Non è un mistero come lo sviluppo dei mezzi di comunicazione digitale abbia causato anche la propagazione delle idee e, in particolare, delle idee dotate di un elevato potenziale di coinvolgimento emotivo. Idee radicali, nel bene e nel male, capaci di scuotere il soggetto e metterne in dubbio la concezione stessa del mondo, della realtà e del Sé. L’ecosistema digitale, in tal senso, mette a dura prova – accanto al modello dell’economia globale e ancor più di esso – la tenuta delle forme di vita tradizionali locali, la normatività e la percezione delle relazioni sociali. Non è un caso che il femminismo della quarta ondata si sia propagato in particolar modo attraverso alla rete, veicolando con sé nuove forme di militanza che hanno riplasmato da cima a fondo l’attivismo su scala globale. Un fenomeno che possiede anche lati oscuri, quali il cosiddetto slacktivism (essere militanti solo a parole, anzi, solo sui social), o la creazione di un gap tra gesto e conseguenza (come nel caso delle varie shitstorm che hanno colpito personaggi pubblici rei di aver espresso opinioni “problematiche”).

È stato poco indagato, invece, il portato affettivo di tale mutamento, ossia il modo in cui l’attivismo digitale è riuscito a propagare nuovi modi di sentire, di vivere gli affetti ed esperire la vita quotidiana. Si potrebbe far riferimento, ad esempio, al paradigma della “maschilità tossica”, connotata da tutta una serie di red flag (letteralmente “segnali d’allerta”) che possono essere tanto serie quanto ironiche: dal non aiutare nelle faccende domestiche, all’essere narcisisti cronici, dal giocare a certi videogiochi fino al compiere atti di violenza verbale o fisica. In breve, Internet si è tramutata in uno spazio attraverso il quale l’essere umano confronta, valida e riconfigura i suoi bisogni affettivi, le sue passioni e il suo desiderio, non più da un punto di vista meramente sociale e religioso ma attraverso un’incessante attività di autoanalisi etico-politica. Un fatto che, di per sé, non può essere accolto né con sdegno né con entusiasmo ma che, piuttosto, è indice di un mutamento antropologico su scala globale. Mutamento di cui entrano a far parte, di diritto, anche tutte quelle manifestazioni di dissenso reazionario che abbiamo appreso a riconoscere attraverso termini quali INCEL, tradwife, The Wall e via dicendo. Si tratta, di fatto, di una polarizzazione dialettica dell’immaginario che sta rapidamente conducendo a una polarizzazione concreta della società.

In tutto ciò, la radicalizzazione degli utenti, in particolare di quelli più giovani (dai trenta/trentacinque anni in giù), ha condotto alla rinascita di forme di vita e modelli relazionali legati all’esperienza archetipale del ’68. È il caso, in particolar modo, di quella che viene denominata “non-monogamia etica”, ossia di tutti quei tipi di relazioni affettive, erotiche e sessuali non improntate alla normatività monogama. La lista è piuttosto lunga: si va dalla classica coppia aperta all’anarchia relazionale, dallo scambismo fino alle varie configurazioni interne al poliamore. Su quest’ultimo si concentra l’interessante manuale realizzato dalla terapeuta statunitense Jessica Fern, intitolato Polisicure (Timeo 2025), un saggio denso ma anche piuttosto leggero che si è imposto tanto negli ambienti militanti quanto tra il pubblico mainstream.

Jessica Fern, Polisicure

Il volume è pensato come un vero e proprio percorso pratico: si passa dai saluti iniziali a una rapida panoramica sui vari capitoli, per poi passare a una prima introduzione teorica ai fondamenti della teoria dell’attaccamento. Le fasi successive espandono il discorso terapeutico, solitamente applicato alle relazioni monogame, ai rapporti poliamorosi, per poi addentrarsi in una serie di analisi tematiche di argomenti che vanno dalla decostruzione del Sé monogamo agli aspetti più squisitamente gestionali della vita quotidiana.

Fin dalle primissime pagine, Fern – che, è bene sottolinearlo, è specializzata in percorsi terapeutici rivolti a soggetti o nuclei familiari poliamorosi – assume una postura aperta e amichevole nei confronti del/la lettore/lettrice, impiegando un tono tipicamente americano: “anche tu puoi farcela, con un po’ di aiuto”. Ciò contribuisce a rendere il libro estremamente accogliente e scorrevole, senza impoverire in alcun modo il discorso più tecnico. La ripresa critica della teoria dell’attaccamento in chiave “poli”, in particolare, risulta particolarmente stimolante ed efficace, andando a demistificare l’utilizzo fattone finora in ambito generalista. L’attaccamento, in tal senso, non si esaurisce più (non solo nel discorso di Fern ma in quello, ben più ampio, della psicologia e della psicoterapia) nel rapporto genitori-figli, ma si riproduce e si evolve di relazione in relazione, producendo una costellazione di diversi stili di attaccamento – spesso ibridi – riguardanti le più disparate figure di riferimento: dai fratelli e sorelle agli zii, dagli/dalle insegnanti ai/alle partner amorosi, dagli/dalle amic* ai/alle conoscenti e collegh* di lavoro. Si assiste, inoltre, a una “messa in movimento” di tali relazioni, in virtù della quale i modelli di attaccamento si alterano e si modificano a seconda del contesto. Questo è senza dubbio l’aspetto più divulgativo e innovativo del libro: un passaggio di paradigma del quale Fern non è di certo inventrice, ma che si ritrova, qui, al servizio di un nuovo modo di configurare il discorso amoroso e quello sessuale.

Molto originale anche l’idea di inserire, al termine di ogni capitolo, una piccola scheda pratica – su modello di quelle che si possono trovare nei manuali di self-help –, attraverso la quale interrogarsi sulla propria storia familiare, sulle proprie relazioni, sui propri comportamenti, bisogni e desideri. Il taglio terapeutico, evidente in questo tipo di strategie comunicative, sfocia in un’attenzione certosina per il/la lettore/lettrice e sugli aspetti pratici della questione. È in ciò che il saggio si distingue da altri importanti volumi sul tema, in particolare quello della teorica e scrittrice spagnola Brigitte Vasallo, Per una rivoluzione degli affetti (uno dei più noti e completi, edito in italiano da Effequ nel 2022), e l’ottimo Sovvertire le intimità dell’attivista torinese transfemminista Nicole (Nic) Braida (Meltemi 2025, pubblicato nella collana Culture Radicali, curata dallo storico collettivo Ippolita). Se in questi altri due volumi la critica economico-politica domina l’orizzonte argomentativo, in Polisicure troviamo un grande respiro etico e antropologico, caratterizzato dalla necessità di introdurre il/la lettore/lettrice a sé stesso. In totale controtendenza rispetto alla vulgata militante, l’obiettivo generale del saggio consiste in una presa di coscienza e, pertanto, nel raggiungimento di un’autocoscienza primaria, della dimensione etico-affettiva dell’individuo, inquadrato in quanto nucleo fondamentale della società. Un punto di arrivo di certo condizionato dalla stessa strumentazione impiegata, ossia dall’approccio psicoterapico.

È mia opinione che, anziché rappresentare un difetto, tale approccio, per così dire, “personale” (addirittura personalista, in senso pienamente cristiano), rappresenti un importante punto di svolta: una chiamata o interrogazione rivolta al soggetto immerso nel flusso irriflesso della vita quotidiana, dell’esistenza generico-normativa e del desiderio del grande Altro.

Non mancano passaggi più problematici. Pur avendo un’infarinatura filosofica, di livello poco più che intermedio, delle principali correnti psicoanalitiche (Freud, Jung, Adler e Lacan), non ho potuto fare a meno di sorridere dinanzi alla (fortuitamente) breve esposizione di un paio di casi clinici dell’autrice. Qui emerge una certa superficialità del punto di vista, tipica degli ambienti statunitensi, la quale, pur non rischiando di inficiare il libro in sé, dimostra l’enorme necessità di una nuova prospettiva psicoanalitica sul tema del poliamore. Un altro punto critico, inoltre, è rappresentato dall’attribuzione del desiderio poliamoroso a quelle che potremmo definire “tendenze naturali soggettive” di taluni individui, soggetti che avrebbero semplicemente bisogno di intrattenere rapporti con più partner. È inutile sottolineare quanto ciò sia in controtendenza rispetto a duemilacinquecento anni di pensiero filosofico occidentale, nel corso dei quali è stato dimostrato che tendenze e inclinazioni rientrano appieno nel raggio d’azione delle antropotecniche (ossia tutte quelle pratiche volte a modificare e perfezionare il comportamento umano, dallo sport alla religione, dalla pedagogia alla tecnologia e via dicendo). Possiamo e, alle volte, dobbiamo intervenire su ciò che proviamo, affetti e passioni, dal momento che farsi definire da esse significherebbe essere quello stesso affetto o quella stessa passione, ovvero corrispondere a essa in un modo che nega del tutto la soggettività. Filosoficamente parlando, si tratta di un vero e proprio scivolone rispetto al portato etico del testo.

D’altra parte, tuttavia, si tratta di un testo che mi ha profondamente turbato – al punto da costringermi più volte a interrompere la lettura. Partendo da una prospettiva molto critica, non mi aspettavo in alcun modo che Polisicure potesse mettere in campo una tale capacità di aprire radure di autentica introspezione. La mia obiezione principale consisteva, e consiste tuttora, in una controargomentazione tridentina al paradigma poliamoroso. Tradizionalmente, a seconda della propensione e dell’esperienza personale, siamo stati addestrati a riconoscere a colpo d’occhio almeno due domini tra tutti quelli che governano l’andamento delle cose: 1) il dominio della natura, nel quale i sistemi mutano o con estrema lentezza o in modo catastrofico; 2) il dominio della cultura, nel quale si assiste ciclicamente a periodi di stagnazione, seguiti da periodi di accelerazione estrema.

Nel primo caso, il poliamore si ritrova a dover fare i conti con l’evoluzione psicologica di Homo Sapiens: la psicologia evoluzionistica, di fatto, ha ampiamente dimostrato che, pur non esistendo alcun modello relazionale rigido, il corpo e la mente mantengono un elevato livello di attivazione nei confronti di tutti quegli eventi che mettono a rischio la stabilità esistenziale, economica ed emotiva del soggetto. In tal senso, il poliamore si presenta come il più “innaturale” (immaginate una lunga, lunghissima serie di virgolette) dei paradigmi affettivi. È utile ricordare che i nostri geni non affondano radici solo nella grande famiglia dei primati, ma si spingono fin nei recessi dell’organizzazione biologica, passando dai mammiferi ai rettili; in breve, noi non siamo solo ciò che pensiamo di essere. Questa stessa critica, tuttavia, mette in luce l’ambizione prometeica coltivata e promossa dal modello poliamoroso. La lotta per il proprio desiderio è, innanzitutto, una lotta contro sé stessi e contro milioni di anni di storia naturale. Tale aspetto viene ampiamente affrontato da Fern, seppur sottotraccia, nei vari passaggi dedicati all’attivazione dell’amigdala, dei nostri controllori ansiosi e dei vari meccanismi di difesa primitivi, per affrontare i quali l’autrice offre un buon ventaglio di consigli pratici – ispirati alle classiche tecniche di grounding e autoanalisi impiegate nella terapia degli stati ansiosi, degli attacchi di panico e delle crisi dissociative.

Nel secondo caso, quello riguardante il dominio della cultura, ci si trova semplicemente al cospetto dell’egemonia monogama. Tale fatto – un fatto bruto, che manifesta in sé tutta la violenza del Reale – pone, ancor prima di una lunga serie di problemi giuridici e sociali, una sorta di “autolimitatore mentale”. Esempio di ciò è la diffusione, risalente già alla seconda metà del Novecento, del modello poliamoroso gerarchico, nel quale una rosa di individui privilegiati controlla e manipola arbitrariamente i partner esterni. Qua sta tutta la potenza etica del discorso di Fern. Se nel dominio della natura il soggetto si afferma in maniera prometeica sul retaggio ancestrale, in quello della cultura si assiste a un conflitto di tipo storico, attraverso il quale lo spirito si emancipa dalle catene della norma e della legge. In termini heideggeriani, si potrebbe dire che l’esserci del soggetto – il suo essere qui e ora, in questo specifico contesto storico, geografico e culturale – determina, nel poliamore, un essere-con-gli-altri che espande all’umanità intera il modello relazionale del matrimonio. È facile accorgersi di come tale aspetto condivida diversi punti con l’originale messaggio cristiano: entrambi comportano la creazione di una rete diffusa di relazioni orizzontali, informali e autenticamente non gerarchiche, fondate su un modello di universalità etico-antropologica. Osservato da questa bizzarra prospettiva sopraelevata, il paradigma monogamo appare nella sua piena dimensione reazionaria, ossia nel suo goffo tentativo di vincolare l’amore alla sua forma ristretta ed economicamente sostenibile.

Solo negli ultimi anni si è cominciato a indagare le modalità attraverso le quali il capitalismo penetra all’interno della coscienza soggettiva, condizionando dall’interno il pensiero, i desideri e la volontà stessa degli individui (tra i principali capisaldi di questo filone troviamo Slavoj Zizek, Shoshana Zuboff e Mark Fisher); si tratta, in fondo, del naturale sviluppo del concetto marxiano di ideologia. In ambito poliamoroso, questo genere di infiltrazioni parassitarie sono state ampiamente evidenziate da Vasallo nel suo saggio, ma rappresentano comunque un ostacolo concreto alla creazione di autentiche relazioni poliamorose – così come a quella di autentiche relazioni monogame. L’interrogativo che mi si è più volte posto davanti, e che ritengo essere la domanda fondamentale rispetto all’etica del poliamore è il seguente: siamo davvero sicuri che il nostro desiderio di ampliare il nostro vissuto relazionale non sia un effetto collaterale del paradigma consumista?

La risposta non può che consistere nell’autoanalisi e nella sperimentazione consapevole, ovvero nell’applicazione autenticamente etica della monogamia e della non-monogamia. Anche in questo caso, pertanto, il paradigma poliamoroso dà sfoggio di sfumature post-romantiche (in senso non solo storico-filosofico), prestandosi a una reinterpretazione affettiva dell’oltreuomo nietzschiamo, il quale è, per l’appunto, l’individuo-comunità capace di affermarsi per mezzo di un amore eccedente e incondizionato.

Vi è, infine, un terzo punto, che corrisponde alla dimensione spirituale individuale. Per certi versi, si tratta di un’ovvia conseguenza dei due punti precedenti e dei loro aspetti più critici. Aprirsi al paradigma poliamoroso significa, innanzitutto, entrare in lotta con sé stessi o, meglio, con ciò che non si è davvero: con le scorie, i traumi, le eredità, i condizionamenti, i geni egoisti, le aule polverose, le moine e i rimproveri dell’Altro e così via. Un duro, durissimo processo di spoliazione che, tappa dopo tappa, conduce alla purificazione del desiderio, ossia all’integrazione degli aspetti più perversi e problematici della psiche all’interno del nucleo centrale del Sé. Quello che si potrebbe definire un percorso dialettico, mirato al riconoscimento dell’Io tramite l’assimilazione di ciò che si è proiettato all’esterno in quanto altro-da-sé. Fa molto bene Fern, in tal senso, a scuotere il/la lettore/lettrice, incalzandol* a prendere in considerazioni i suoi bisogni e il suo desiderio: uno sprone che, a una lettura superficiale, può apparire come un rimando all’individualismo liberale ma che, in realtà, non fa che incitare alla scelta e, pertanto, all’azione – al “devi cambiare la tua vita” di rilkeana memoria. Il parallelismo con la dottrina cristiana, in tal senso, mostra come il poliamore sia fondato su un tentativo – tanto concreto quanto affermativo – di trascendere la natura, la storia e addirittura l’Io, producendo una vera e propria dottrina etica.

Mi auguro che l’invito dell’autrice possa essere accolto da figure dotate della giusta profondità e ampiezza di sguardo, capaci di traghettare tali interrogativi al di là della banalità e della superficialità della rete, della letteratura di consumo e dello scambio commerciale tra terapeuta e paziente. Nel mentre, Polisicure rappresenta il più ampio spazio letterario nel quale poter ingaggiare, direttamente sul piano personale, l’ambito degli affetti e delle relazioni. Un motivo più che sufficiente per ringraziare la casa editrice romano-palermitana Timeo e iniziare a leggere il manuale di Fern.

 


Immagine di copertina:
Tomás Saraceno, Stillness in Motion

 
Crowdfunding Associazione Ibridamenti APS