Durante un corso tenuto da Abraham Maslow, psicologo statunitense noto per la cosiddetta piramide dei bisogni, tra gli uditori vi è anche un certo Fritz Perls, il fautore della terapia della Gestalt. A un certo punto, annoiato dalla lezione, Perls manifesta il suo dissenso nei confronti della teoria presentata, chiedendo «Perché mai bisognerebbe ricercare la trascendenza solo con la pancia piena? Molti riescono a sopportare la fame e la sofferenza proprio grazie alla fede in Dio!». Dopo una controrisposta di Maslow, il berlinese si inginocchia e gli si avvicina gattonando.
Questo buffo episodio è raccontato, assieme a tanti altri, dallo psicologo tedesco Steve Ayan nel suo libro Architetti dell’anima. Da Vienna al mondo. Il secolo della psicoanalisi, in cui l’autore ripercorre la storia della psicoterapia a partire dai primi incontri del mercoledì sera al numero 19 della Berggasse fino ai giorni nostri. All’interno del testo, infatti, ricorrono svariati aneddoti che, oltre a tracciare i capisaldi teorici dei vari approcci psicoterapeutici, permettono di respirare un po’ dell’aria che circolava tra i salotti e le camere da convegno novecentesche, lasciando emergere il volto più umano di quei seriosi e fascinosi maestri dell’anima. Tuttavia, e come confermato dal nostro esempio di apertura, il taglio che l’autore ha scelto di dare al suo volume rivela spesso un tono inequivocabilmente canzonatorio, in cui si rende evidente una palpabile tendenza alla svalutazione.
Così, Freud è presentato come il capobranco che dispensa metodi per curare le dipendenze pur essendo un fumatore incallito, nonché come il perbenista che, per timore di essere psicoanalizzato a sua volta, si guardava bene dal condividere dettagli sulla sua vita privata. O ancora, come «il personaggio più contraddittorio di quella comunità piena di contraddizioni formata dai primi psicoanalisti» (p. 25).

Al padre della psicoanalisi Ayan riconosce l’abilità di essere riuscito a valorizzare concetti introdotti da altri autori che non erano stati capaci di esplorarne appieno il potenziale, primo fra tutti l’invenzione dell’Es a opera di Groddeck. E come non citare la «comprensione tipicamente maschile» (p. 120) con cui Freud rassicura Jung in merito alla faccenda Spielrein, ossia la storia di sesso tra il suo pupillo e la giovane paziente Sabina, scrivendogli che in fondo certe piccole “esplosioni” da laboratorio non potranno mai essere evitate!
Il testo di Ayan si presenta con un’immagine di copertina in cui è raffigurato, con colori ameni e confortanti, una sorta di monte che emerge dall’azzurro del mare. Un’immagine che non può non richiamare l’iceberg che svetta dagli abissi dell’inconscio. Il titolo, Architetti dell’anima, suscita il rigore della tecnica costruttiva applicato all’immaterialità del mondo psichico, la maestria di un tocco esperto sulle corde di un territorio misterioso, affascinante, inesplorato.
Eppure, una volta terminata la lettura del libro, della metafora freudiana dell’iceberg non resta che uno di quei famosi meme da social network. Il risultato è una controstoria della psicoanalisi che ha il retrogusto della vendetta. Sulla sommità, what they see: intellectual and brilliant people; sul fondo, what they don’t see: scandal, excess, jealousy, envy, sex, political matters, clowns, inchoerence, madness …
Ayan non perde infatti occasione di mettere in bell’evidenza la famosa freddura dello scrittore Karl Kraus per cui la psicoanalisi sarebbe in verità la malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia. Solo alla fine del testo, nella postfazione, l’autore dichiara il dilemma che ha voluto mettere in evidenza nel ritrarre i vari personaggi: tutti hanno concepito grandi idee e dottrine influenti, ma allo stesso tempo sono rimasti prigionieri delle loro teorie e del loro ego. Non manca infatti di sottolineare come, nelle diatribe tra psicoanalisti, l’oggetto di contesa spesso non fosse l’argomentazione teorica quanto piuttosto la smania di prevalere gli uni sugli altri. Che il punto, secondo lui, fosse una lotta di prestanza fallica tra uomini è ben chiaro quando afferma che, se i professionisti odierni sono molto meno dogmatici o prevenuti rispetto ai pionieri del passato, è perché oggi gli analisti sono per la maggior parte donne.
Senz’ombra di dubbio, un merito del testo è di aver dato spazio e dignità alle menti femminili dello scenario psicoanalitico. Sabina Spielrein – per citare il caso più emblematico – non si limita a essere l’oggetto sessuale di Jung, ma è riconosciuta anche come la pioniera della celebre teoria freudiana della pulsione di morte espressa in Al di là del principio di piacere, concetto di cui Freud avrebbe tratto una copia approssimativa, che non riesce a rendere giustizia alla raffinatezza della concettualizzazione originaria.
Allo stesso modo, ripercorrendo la nascita della terapia comportamentale, l’autore affianca al famoso esperimento – presente in tutti i libri di psicologia generale del mondo – del piccolo Albert e il topo a opera di John Watson, quello dimenticato ma altrettanto importante di Peter e il coniglio di Mary Cover, definita per l’appunto la «madre della terapia comportamentale» (p. 186).
L’autore appare per certi aspetti un progressista illuminato, e persino cortese: se gli uomini sono dipinti come dei vecchi barbosi in perenne competizione reciproca, le donne sono gli angeli del focolare psicoanalitico che hanno salvato la teoria e la pratica dell’inconscio da una deriva egocentrica pressoché inevitabile. Slancio che, agli occhi di una donna – e di questi tempi specialmente –, potrebbe anche suonare apprezzabile. Non fosse che i trattamenti di favore, ormai dovremmo averlo capito, non sono propriamente la migliore espressione della parità di genere. E che questa predilezione verso le donne può essere letta cinicamente come il segno di un’assenza di competizione dettata non da vera e propria stima, ma esattamente dal suo opposto, e cioè dal non ritenere il loro contributo davvero all’altezza. Cinismo a parte, una lettura alternativa e più bonaria potrebbe prendere in considerazione una semplice debolezza per il gentil sesso, in fondo non così diversa da quella che c’è alla base dei tanti affaire descritti nel testo.
Che si opti per l’una o l’altra lettura, l’effetto complessivo è comunque quello di rendere la storia della psicoanalisi una pantomima. Nelle ultime righe del libro si legge chiaramente che, per l’autore, Freud e colleghi, seppure mossi da una geniale ambizione, hanno reso l’architettura dell’anima una vera e propria professione, aggiungendo che coloro che vogliono misurare il proprio benessere solo in base ai loro parametri rischiano di soffrire due volte: per la propria situazione una prima volta, per l’incapacità di superarla una seconda. Viceversa, affidarsi alla terapia cognitivo-comportamentale garantirebbe secondo Ayan un’efficacia maggiore grazie alle presunte prove di validità che gli esponenti di tale orientamento si sarebbero dati la pena di mettere a punto.
L’effetto che consegue alla lettura del testo è un disorientamento che deriva dallo scarto tra la posizione da cui parla Ayan e quello che dice, tant’è che la domanda che viene da porsi è se l’autore conosca realmente ciò di cui scrive. Vi sono, infatti, tre questioni che sembrano tradire la prospettiva di cui si fa portavoce.
Il primo riguarda un’esposizione della materia psicoanalitica che appare superficiale: al netto di molti episodi sensazionalistici e dati biografici estratti ad hoc, di psicoanalisi vera e propria c’è poco. Il che non sarebbe un grande problema, non fosse che il sottotitolo del testo è proprio Il secolo della psicoanalisi e non Il secolo della psicoterapia, accorgimento che forse avrebbe aiutato a digerire qualche eccesso di generalizzazione.
Il secondo aspetto è di natura epistemologica. Se è vero che per articolare la teoria non è necessario passare attraverso l’esperienza soggettiva di una cura analitica (come mostrano lo stesso Freud, che si è sottoposto a nulla più che un’auto-analisi, o Jacques Lacan, che accoglieva nella propria Scuola specialisti di discipline assai lontane da questo campo), è pur vero che l’autore tocca dei punti che, per poter essere argomentati a fondo, necessiterebbero forse di un maggiore coinvolgimento personale. In altre parole, Ayan liquida la complessità della questione metodologica attorno alla trasmissibilità del sapere analitico con una semplificazione, quella per cui se la psicoanalisi non si adatta perfettamente ai criteri di oggettività della scienza non è per la sua peculiare concezione della soggettività, bensì per pigrizie o antipatie da parte degli studiosi nei confronti del cosiddetto approccio evidence-based.
Il terzo riguarda la finalità del testo: scavare una mancanza nel luogo dell’origine, del Padre della psicoanalisi, della storia da cui si proviene, lasciando trasparire un certo compiacimento nel farlo. Il risultato è, perciò, una decostruzione a cui non consegue alcun tentativo concreto di ricostruzione. Se da un lato Ayan accusa i suoi maestri della lotta per il prestigio fallico, dall’altro sembra volervi prenderne parte.
Il punto non è tanto quello di aver risvegliato rappresentazioni che portano a galla la natura contraddittoria della disciplina psicoanalitica o i lati umani (e talvolta scabrosi) che hanno tratteggiato la genialità dei personaggi di questa storia. Si sa bene, infatti, che la complessità della soggettività di cui la psicoanalisi prova a dire e fare qualcosa non potrà mai essere ridotta all’oggettività rassicurante di un database. Ed è risaputo che la genialità si colloca sempre sul polo estremo rispetto a una condizione di normalità, e che la sua capacità creativa è proprio l’esito di questo eccesso. Piuttosto, la questione problematica è la modalità degradante con cui Ayan critica strenuamente qualcosa di cui, chi ha esperienza diretta, può testimoniare importanti effetti trasformativi che qui appaiono sommersi senza particolari ragioni. È, cioè, l’esito della disarmonia tra ciò che il testo promette e ciò che rivela: laddove ci si aspetta di trovare il blu del mare dell’inconscio, ci si ritrova con un romanzo rosa che, seppur piacevole, disattende una promessa. L’armonia, semmai, sta tutta qui: è un testo interessante che va affrontato con la consapevolezza di ciò che si sta per leggere. Un libro ben riuscito sul backstage della storia della psicoanalisi che di Harmony conserva solo il nome della collana.
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Immagine di copertina:
lo studio di Freud al 19 della Berggasse in una foto di Edmund Engelman (1938).



