Entro in comunità. Giorgio, come ogni giorno, è seduto per terra con le gambe incrociate e le dita delle mani volte a coprirsi le orecchie. Non partecipa ad alcuna attività, non sembra interessato a nulla di quanto gli accade intorno. Non manifesta alcun segno di desiderio o esigenza particolare. Il suo sguardo vaga e oscilla senza fissarsi su nulla in particolare. I suoi pochi movimenti motori hanno un carattere a-finalistico e isolato, come quando talvolta rotea su sé stesso da seduto. Durante momenti che turbano la quiete di Giorgio, questi inizia a urlare e a mordersi la propria T-shirt fino a fare di essa un tessuto completamente stropicciato e bucherellato. Mi siedo accanto a lui, lo saluto e per qualche secondo ricambia lo sguardo. Sguardo che torna subito dopo nella vacuità dell’indeterminatezza. O almeno è quello che mi sembra. La sua vita si svolge fuori da qualsiasi coordinata spazio-temporale, fuori da qualsiasi rapporto con l’altro che implichi un riconoscimento di sé come simile o quantomeno come appartenente alle stesse categorie simboliche che umanizzano la vita. Giorgio si attiva solo quando è il momento del tablet. Momento in cui viene assorbito dai noti video di Peppa Pig. In esso, Giorgio non reperisce alcun senso del discorso ma sembra godere delle immagini e del suono che le parole del video producono. Quando alcuni suoni toccano delle corde acustiche particolari, può tornare indietro sullo stesso punto per decine e decine di volte fino a esaurire la soddisfazione che quel suono aveva prodotto in origine. L’insoddisfazione a quel punto lo spinge al video successivo, alla vibrazione acustica e visiva successiva in una ricerca infinita del piacere. Un po’ come quando scopriamo un brano che ci piace così tanto che lo riascoltiamo fino a non generare più la stessa sensazione che aveva suscitato all’inizio. Una sorta di primordiale desiderio rilanciato continuamente da una insaziabile bulimia di Peppa Pig. Ecco, nonostante ricerchi continuamente in me qualcosa di comune a entrambi, mi sembra di non poter condividere nulla con lui, nonostante apparteniamo entrambi alla categoria dell’umano. Ed è proprio di questa radicale estraneità in qualcosa di così familiare, di così già dato come l’umano, che si insinua in me un elemento perturbante. Un crepa. D’altronde Freud ci aveva già avvisati dicendo che l’Io non è padrone in casa propria.
Bene, Freud, nel 1919, ha dovuto interrompere la stesura di Al di là del principio di piacere per terminare un saggio rimastogli nel cassetto per diversi anni, Il perturbante. Secondo il padre della psicoanalisi «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare».1
È a partire da un episodio vissuto in prima persona da Freud, che il padre della psicoanalisi scriverà questo fenomenale saggio alla scoperta della radicale estraneità che ci abita:
«Freud ci racconta di un suo episodio personale, di una giornata assolata in cui, passeggiando per le viuzze di un paesino italiano, si era ritrovato più e più volte a passare per un quartiere zeppo di prostitute; e più tentava di cambiare strada e allontanarsi da lì, più i suoi passi lo riportavano al punto di partenza. Dire che Freud, sotto sotto, quel giorno desiderava spassarsela è un po’ riduttivo. Ma ci aiuta a capire che siamo sempre complici delle stranezze che ci accadono. Che, consapevolmente oppure no, tendiamo a favorire quegli stessi fenomeni in cui restiamo impietriti».2
Ecco, il perturbante, si potrebbe dire che è quel qualcosa che ci sta accadendo a nostra insaputa, qualcosa che tira in ballo la coazione a ripetere, una catena significante già significata, che ha già avuto valore significativo per il soggetto ma che in quel momento è ignaro di ciò che gli sta accadendo, finché non appare quell’elemento apparentemente senza senso che ri-presentifica tutto nel qui e ora. Un elemento alieno, di radicale estraneità in qualcosa di assolutamente familiare. Ecco, lungi dal voler esaurire la trattazione del perturbante aprendo il tema a una moltitudine di discorsi, quello che interessa ai fini di questo scritto è percorrere la logica del perturbante per reperire l’elemento familiare in una categoria così aliena come il soggetto cosiddetto autistico. Ossia, reperire l’autismo che è in noi cosiddetti “normali” per comprendere come tornare partecipanti attivi di un discorso che mira sempre più a tenere fuori le soggettività da qualsiasi forma di partecipazione sociale, relegandoci ormai abbastanza frequentemente nell’impotenza. Insomma, abbattere la categoria stessa di normalità mostrando come questa, in fin dei conti, non sia solo esclusivamente una parola vuota ed evanescente, ma un significante al servizio di discorsi che, proclamando la rivoluzione, si rivelano come esercizi dello stesso sempre uguale, potere.
Rovine edipiche
Nel 2014 esce sui grandi schermi Storie Pazzesche di Damien Szifron: un film contenente sei cortometraggi, in cui le relazioni umane si svolgono su una sottile lastra di ghiaccio, dove l’equivoco, anche più banale, non solo fa emergere dal sottosuolo gli istinti animaleschi dei personaggi ma mette in evidenza come nemmeno la solenne celebrazione di un matrimonio o l’iter per il pagamento di una multa reggono più come elementi simbolici che riescono a contenere quel Reale umano aldilà dell’umano che Freud aveva definito sotto il nome di pulsione di morte. La storie, davvero pazzesche, ambientate nel mondo contemporaneo, ci riportano allo status dell’uomo come selvaggio, irrazionale, un uomo che sembra dimenticarsi per un attimo del progresso, regredendo verso la rovina. Eppure, Szifron non lascia lo spettatore in balia delle rovine di cui i protagonisti sono sia vittime che responsabili, poiché nonostante il rovinoso susseguirsi degli eventi, l’epilogo di ognuno di essi mostra come la radicale libertà dell’individuo risieda nella sua impossibilità a sottrarsi da una qualsivoglia scelta, che sia una scelta di vita o di morte. Come l’individuo non possa sottrarsi dalla morsa del significante direbbe un lacananiano. Che è come dire che l’individuo, nonostante non possa sottrarsi alla pulsione di morte o al godimento che da sempre lo precede, è condannato, nonostante tutto, a scegliere di che morte morire o di che morte vivere. Ed è questo il motivo per cui anche il soggetto autistico, un soggetto fuori discorso, seppure con la complicità dell’Altro, sceglie nonostante tutto che forma dare al suo particolare modo di godere. Ma a che ci serve questo? Jacques Lacan nel seminario del 1956 pronuncia qualcosa che ha del profetico ai giorni nostri e che introduceva la logica del suo decennale insegnamento.
«Non siamo qui per sviluppare tutti gli aspetti di questa funzione del padre, ma voglio farvene notare una delle più sorprendenti, che è l’introduzione di un ordine matematico la cui struttura è diversa dall’ordine spirituale. Siamo stati formati all’analisi attraverso l’esperienza delle nevrosi. La dialettica immaginaria può bastare qualora, nel quadro che tracciamo di questa dialettica, questa relazione significante sia già implicata per l’uso pratico che se ne vuol fare. Entro due o tre generazioni non si capirà indubbiamente più nulla, o come si dice una gatta non ritroverà più i suoi piccoli, ma per il momento, nell’insieme, il fatto che il tema del complesso di Edipo permanga, preserva la nozione di struttura significante, così essenziale per orientarsi nelle nevrosi».3
Entro due o tre generazioni non si capirà indubbiamente più nulla. A cosa si riferiva Lacan con questa predizione? Già ne I complessi familiari lo psicoanalista francese aveva parlato di crollo dell’imago paterna, come crollo di quel perno attraverso cui le relazioni umane tout-court erano possibili all’interno di una società regolata dalla funzione dal padre come rappresentante della Legge. Quale legge? Intendiamoci, le regole non sono la legge. Anzi, tutt’altro. Prendiamo ancora come esempio il lavoro di comunità con soggetti autistici e/o psicotici. A tal proposito, Alfredo Zenoni, noto psicoanalista, scriveva che
«le regole non hanno altra funzione che rendere possibile la vita in comune. Esse non hanno una funzione educativa o pedagogica (contrariamente a quanto si può suggerire o addirittura proporre in alcune concezioni del funzionamento istituzionale obnubilate dalle imago edipiche in cui le regole sono concepite come equivalenti della funzione paterna…, e l’amore come equivalente della funzione materna, senza dubbio). Il criterio fondamentale dell’enunciazione della regola […] non deve essere la presentificazione di un’istanza che emana la legge, incarnazione della funzione paterna, ma quella di un’istanza che è essa stessa sottomessa alla legge, un’istanza regolata, regolare».4
Una regola essa stessa regolata. A questo punto, è necessario chiarire cosa sia un padre. In Lacan non si tratta tanto di padri ma di funzione paterna. Chiunque potrebbe svolgere una funzione paterna. Con essa Lacan intende dire che il padre è una metafora, il rappresentante della Legge, colui che rompendo la diade beante tra madre e bambino, introduce il soggetto alla vita sociale comune facendo perdere al soggetto una parte del suo godimento. Per Freud, per esempio, la possibilità del soggetto di far parte di una civiltà, deve passare per la rimozione. Ossia, la rinuncia a una parte del piacere in virtù dell’accesso alla possibilità di desiderare, di avere relazioni sociali, di poter essere riconosciuti all’interno di una civiltà in cui sono possibili le possibilità e in cui il Reale angosciante è addirittura pensabile come impensabile all’interno di una collettività. Il padre della psicoanalisi si serve del mito dell’Edipo Re sofocleo per mostrare quello che voleva dire. Lacan lo mette in logica. Ma cosa fa funzionare una civiltà? Perché Lacan profetizzava un futuro in declino che andava di pari passo con la cosiddetta evaporazione della funzione paterna?
La crisi della presenza
Nel libro La fine del mondo, l’antropologo ed etnologo Ernesto De Martino racconta di un aneddoto abbastanza emblematico durante una spedizione in Calabria, a Marcellinara. In particolare, De Martino e i suoi collaboratori, che viaggiavano in auto, incerti sul percorso da fare, a un certo punto incontrano un anziano pastore. A quest’ultimo chiedono di salire a bordo per indicare loro la strada promettendo di riportarlo indietro. Il pastore accetta, ma mentre l’auto si allontana, succede qualcosa di imprevedibile: il pastore inizia a mostrare segni di disagio, quasi di panico. I viaggiatori si accorsero che l’angoscia aumentava con il graduale scomparire dalla vista di Marcellinara, il campanile del suo villaggio. Quel campanile, per lui, non era solo una torre: rappresentava il centro del suo mondo, il simbolo della sua patria culturale. Quando il campanile scomparve all’orizzonte, il pastore ha iniziato a vivere quella che De Martino ha chiamato «crisi della presenza». Il contadino iniziava a sentirsi perso, come se il mondo gli stesse sfuggendo. Solo quando il campanile riapparirà, tornando visibile, il pastore si calmerà scendendo dall’auto e correndo verso casa. Da un punto di vista prettamente psicoanalitico il campanile rappresentava il perno di una metafora condensata di significati che aveva la funzione di fornire un orizzonte simbolico al Reale angosciante del soggetto e che allo stesso tempo scandiva l’identità culturale (riti, abitudini, relazioni…) degli abitanti di quel piccolo paesino dell’entroterra calabro. La «crisi della presenza» è un concetto centrale nel pensiero di De Martino. Per l’antropologo campano, essa rappresenta quella condizione in cui una persona, o un’intera comunità, perde il contatto con i propri riferimenti culturali e storici, finendo in uno stato di smarrimento esistenziale. È come se il mondo, improvvisamente, smettesse di avere senso. De Martino studiava questa crisi nelle società tradizionali, ma la considerava una condizione universale chiedendosi quali sfide dovesse affrontare l’uomo per realizzare una società globalizzata. Quali sarebbero stati i riferimenti simbolici che avrebbero permesso agli uomini di riconoscersi all’interno di una comunità così grande?
La fine del mondo
Una delle prime associazioni che Lacan compie rispetto al capitalismo la si può reperire nel Seminario XVII,5 a proposito del discorso Universitario: la mercificazione e la quantificazione dei saperi avrebbe finito per trasformare gli ambienti accademici in vere e proprie fabbriche, delle fucine teoretiche che convertono i postulati di un qualsiasi discorso in numeri, sterili ammassi di sapere che circolano svuotati del loro nucleo centrale. Psicoanalisi, culture, riti antichissimi, scienza diventano merce di consumo. Oggetti che il capitalismo mette nella posizione di oggetto piccolo. Quell’irriducibile oggetto perso da cui il soggetto da un lato è mosso, ma dall’altro ne rimarrà sempre insoddisfatto. L’oggetto che gli permette di vivere ma che allo stesso tempo lo consuma. Già nel Seminario V,6 con la costruzione del grafo del desiderio, Lacan dirà come ciò che consente al soggetto di desiderare non sia tanto la soddisfazione, quanto l’insoddisfazione. Una casella vuota, quel residuo di Reale non simbolizzabile in alcun modo, dirà più in là. Il capitalista invece, con le sue merci, tende a saturare quel posto vacante promettendo illusoriamente al soggetto una soddisfazione piena, immediata e concreta. Ma così facendo, non solo il valore perde del suo statuto simbolico, perché nessun oggetto potrà mai colmare quel posto vacante, ma quella stessa promessa insista nell’oggetto di consumo immediato ne acuisce l’insoddisfazione, la frustrazione, l’angoscia, spingendo l’individuo alla ricerca forsennata del prossimo oggetto da consumare. Così facendo ne corrode le fondamenta e consuma il soggetto sempre più velocemente fino al suo stesso annientamento. Un godimento che mira alle fondamenta del desiderio, riducendo l’individuo stesso a oggetto di consumo autistico e stereotipato. Insomma, quello a cui si sta assistendo, da un punto di vista etnologico, è il passaggio da culture fondate su dei simboli e dei valori che proiettavano il soggetto nel futuro, consentendogli di venire a patti con la mancanza che permetteva di desiderare, a una cultura dove il simbolo, ormai relitto ossessivamente presentificato di tale retaggio, ingorga quella mancanza stessa con reazioni di odio, di violenza, di impotenza. Si potrebbe anche dire che, se l’oggetto-a per il nevrotico era avanti come qualcosa da raggiungere in futuro e su cui costruire la propria vita, per il soggetto contemporaneo è un oggetto che sta ovunque, un oggetto da esorcizzare ma allo stesso tempo da rincorrere compulsivamente senza mai essere raggiunto. L’angoscia e l’impotenza che ne derivano non sono più bordate dagli strumenti simbolici che offriva la cultura di riferimento (si veda cosa rappresenta il campanile di Marcellinara per il povero contadino), ma le si esorcizza con l’oggetto-merce del momento, nel migliore dei casi, o, con reazioni violente o cliniche laddove anche l’oggetto di consumo giunge al suo fallimento. Questo è evidente nel lavoro con Giorgio o con i soggetti autistici che, cercando di separarsi dall’Altro, spesso persecutore, si difendono con gli oggetti che reperiscono nella realtà attraverso le cosiddette stereotipie. L’équipe, in tal modo, cerca di costruire delle coordinate simboliche spazio-temporali semplici che, non solo svincolano il soggetto autistico dal dover reperire continuamente strani oggetti con cui difendersi dalla realtà che li circonda, ma di costruire un mondo più semplice e prevedibile capace di rendere il mondo stesso più vivibile per loro e per noi operatori.
Ma anche per noi non-autistici, che succede quando si perdono le coordinate simboliche che regolano le relazioni umane? A tal proposito è Lacan stesso che sembra darci ancora una volta una risposta dal passato che risulta quantomai attuale. Per Lacan, il passaggio dall’epoca dell’ordine sociale – in cui tale ordine è sorretto dall’autosufficienza simbolica – all’epoca del mercato acefalo della macchina capitalistica e della scienza sguinzagliata dal vincolo dei valori umani porterà a effetti di segregazione nazista. Epoca in cui il Nome-del-Padre, abbassatosi al livello di un qualsiasi altro Significante-Padrone (S1), non fungerà più da garante universale, quanto piuttosto da sutura, da tappo. Il fatto che non vi sia più alcun significante dei significanti farà sì che a rimanere in gioco non sia altro che una pluralità esclusiva ed escludente di significanti (S1) che competono tra loro per la ripartizione dei godimenti.7 Dunque, se il padre era colui che faceva funzionare il simbolico, era colui che diceva di no al rapporto incestuoso, che spingeva il soggetto a rinunciare a una parte di godimento affinché potesse entrare nella società, questo padre evaporato, perdendo la sua funzione di perno, fa sì che la ripartizione dei godimenti si presenti non più sotto forma simbolica, ma sotto forma di una segregazione reale. Si veda il genocidio in Palestina, la guerra in Ucraina, i complottismi, la negazione dei disastri ambientali, l’aumento dei suicidi in età giovanile, i fenomeni di ritiro sociale, lo sfruttamento dell’uomo e delle risorse, il razzismo, l’insostenibilità del vivere quotidiano e di come la realtà stia collassando sul Reale in cui tutto può diventare fonte di godimento e di angoscia nel medesimo istante.
Ridare senso alla perdita per immaginare il futuro
Quando il padre chiede di rinunciare a una parte di godimento al figlio, che fine fa quel godimento? Un modo sociale e pop di riformulare la questione è: quando un qualsiasi lavoratore paga le tasse dal proprio salario rinunciando a una parte di esso, che fine fa quel denaro? Qual è il senso di questa perdita che torna sempre più dalla finestra del Reale con ondate di odio e violenza incontrollata? Di norma questi dovrebbero essere utilizzati per finanziare le scuole, la sanità pubblica, le pensioni, per cercare di arginare il Reale del vivente umano. Insomma, alla creazione e al mantenimento di un sistema sociale abbastanza vivibile e sostenibile per la comunità. Che succede quando invece questa perdita perde valore a causa di una sempre più carente funzione che ne regoli i godimenti? Se nel primo caso quella rinuncia del godimento permetteva ai soggetti di guardare avanti per salvaguardare dei beni o dei servizi sociali comuni, nel secondo caso quella perdita di godimento ritorna dalla finestra del Reale sotto forma di narrazioni allucinatorie con un Altro immaginario e minaccioso, causa tutti i mali della popolazione. Si noti come il crescente aumento delle estreme destre nel mondo vada di pari passo con l’aumento di narrazioni che hanno proprio questo canovaccio narrativo. Si veda Israele che, sotto gli occhi di tutti, non solo compie indisturbato un genocidio con il benestare di buona parte del proprio popolo, ma ha reso insignificante qualsiasi Legge che fino a quel momento regolava i rapporti internazionali e le relazioni umane. Questo, solo grazie alla narrazione di un altro persecutore che può essere ovunque ma che non è mai da nessuna parte. Questo con il benestare delle destre estreme e l’impotenza di buona parte del mondo costretta a subire tutto ciò in una condizione economica e sociale di gran lunga precaria.
Come far fronte, dunque, a una realtà così grande e così angosciante da avere come uniche reazioni l’impotenza, il nichilismo, la fuga, il diniego della realtà stessa? Nel suo saggio dal titolo Disconoscimento, Alenka Zupančič arriva a un punto in cui
«unirsi alla lotta non significa arrendersi all’immediatezza del movimento che ti trascina dietro. Inoltre, non è necessario amare chi ti sta accanto o capirla per unirsi a una lotta comune. Non è nemmeno necessario sbarazzarsi di tutti i pregiudizi nei suoi confronti per farlo. Siamo addestrate a saltare in piedi e urlare davanti a qualsiasi traccia di pregiudizio e a squalificare immediatamente le persone che a nostro avviso mostrano una qualunque di queste tracce. E questa non è una soluzione, è parte del problema. Per allentare la presa del disconoscimento e del pensiero complottista, potremmo aver bisogno di introdurre un po’ di alienazione e negatività. All’interno di questa immediatezza. Perché è a questo che tendono sia il disconoscimento sia le teorie del complotto: l’Immediatezza”» (pp. 146-147).
Già Lacan diceva come la verità avesse struttura di finzione 8 e nella nostra epoca questo è più che mai evidente, in particolare con le migliaia di teorie del complotto. Queste, se da un lato permettono all’individuo di mettere un velo a una realtà così angosciante, dall’altro lo raddoppiano disconoscendo la realtà stessa dell’evento in sé. Bolle autistiche in cui a essere fatto fuori gioco è il soggetto stesso. Il fatto che l’Altro sia sempre in qualche modo una presenza minacciosa in assenza di un perno comune fatto a brandelli dalle logiche distruttive e reazionarie del capitalismo.
«Qualcosa che ci consuma ed è indistinguibile dall’effetto che ha su di noi. Più è traumatico, più tendiamo a moltiplicarci. […] Le cause vere e profonde delle crisi possono essere affrontate solo con un’attenzione focalizzata sulla superficie e sulla forma. Strappare il velo della superficie, d’altro canto, non fa che rafforzare le difese e riesce a impedire il pensiero, la lotta e la capacità di affrontare queste cause».9
Non sapremo mai perché Giorgio sia mosso solo dai video di Peppa Pig sul suo tablet ed è fine a sé stessa anche la ricerca di una causa al suo utilizzo, perché sostanzialmente ci serve a poco; sappiamo solo che la presenza e l’assenza di esso è l’unica cosa che lo muove. Come utilizzare, dunque, il tablet come occasione che produca qualcosa che faccia dire a Giorgio di sì alla parola dell’altro? Come fare a ricostruire un mondo in cui l’essere umano può tornare a riconoscere la diversità, l’alterità dell’Altro come qualcosa di meno minaccioso, meno angosciante e più vivibile per tutti? Questa, in fin dei conti, è la sfida che accomuna il lavoro con il soggetto autistico e l’umanità intera.
Perché, se non c’è più futuro e tutto sembra appiattirsi in narrazioni che presentificano continuamente un passato che non passa mai, ciò che possiamo ancora fare è immaginare un futuro, inventare cose fuori dal senso comune. In sostanza, si tratta di rimettere in circolo la vecchia macchina del desiderio, rinunciando a una parte del nostro disperato e bulimico bisogno di sicurezza — così come, talvolta, Giorgio, lasciando per qualche secondo il suo tablet, riesce a rispondere alla parola di un altro che, a sua volta, è riuscito ad abbandonarsi alla propria e alla sua radicale estraneità.
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1) Sigmund Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 270.
2) Gioele P. Cima, Elementi perturbanti. Abisso di JiokE, in Fata Morgana Web, https://www.fatamorganaweb.it/elementi-perturbanti/.
3) Jacques Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), Biblioteca Einaudi, Torino, 2010, p. 378.
4) Alfredo Zenoni, L’altra pratica clinica. Psicoanalisi e istituzione terapeutica, Quodlibet, Macerata, 2024, pp. 79-80.
5) J. Lacan, Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Biblioteca Einaudi, Torino, 2001.
6) J. Lacan, Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), Biblioteca Einaudi, Torino, 2004.
7) G. P. Cima, Per Lacan: ricordare, ripetere, segregare, in Psychiatryonline Italia, https://www.psychiatryonline.it/psicoterapie/per-lacan-ricordare-ripetere-segregare/.
8) J. Lacan, Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), Biblioteca Einaudi, Torino, 2013.
9) Alenka Zupančič, Disconoscimento, Meltemi Editore, Sesto San Giovanni (MI), 2024, p. 148.
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Immagine di copertina:
Anri Sala, Title Suspended (Sky Blue), 2008. Foto: Ellen Page Wilson



