Nella logica niente è casuale: se la cosa può comparire nello stato di cose,
allora la possibilità dello stato di cose dev’essere già implicata nella cosa.

Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, §2.012

 

Con questo suo quarto romanzo, la scrittrice giapponese Rie Qudan si è aggiudicata nel 2024 il prestigioso Premio Akutagawa. Un evento che ha fatto scandalo in Occidente, per via dell’impiego da parte dell’autrice di Chat GPT in fase di stesura e revisione. Come dichiarato dalla stessa autrice, tuttavia, l’ammontare del contributo da parte dell’intelligenza artificiale sarebbe pari a circa il 5% del testo; un quantitativo compatibile con il numero di scene nelle quali i personaggi conversano con un chatbot. Nondimeno, tanto la scelta di impiegare questo tipo di supporto, quanto quella della giuria di riconoscere l’autorialità di Qudan, hanno suscitato perplessità nella critica specializzata e nel pubblico.

Tokyo Sympathy Tower si presenta sin dal suo esordio come un oggetto anomalo. Una caratteristica amplificata dalla veste grafica, preservata intatta nell’edizione italiana (L’Ippocampo 2025): una sorta di esposizione naturalistico-brutalista-armocromatica dello skyline di Tokyo, che rimanda, al tempo stesso, a una fredda artificialità e a una profondissima oggettività di matrice buddhista.

Tokyo Sympathy Tower

Sarà bene evidenziare fin dall’inizio, inoltre, che ci troviamo di fronte a un’ucronia – ossia a un romanzo di fantascienza – che assume come proprio punto di singolarità l’avvenuta costruzione dello stadio per le Olimpiadi di Tokyo del 2020, a opera della defunta archistar Zaha Hadid, e l’attualizzazione dei giochi. Un evento che, in questo universo parallelo, è costato la vita a migliaia di persone, per via del COVID, e che ha costituito un punto di non ritorno nella gestione del patrimonio pubblico dedicato alle grandi opere.

L’impianto narrativo è benedetto da un’intuizione di rara bellezza e profondità speculativa. Sulla scia di Hadid, l’architetta Makina Sara viene incaricata di erigere una torre penitenziaria ispirata agli scritti del più grande filosofo contemporaneo giapponese, inventore di una speciale categoria atta a designare chi è caduto preda della sventura economica e sociale: l’Homo miserabilis. Il “miserabile”, in tal senso, non corrisponde più al criminale ma a un soggetto vittima delle circostanze, della natura o dell’ignoranza e, pertanto, costitutivamente innocente. Questa purezza del miserabile lo rende addirittura specie a parte rispetto all’Homo felix, l’individuo fortunato, che ha potuto godere dei privilegi del benessere, della salute e della conoscenza. La Tokyo Sympathy Tower incarna sul piano materiale tale principio e tale differenza, realizzando la segregazione del miserabile in un ambiente protetto, nel quale poter realizzare pienamente sé stesso al di là delle dinamiche del consesso civile. Fin da subito, Sara si rende conto che la Torre pone due diversi problemi: da un lato, essa ha in sé, anzi, nel suo stesso nome, qualcosa di sbagliato, una sottile sofisticazione del linguaggio e della significazione; dall’altro, essa costituisce la risposta all’interrogativo urbanistico ed esistenziale già posto dallo stadio di Hadid. Entrambi gli aspetti vengono esplorati in maniera assolutamente non didascalica, ponendo l’accento sul ruolo della responsabilità individuale e collettiva nei processi storici. Chi siamo noi, per tentare di dirigere il corso del mondo attraverso manipolazioni, inganni e sotterfugi? È il linguaggio stesso, infatti, a scavarci dentro e a condurci ben al di là di noi stessi, delle nostre intenzioni e dei nostri desideri.

Al centro dell’opera troviamo una riflessione sugli spazi sicuri e forzosamente neutri della comunicazione sociale: ciò che fa sì che l’esperienza pura venga filtrata secondo le categorie sterilizzate (e molto vicine al sentire giapponese) del rispetto e della pietà. Una forma di ingegneria sociale di cui l’IA rappresenta l’apice, in virtù della sua totale e disarmante vaghezza e generalità linguistica. È in tale cornice che lo stesso miserabile è oggetto, al contempo, di un processo di restituzione della dignità e di emarginazione totale, divenendo colui che è degno di simpatia o, meglio, “empatia” – una definizione che Qudan deriva dal concetto di Homo sacer elaborato da Giorgio Agamben.

Già in questa fase, dal punto di vista estetico e stilistico, si possono maturare alcune prime osservazioni di carattere generale. La semplicità e la limpidezza della scrittura di Qudan, di fatto, ruotano in maniera vertiginosa attorno all’inesprimibile profondità e complessità dell’animo umano e del mondo condiviso. Lo stesso intervento dell’intelligenza artificiale non fa altro che sottolineare in maniera ossessiva che «[i] limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (Tractatus, 5.6). La chiarezza, in tal senso, si configura come il presupposto per una ricerca autentica, alla quale lo stesso andamento dell’opera deve necessariamente essere piegato.

Mi è stato fatto notare, in almeno tre occasioni, il depotenziamento della trama realizzato da Qudan nella seconda parte del libro. Ciò, tuttavia, non dovrebbe sorprendere, dal momento che l’obiettivo dell’autrice è, in primo luogo, speculativo e, in secondo, affettivo. L’opera orbita attorno a un’indagine serrata sul nesso tra linguaggio, struttura, interiorità ed esteriorità; ragion per cui trama e intreccio vengono deposti, in favore di uno studio dei modi nei quali tali ambiti si sovrappongono e si intrecciano. La costituzione di una vita, in tal senso, non differisce dalle parole che vengono impiegate per costruirla e renderla tangibile al mondo; ancor più se tale vita assume uno statuto esemplare, quale quella della protagonista. Lo stesso, a maggior ragione, vale per una storia che ambisca a farsi monumento. Tokyo Sympathy Tower è un edificio narrativo che è disposto a implodere e collassare, piuttosto che cedere alla significazione da parte del grande Altro della Letteratura maiuscola.

Non ci troviamo poi così distanti dai fasti di Dazai o dello stesso Akutagawa. Chiunque può leggere questo romanzo e interrogarsi sulle questioni che pone, determinandosi nell’atto stesso della lettura. Si tratta, in tal senso, di un’opera dal sofisticato gusto popolare.

Non meno interessante è il rovesciamento che l’autrice opera nel finale. Makina Sara tende e radica se stessa nella forma più pura e astratta del linguaggio, là dove esso si fa struttura e, infine, mondo. Il suo tentativo di esprimersi e costituirsi in quanto soggetto tramite l’architettura viene ben presto soverchiato dal desiderio di divenire lei stessa struttura, di accedere a una dimensione permanente e iper-significante del linguaggio. Ne deriva una concezione trascendente del linguaggio, della storia, della vita e dell’architettura, molto distante dai ben più tiepidi lidi della letteratura contemporanea.


Immagine di copertina:
Zaha Hadid, progetto per il nuovo stadio olimpico di Tokyo

 
Crowdfunding Associazione Ibridamenti APS