«Per il passeggiatore solitario, nel silenzio, i sensi si affinano fino a cogliere le voci del bosco. In una sorta di trance, dimentico me stessa. Non è forse la beatitudine, questa, dimenticare addirittura di esserci? Sentirsi specchio limpido di mondo?» (Pia Pera, La virtù dell’orto, p. 102)
Le opere di Gary Snyder, poeta e saggista americano formatosi all’epoca della Beat Generation, sono finestre da cui non ci si accontenta di guardare fuori, ma dalle quali si è spinti ad uscire fuori. I vetri rotti, si scavalca il telaio facendo attenzione, ma senza paura alcuna e, spinti da forze irresistibili, ci si lascia alle spalle la casa, il focolare, la civiltà e si parte in esplorazione. Non a caso Snyder ispirò il protagonista de I Vagabondi del Darma di Jack Kerouac. Il viaggio, il movimento costante, che non è quello frenetico della modernità industriale e digitale, ma quello lento e attento degli esseri viventi, il movimento costante e presente del respiro, sono le dimensioni corporee che attraversano lo sguardo del poeta. Per questo ogni volta che una raccolta poetica o saggistica di Snyder viene tradotta in italiano è l’inizio di un nuovo viaggio, o meglio, è il ricordarsi che non abbiamo mai smesso di muoverci, anche se tutto intorno a noi dice il contrario e sembra essere senza via di scampo.

Recentemente l’editore Piano B ha pubblicato una nuova traduzione della raccolta di saggi La pratica del selvatico, uscita negli Stati Uniti nel 1990 e pubblicata in italiano una prima volta nel 2011 per le edizioni Fiori gialli in un’edizione ormai introvabile. Questa nuova traduzione di Simona Moretta va ad arricchire il catalogo dei testi di Snyder disponibili in lingua italiana, tra cui citiamo le raccolte di saggi e interviste Nel mondo poroso, pubblicate da Mimesis e il bellissimo Ritorno al fuoco, raccolta che ruota intorno alle pratiche ecologiche dei nativi americani della West Coast. O ancora, la raccolta poetico-saggistica L’isola della tartaruga pubblicata da Stampa Alternativa, racconto dei suoi luoghi nativi, e la raccolta poetica tradotta più di recente Pericolo sulle cime (Re Nudo), libro che si apre con l’ascesa della montagna St. Helens compiuta dall’autore nell’agosto 1945, agli albori dell’era atomica.
La scrittura di Snyder si muove da sempre tra poesia e prosa poetica, tra il saggio e l’autobiografia, o forse sarebbe più corretto parlare di ecobiografia, perché le esperienze personali dell’autore sono state il motore del suo impegno di ambientalista e la loro condivisione è un invito al lettore affinché si (ri)avvicini il più possibile al mondo, fino a farsi toccare da esso. Senza queste esperienze dirette, corporee, di attraversamento, di cammino, scalata, incontro con l’altro, non piò esserci risveglio ecologico, ma solo conoscenza astratta e dunque non sufficiente a farsi esperienza pratica. Quando Snyder racconta di essere cresciuto a Turtle Island, tra le acque del Puget Sound, nella costa del Pacifico nord-occidentale degli Stati Uniti, e che intorno a sé osservava «l’inesorabile deforestazione di una delle più grandi foreste temperate del mondo» (Gary Snyder, La pratica del selvatico, 2025, p. 25) questa osservazione è direttamente connessa con il fatto che a diciassette anni il poeta entra a far parte della Wilderness Society e successivamente del club alpinistico Mazamas, diventando «un difensore della natura selvaggia» (La pratica del selvatico, p. 25). Questa esperienza originaria della sua infanzia e adolescenza, insomma, questo incontro tra il sé e il mondo, è alle origini della consapevolezza ecologica. Così come avverrà per il racconto dei suoi successivi viaggi in oriente, altro perno della sua opera e della sua pratica ecologica.
Quella di Snyder è dunque una scrittura porosa e duttile, come del resto è il percorso della sua vita, sempre in movimento tra oriente e occidente, sempre pronto ad accogliere sguardi altri, a riprendere in mano pratiche quasi estinte e lingue antiche. Scrittura, esperienza, sguardo sono per il poeta un intreccio inscindibile, nel quale «un termine chiave è pratica: cioè la profusione di uno sforzo deliberato, sostenuto e consapevole per essere più finemente sintonizzati con noi stessi e il mondo che ci circonda. in definitiva, ad eccezione di qualche piccolo intervento umano, il mondo è in fondo un luogo selvaggio» (La pratica del selvatico, p. 26).
Là fuori, sembra dirci Snyder, c’è un mondo che buona parte delle culture moderne occidentali ma non solo, ha provato a cancellare, a mettere da parte, a lasciare fuori per l’appunto, dimenticando però che questo mondo è dentro di noi, che ci attraversa da milioni di anni di evoluzione e che fa parte delle nostre strutture profonde. E anche in questa raccolta di saggi prova a riattivare questi saperi dimenticati attraverso un lavoro collettivo che si muove tra saperi diversi. Scrive il poeta, «all’origine di questi saggi c’è il lavoro svolto su questioni ecologiche, specie in via d’estinzione, società originarie, religioni orientali e strategie ambientali con persone che provengono dall’entroterra dell’Alaska come dal centro di Manhattan o di Tokyo» (La pratica del selvatico, p. 26).
Per praticare il selvatico, in Snyder, come in altri pensatori dell’ecologia, occorre non tanto o non solo attraversare lotte o impegno ambientalista attivo, ma soprattutto occorre fare esperienza di un’ecologia profonda, «radicarsi nell’oscurità del nostro io più profondo» (La pratica del selvatico, p. 26). In Snyder però, a differenza di altri pensatori dell’ecologia profonda, il discorso e la pratica del selvatico sono spesso accompagnati da un discorso e una pratica culturali. Non si tratta mai di cancellare l’umano e le sue pratiche culturali, ma di andare a lezione di selvatico, specialmente per chi vive in società che, come si diceva, hanno limitato l’accesso al selvatico e nelle quali la stessa terminologia legata al selvatico e al selvaggio, assume perlopiù connotazioni negative. In un saggio su nuovi modi di praticare il giardino e intitolato Le jardin ensauvagé, la studiosa francese Louisa Jones rileva come il significato del termine «selvaggio» assuma nelle lingue indoeuropee una moltitudine di sensi diversi come «inabitato», «incolto», «inesplorato», «abbandonato», ma anche «vergine», «sublime», «minaccioso», «puro», «libero» (Luisa Jones, Le jardin ensauvagé, 2022, p. 12), tutte accezioni che rispecchiano il punto di vista dell’umano e un dualismo di fondo, quello tra natura e cultura. Jones si chiede se possano esistere altri significati da attribuire al selvatico, che non siano per forza oppositivi, e lei li trova nella pratica del giardino. Snyder invece, segue la scia tanto della tradizione del nature writing americano quanto le lezioni spirituali del buddhismo, esplorando l’Alaska e venendo a contatto con saperi situati, antichi e cercando linguaggi animali, «grammatiche fulve», titolo del terzo capitolo del volume. Secondo il poeta «la natura selvaggia è un luogo in cui il potenziale selvatico è pienamente espresso, una diversità di esseri viventi e non viventi che prosperano in accordo al loro stesso ordine. (…) Quando un ecosistema funziona pienamente, tutti i suoi membri sono presenti all’assemblea» (La pratica del selvatico, p. 38).
Vivendo in «società in espansione senza alcun senso del passato o futuro ambientale»(La pratica del selvatico, p. 25), e nell’orizzonte temporale dell’Olocene, Snyder ritrova tracce di una storia più profonda di quelle stesse società in altri luoghi, nel Nuovo Mondo del Nord, nel quale permangono, almeno per ora, tracce di sacro e di un «galateo» che è «correttezza del punto di vista animale» (La pratica del selvatico, p. 109). Galateo che a un lettore italiano non potrà non ricordare quel Galateo in bosco, raccolta in versi che il poeta Andrea Zanzotto pubblicava nel 1978, con una sensibilità piuttosto anticipatrice.
Nella pratica del selvatico di Gary Snyder c’è, rispetto ad altri autori dell’ecologia profonda, un’attenzione particolare alla questione dei saperi e della cultura, con particolare attenzione alla cultura umanista. È una sensibilità che avvicina lo sguardo di Snyder a uno sguardo mediterraneo, non a caso spesso i luoghi di Snyder, quelli della California e della West Coast sono luoghi a clima mediterraneo, e, seppur più selvaggi che quelli del Vecchio Continente, la presenza e il lavoro dell’uomo ne hanno modificato i territori. La cultura occidentale è spesso criticata da Snyder, che la vede come un allontanamento dalla molteplicità dei saperi tradizionali e irrigidita in una sofistica cittadina, più attenta ad allenare saperi dialettici che non pratici. I saperi tradizionali inoltre, secondo Snyder sono più inclusivi nell’ospitare diverse modalità di conoscenza oltre a quella razionalista e meccanicista, in particolare ospitano il sapere del mito. Nel capitolo «Grammatica fulva», Snyder scrive che «in questa grande e vecchia cultura occidentale i nostri più anziani insegnanti sono i libri» (La pratica del selvatico, p. 94). Nel primo secolo avanti cristo, un anziano di quella cultura occidentale, Marco Tullio Cicerone, scriveva una lettera a Marco Terenzio Varrone nella quale sosteneva che avere un orto accanto alla biblioteca significava possedere tutto ciò che occorre, «si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil» (Cicerone, Epistolæ ad familiares, lib. IX, ep. 4). Fu proprio in quella civiltà romana mediterranea che l’accezione del latino cultura derivante da cŏlere, ovvero coltivare, iniziò ad indicare anche la cultura animi, ovvero la filosofia, termine che Cicerone scelse per tradurre il greco paidèia, educazione, formazione. Snyder dimentica, nella sua analisi etimologica di cultura (La pratica del selvatico, p. 126), che cŏlere, da cŏlo verbo transitivo della III coniugazione, in latino non significa solo coltivare, ma anche praticare, curare, aver cura, adornare, abitare, frequentare. Una panoplia semantica radicata al suolo, al territorio. E da quel suolo, dalla terra, in una società nella quale non solo l’agricoltura era il mos maiorum, ma essere contadini significava essere nobili, mettere le mani nella terra era un lavoro da intellettuali, coltivare la terra e coltivare l’animo erano due pratiche all’unisono volte al buon mantenimento della società. E questo tanta ecologia profonda e Snyder stesso tendono a dimenticarlo, il fatto che la coltivazione non è per forza in opposizione con il selvatico, ma è una modalità di relazione che nasce da un contatto reale, da saperi pratici che sono molto più antichi della storia olocenica alla quale siamo soliti far rimontare il tempo dell’agricoltura. Prime tracce di coltivazione ripetuta di un cereale, il sorgo, sono state rinvenute nell’attuale Mozambico e risalgono a 110.000 anni fa,1 decisamente prima della cosiddetta rivoluzione neolitica. Con buona probabilità insomma, il giardino, ovvero uno spazio chiuso, nato per proteggere ciò che ciascuna società considera «il meglio» (Gilles Clément, Breve storia del giardino, Quodlibet, 2012, p. 17) nasce ben prima del campo coltivato. E nasce da processi di «secondarizzazione» (Breve storia del giardino, p. 13) del territorio che sono molto antichi.
Le accuse che vengono mosse alla “coltivazione”, ricordiamo i fagioli che Thoreau si dispiace di coltivare nel Walden, tengono poco conto di una storia profonda di relazione attiva tra l’umano e la terra, ma soprattutto non tengono affatto conto che sui processi storici degli orti manca completamente una storiografia. In altre parole, del ruolo che il giardino nella sua accezione di orto ha svolto nella storia dell’evoluzione umana sappiamo ancora pochissimo.
Sempre in quella vecchia cultura occidentale nasce il mito di Cura, tramandato da Igino, che narra di una relazione diretta, vitale, tra l’essere umano e la terra. Secondo questo mito, infatti, l’essere umano sarebbe stato modellato dalla dea utilizzando fango argilloso. La dea Cura chiese in seguito a Giove di infondere spirito vitale nella figura modellata, Giove acconsentì e così nacque quello che in seguito Saturno avrebbe chiamato homo, dalla materia dalla quale era composto, ovvero l’humus. Quanto a Giove e a Cura, al dio sarebbe toccata l’anima, lo spirito vitale, alla morte dell’uomo, mentre Cura, l’artefice di questa nuova figura terrestre, l’avrebbe abitata lungo il corso della sua esistenza sotto forma di inquietudine. In un saggio sui giardini, Robert Pogue Harrison sottolinea come «dal momento che la Cura ha plasmato l’homo dall’humus è del tutto “naturale” che la sua creatura debba rivolgere le sue cure in primo luogo alla terra da cui deriva la sua sostanza vitale» (R. P. Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, 2009, p. 22). In un capitolo de La virtù dell’orto intitolato Mente e terra, la scrittrice Pia Pera dopo essersi chiesta che cosa ci sia di più diverso da mente e terra, rileva, attraverso la sua pratica nell’orto-giardino che «mente e terra, entrambe vive, vengono quindi lavorate in modo affine, hanno tempi analoghi», e che «forse quando lavoriamo in giardino, dovremmo cercare di renderci conto che stiamo facendo un po’ di giardinaggio anche negli incolti della mente del cuore!» (P. Pera, La virtù dell’orto, pp. 21-22).
Far riemergere queste vecchie storie occidentali di terra e di biblioteche, di libri e di orti, di humus e di umanità, serve a non liquidare troppo in fretta alcune questioni relative proprio alla «pratica del selvatico» e a rileggere alcuni misunderstanding che attanagliano la questione della wilderness e del selvatico sulle due sponde dell’Atlantico, tra la vecchia Europa e la nuova America. Che ci sia ancora qualcosa da esplorare nella coltivazione?
Quel che è certo, è che è importante tenere sempre aperte le finestre e far circolare altre storie, come fa Snyder o ricordare, come fa l’antropologo Adriano Favole in La via selvatica, che «noi siamo cultura» e allo stesso tempo «noi siamo incolto» (Adriano Favole, La via selvatica, 2024, pp. 7-8).
Bibliografia
Pia Pera, La virtù dell’orto, TEA, 2022.
Gary Snyder, La pratica del selvatico, Piano B edizioni, 2025.
Luisa Jones, Le jardin ensauvagé. Prendre part à la dynamique du vivant, Actes Sud, 2022.
Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, 2011.
Marco Tullio Cicerone, Ad familiares. Lettere ai familiari (2 vol.), (a cura di) G. Garbarino e R. Tabacco, UTET, 2023.
Gilles Clément, Breve storia del giardino, Quodlibet, 2012
Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, Fazi editore, 2009.
Adriano Favole, La via selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, 2024.
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1) Vedi, Jean-Pierre Williot e Gilles Fumey, Histoire de l’alimentation, PUF, 2021.
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Immagine di copertina:
foto di Akhil AJ su Unsplash



