dietro alla persona non vengono perse: la musica che nasce, secondo Matteo, come atto introspettivo non riesce a svincolarsi dal suo essere irrimediabilmente e indissolubilmente un atto comunicativo. Per questo, ora, nella sua arte, ha scoperto di “portare con sé il suono caldo di suo padre”.

Per concludere l’articolo, nascono spontanee alcune riflessioni che giungono dagli autori che stanno scrivendo queste righe. Vi sono persone in grado di suscitare grandi emozioni in quanti hanno avuto la fortuna di incrociarne la strada. Ascoltando il ricordo di coloro che sono intervenuti alla serata, appare quanto profondamente Mario Galzigna fosse una di quelle persone, semplicemente indimenticabile. Prendendo nuovamente in prestito le parole di Claudia Boscolo, Mario era una forte e straordinaria presenza trasformativa: «il suo andare via non è un andare via, è un rimanere con noi attraverso questa trasformazione che lui ha impresso nel nostro modo di fare le cose».

«Fuori da ogni tentazione idealistica, si tratta di costruire un’epistemologia realista, “che situi la conoscenza nel mondo”: che spezzi la dicotomia tra osservatore e osservato, riconoscendo il coinvolgimento del soggetto nella realtà osservata come parte costitutiva ed essenziale del processo conoscitivo» (Mario Galzigna, Introduzione a “Storia della follia nell’età classica”).

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Immagine di copertina:
Rimozione della pietra della follia, copia antica di un’opera dispersa di Pieter Bruegel il vecchio, circa 1557, Musée Sandelin, Saint-Omer