[Recentemente è stato pubblicato un libro a cui ho partecipato, “Politiche dell’autismo. Etica, epistemologia, attivismo”, curato da Alberto Bartoccini, Lorenzo Petrachi e Giulia Russo per Derive/Approdi. Su Ibridamenti è stato presentato, in modo abbastanza approssimativo ma ordinato, da Popi Porrini. Si tratta di una raccolta di contributi a tema autismo radicalmente differente dalla narrazione mainstream, che finalmente ricolloca quell’orizzonte surdeterminato di non conformità alle aspettative sociali sui piani relazionale, sensoriale, cognitivo, esistentivo, che da più di ottant’anni la psichiatria chiama autismo, sul suo piano di evenienza e di pertinenza, il sociale, il politico. Lo spettro dei discorsi proposti è decisamente vario e articolato, le scritture tutte di livello; ma in particolare, per contenuti e forma, tra gli interventi trovo particolarmente efficace quello che veniamo a proporre di Marialuisa Amodio, scrittrice e traduttrice. – Enrico Valtellina]
«Stanno bene», dice la volontaria e non capisco se sia un’affermazione o una domanda.
Probabilmente pensa che io mi sia tranquillizzata vedendo che i gatti non sono in qualche garage o stanzino a marcire nella loro sporcizia, come in quei casi che finiscono sui giornali. Perché la signora C. è ricca, di buona famiglia. Ha una villa alle porte del paese, annunciata da un lungo viale alberato che da una parte confina con l’alto muro della proprietà adiacente, dall’altra con un boschetto di fichi, mandorli e noccioli. C’è silenzio, perché la strada è lontana e intorno ci sono solo campi verdeggianti con qualche casolare sparso. Oltre il bel giardino che circonda la villa c’è un’ia spaziosa di un centinaio di metri quadri e, al centro, una gabbia di circa quindici metri, con il tetto in lamiera, per cui, mi informa la volontaria, la signora C. ha speso «un sacco di soldi» da Ikea. Dentro la gabbia ci sono uno scaffale di zinco, una vecchia cuccia per cani con la porta sbarrata perché dice «la usavano per fare i bisogni, non ci dormivano», una lettiera, tre cuscini imbottiti, un tiragraffi sfilacciato, una dozzina di ciotole di plastica colorate con resti induriti di Felix (lo so perché lo spiazzo davanti all’elegante cancello era disseminato di bustine, «Io le lavo pure», ripeteva la signora C., inviperita per la sciatteria dei netturbini) e nove gatti.
Vivono lì da tre anni, senza uscire mai. Alcuni di loro ci sono nati, non hanno mai esplorato niente al di fuori della gabbia. I loro corpi non sanno cos’è una corsa. Ce ne sono anche due vissuti in appartamento. Non vanno d’accordo, mi informa la signora C. La femmina è l’unica che si avvicina e si struscia sulle mie gambe, si lascia accarezzare, mi guarda e spera. Lui non spera più. Obeso, catatonico, per tutto il tempo ha fissato un punto del pavimento di cemento, anche quello uno sforzo economico che dovrebbe testimoniare il grande amore della signora C.
«Spende un sacco di soldi per quei gatti», mi ha risposto la volontaria quando ho obiettato che quella non è vita, che nove gatti reclusi in una gabbia di quindici metri non stanno bene.
E per qualche minuto, ingannata anch’io da tutto quel verde, dal paesaggio idilliaco che potevo attraversare liberamente, ho pensato che il benessere che provavo fosse condiviso dai gatti in gabbia, un’illusione che ha informato per anni l’architettura e la locazione dei manicomi (e permea tuttora le varie residenze private con sovvenzione statale), una menzogna talmente incistata nell’inconscio collettivo da essere diventata un topos del genere horror.
Questa che ho raccontato è una storia vera senza un finale, perché lo ignoro nel momento in cui scrivo, ma è anche un espediente narrativo, una metafora che porta fuori, in un altro tempo e luogo, qualcosa di fondamentale che i personaggi non riescono a dire, o a vedere, e che solo così può essere riconosciuta, da una distanza tollerabile.
Un errore su cui vorrei portare l’attenzione, e che causa incomprensioni e alzate di scudi quando si parla di psichiatria critica o di pratiche ispirate al modello sociale della disabilità, è il misconoscimento delle intenzioni, la mancata validazione dei sentimenti.
La volontaria e la signora C. sono genuinamente convinte di agire per il bene dei gatti e che facendo altrimenti procurerebbero loro un danno. Scambiano l’avolizione, la catatonia, la depressione e l’appiattimento emotivo dovuto alla lunga prigionia e alla convivenza forzata per serenità e benessere. O comunque ritengono che sia un male minore rispetto ai rischi da cui pensano di proteggerli. Per quanto perverso e presumibilmente non ricambiato, il sentimento della signora C., quello che lei interpreta come amore, è reale.
Ma l’amore non ha niente a che fare con l’etica.
Una parola che ricorre nei racconti degli user/survivor/refuser della psichiatria è stupro. Uno stupro che ha ben poco di metaforico quando si viene sedati con la forza o legati al letto con le fasce. Un mio amico mi ha descritto il profondo sentimento di impotenza e umiliazione nei TSO subiti e ho letto decine di storie simili. L’infantilizzazione, che ho osservato in prima persona, l’esperienza traumatica del ricovero, la sensazione di aver perso il controllo sulla propria vita, l’avvelenamento semantico di ogni gesto, comportamento, caratteristica personale, che diventa fenomenologia del patologico. Come può tutto questo curare?
Ricordare che esistono le buone pratiche 1, che gli psichiatri «non sono tutti così» è come dire «gli uomini non sono tutti così» di fronte a casi di violenza domestica o sessuale. Depotenzia la legittimità delle richieste delle vittime e fa ricadere le responsabilità sui singoli e non sul sistema che consente la violenza nelle sue varie forme.
Il manicomio, che sia quello storico o diffuso delle residenze psichiatriche e SPDC, o quello «chimico» dei depot mensili e della sedazione come risposta alla crisi, non cura ed è iatrogeno. Lo dimostrano gli esiti ben più favorevoli di pratiche come il Dialogo Aperto in Finlandia o di movimenti emancipatori come il Tōjisha-kenkyū in Giappone, e le stesse statistiche dell’OMS, che evidenziano prognosi meno drammatiche sul lungo periodo nei paesi non industrializzati e, invece, cronicizzazione e ridotta aspettativa e qualità di vita nei paesi dove opera a pieno regime «la fabbrica della cura mentale» (Cipriano 2013, Whitaker 2013).
[…]
Scrive Pietro Barbetta:
«Quando si parla di salute mentale si tira in ballo lo stigma, si dice che bisogna evitare lo stigma e che non bisogna avere paura dello stigma, poi nella tessitura discorsiva che segue si sostiene il contenuto dello stigma che bisogna evitare. Per esempio: la schizofrenia ha conseguenze croniche importanti, è una patologia invalidante che necessita di cure continuative per tutta la vita. La semiologia della salute mentale somiglia a quella del gioco delle tre carte che si fa nel sottosuolo delle metropolitane milanesi».
Se il discorso sullo stigma si sviluppa all’interno del paradigma medico, è inevitabile una situazione comunicativa di doppio legame (Bateson 1972) che non aiuta chi già si dibatte in altri vincoli e assolve chi mette in atto pratiche stigmatizzanti, che se si risolvessero solo in questioni di faccia sarebbero ben poca cosa, ma sappiamo bene che si tratta di esclusione e marginalizzazione, tanto che chi può permettersi di fare passing 2 lo fa, con buona pace dei progetti di recovery e dei percorsi speciali di inserimento lavorativo, che come le retoriche delle campagne antistigma e la cooptazione di utenti che scrivono patografie, stanno alla questione come il greenwashing sta alla crisi climatica.
Osservando vari forum online e leggendo le testimonianze di persone autistiche, bipolari o schizofreniche, ho individuato di frequente una interiorizzazione della colpa che è tipica di altre minoranze oppresse e di persone che hanno subito violenza. Mi è successa questa cosa brutta perché sono autisticə. Mi trovo in questa orribile situazione perché sono [una sigla a scelta del DSM]. Mi bullizzavano perché ero diversə. Mi hanno stupratə perché ero ingenuə e mi mancava la teoria della mente.
Satsuki Ayaya, ricercatrice e attivista, scrive di come la diagnosi sia stata usata contro di lei, facendo del suo “disturbo della comunicazione” la causa dei suoi problemi relazionali e matrimoniali (nello specifico, era vittima di violenza domestica).
«Non definisco la sindrome di Asperger un disturbo della comunicazione. Altrimenti, tutti i problemi di comunicazione, inclusa la violenza domestica, sarebbero inevitabilmente attribuiti a me. La comunicazione è qualcosa che avviene tra due persone, quindi tutti i problemi di comunicazione non dovrebbero essere attribuiti a una sola persona tramite la parola “disturbo”. Dissento fortemente con gli esperti che usano il concetto malgrado ciò (2009, trad. mia).».
A partire dalla letteratura medica, si sono diffuse ovunque descrizioni disumanizzanti delle persone autistiche. Un esempio a caso, trovato sul sito web di uno dei tanti centri che vendono terapie.
«Ad essere assente o fortemente compromesso nell’autismo, è il patrimonio innato di abilità con cui ogni essere umano 3, ovunque si trovi e al di là di qualsiasi differenza etnica e culturale, riesce ad entrare in contatto con gli altri, ad intuirne bisogni, stati d’animo, aspettative».4
Da antropologa, rabbrividisco per l’uso improprio della terminologia e per accostamenti come «innato» e «abilità» (che sono apprese e culturalmente determinate) e mi chiedo se era proprio necessario fare questo scempio per dire, ancora una volta, che gli autistici mancano di empatia.
La teoria è stata già messa in discussione da Damian Milton (2012), e uno studio più recente (Harrison et al. 2020) ha indagato gli strumenti finora utilizzati nelle ricerche sull’empatia nella popolazione autistica e li ha trovati insufficienti o con gravi lacune. Se gli strumenti di misurazione sono inaffidabili o non adeguatamente validati, gli studi pubblicati finora sono carta straccia, eppure hanno avuto e continuano ad avere conseguenze importanti sulla vita delle persone, non solo in termini di terapie, che a cascata risultano altrettanto opinabili dal punto di vista scientifico, ma per la limitazione delle scelte nella realizzazione personale e per il passing a cui costringe chi voglia intraprendere determinati percorsi. Jessica Harrison, una delle autrici dello studio, racconta 5 di quando, dopo aver comunicato di essere autistica a una collega che l’aveva sempre incoraggiata a diventare psicoterapeuta, si era sentita dire che era meglio facesse la ricercatrice, perché non sarebbe mai stata in grado di capire le persone.
Benché quella di autismo sia una delle diagnosi meno prescrittive, per l’ampiezza dello spettro e l’imprevedibilità del decorso, non è infrequente che influenzi e limiti le scelte di vita.
Nel saggio Shame on Wrong Planet di K. Krause-Jensen e R. Rodogno (2023), una donna rinuncia al sogno di avere una famiglia perché ritiene che, essendo autistica, non potrà realizzarlo. Il lato oscuro della diagnosi psichiatrica, tanto più insidioso e nascosto in quella di autismo senza disabilità intellettiva e, in genere, nelle condizioni dove siano presenti anche aspetti ritenuti positivi, merita una trattazione a parte; qui intendo focalizzarmi su un’altra triade, quella del desiderio mimetico di René Girard (il triangolo soggetto, modello, oggetto desiderato alla base dei conflitti), non tanto per spiegare la sofferenza dei gatti in gabbia, ma il delirio che la signora C. e la volontaria chiamano cura.
Una diagnosi in età adulta è per molti un’assoluzione, un «verdetto di non colpevolezza» (Punshon et al. 2009). Il paradigma psichiatrico riveste il ruolo che René Girard attribuisce al cristianesimo: l’outsider, vittima sacrificabile che libera la comunità dalla violenza mimetica, è riconosciuto innocente. La devianza morale del pazzo è diventata prima malattia morale poi un disturbo organico «come il diabete».
È comprensibile che, dopo essere stati colpevolizzati per tutta la vita, come se si potesse essere come gli altri per un puro atto di volontà, la diagnosi attenui il peso della vergogna e, consentendo di perdonarsi, abbia un effetto positivo (a prescindere dal grado di indesiderabilità sociale dell’atipia, benché tale effetto sia rafforzato con diagnosi che presentino anche aspetti positivi o percepiti come tali nella narrazione della cultura di riferimento. Il disturbo bipolare è associato alla genialità e alla creatività. In Corea del Sud l’autismo è molto più stigmatizzato che negli Stati Uniti).
Ma è un’assoluzione senza libero arbitrio quella del sacerdote/psichiatra, che nel momento in cui lo discolpa, blocca l’outsider nel modello negativo, come Han Solo congelato nella carbonite.
Prima di continuare, darò qualche coordinata del pensiero di René Girard. L’oggetto del desiderio non ha qualità intrinsecamente positive. Tutto ciò che desideriamo dipende dalla relazione con le persone che eleggiamo a modelli di riferimento. Riconosciamo in loro la felicità per il possesso di un determinato oggetto (tutto ciò che è desiderabile: la relazione con una persona, una qualità come l’essere magri, intelligenti, generosi, una carriera, uno status sociale ecc.) e ne deduciamo che dobbiamo ottenerlo anche noi per essere felici. Il mimetismo del desiderio implica che ci siano modelli positivi e negativi, e quando sono in tanti a rivaleggiare nascono inevitabili conflitti che la comunità, per non soccombere, risolve con il sacrificio di una vittima, un outsider che riassume in sé i tratti di modelli negativi, qualcuno che abbia segni fisici o morali che rendono difficile l’identificazione e che, pur vivendo nel gruppo, non ne faccia realmente parte e non sia indispensabile alla sua sopravvivenza. L’outsider non può essere un modello e dunque, nel caso della sua eliminazione, non genera vendetta, perché ci si identifica solo con l’assassino, reale o simbolico.
Questo risponde in parte alla domanda iniziale, spiegando perché del manicomio, in tutte le sue forme, sfugga la violenza, che non è sanzionata e non provoca generale riprovazione, ma viene accolta come inevitabile.
Tornando ad Han Solo nella carbonite, se la persona non potrà essere un modello positivo, un mediatore degno di imitazione, ciò che possiede e rappresenta non è desiderabile, è un inconveniente, un disturbo che si tenterà di curare e se curare non si può, di tollerare.
Ricordo la conversazione con una madre che cercava di difendere il figlio omosessuale dall’intolleranza del padre. «Non ha scelto lui di essere gay, è nato così». Non ha scelto lei di essere autistica, è nata così. Not guilty verdict. Nella contesa mimetica, l’outsider rimane tale e dunque una possibile vittima sacrificale, ma innocente.
L’identità degradata non può accontentarsi dell’innocenza per emanciparsi, ma deve mettere in discussione le logiche della desiderabilità sociale. L’identità è un costrutto culturale e in quanto tale è sempre negoziabile; affinché si affermi come whole e non spoiled, come mediatrice del desiderabile, deve poter essere una scelta (Non si nasce donna, diceva Wittig citando De Beauvoir).
Nel discorso affermativo sull’autismo e non solo, si sono eletti dei modelli positivi, iscrivendo nella condizione personalità eminenti del passato e del presente. Scienziati, artisti, CEO, attori famosi, persino politici e calciatori. In pratica, i modelli dominanti, gli eroi della società capitalistica, ma con l’autismo. La Barbie autistica.
È un campo di contesa in cui chi è iscritto nella condizione è un rivale, un doppione del modello dominante, che indica la strada per la felicità nel conseguimento di ricchezza, successo, popolarità. Allo stesso modo, sono rivali gli autistici sposati, con figli, amici e magari anche una vita sociale, perché questo è il modello di socialità desiderabile (e dunque sano).
Come il femminismo neoliberista, questa narrazione dell’autismo non serve al benessere delle persone autistiche, perché innanzitutto non ne interroga i desideri, che sono spesso, per le caratteristiche della condizione, poco mimetici e mediati, ma a rafforzare i modelli esistenti, che producono sofferenza, ansia, depressione, psicosi e non ultima la nostra possibile auto-estinzione, insieme a quella dei due terzi delle altre specie su questo pianeta.
Un ragazzo, parlandomi dei suoi guai e di quelli dei genitori, invero considerevoli, disse che non erano niente, in fondo, rispetto alla sofferenza del fratello. Mi stupì molto, perché suo fratello mi era sempre sembrato la persona più felice e positiva della famiglia. Certo, non era più il bambino vivace che ricordavo, ma solo per l’effetto dei farmaci che da anni appiattivano le sue emozioni e riducevano il suo potenziale cognitivo. E quando gli domandai cosa gli fosse successo, ipotizzando un lutto, una malattia, mi rispose, come se fosse ovvio, che soffriva perché era autistico.
In un forum, un tale lamentò che la figlia, autistica senza compromissione intellettiva, stesse sprecando la sua giovinezza stando tutto il giorno chiusa nella sua stanza, invece di uscire con gli amici e divertirsi, perché quelli erano gli anni più felici e li stava buttando via. Eppure sua figlia manifestava un evidente piacere nel dedicarsi alle sue passioni, nella pace della sua stanza.
Sono due esempi di come i desideri mediati dal modello siano percepiti come gli unici mezzi per ottenere il benessere e la felicità, e se questi non possono e/o non vogliono essere perseguiti, non resta che la sofferenza, a prescindere dalle evidenze contrarie, che vengono ignorate, con una sorprendente incapacità di leggere le emozioni in soggetti reputati competenti, o svalutate/negate.
Nel primo caso, c’è una doppia proiezione sull’altro della propria sofferenza, quella effettiva, data dal carico assistenziale e dal non aver avuto il figlio/fratello desiderato, anche qui per mediazione di un modello socialmente eletto, e quella ipotizzata, che erroneamente si definisce empatica: nei panni del fratello, perdendo i mezzi per realizzare i propri desideri, quel ragazzo soffrirebbe.
Quando una persona non può competere per i comuni oggetti del desiderio (essere un membro produttivo della società, fare carriera, sposarsi e mettere su famiglia ecc.), per esempio a causa di una disabilità intellettiva, non è ritenuta nemmeno desiderante, non si contempla che possa avere desideri suoi. Questo apre la strada a varie forme di violenza e di abuso.
In altri casi, la persona potrebbe competere, ma, come Bartleby lo scrivano, preferisce di no.
William Sidis non compare mai nelle liste di modelli positivi con la sindrome di Asperger, eppure detiene tuttora il primato di persona più intelligente del pianeta. A otto anni conosceva già otto lingue e ne inventò una che chiamò vendergood, a undici anni fu ammesso ad Harvard. A diciotto si era già laureato e aveva insegnato all’università, seppure con esiti disastrosi, forse per la coerenza di esporre in greco antico la geometria euclidea. Quando lo arrestarono perché era socialista, i genitori, per evitargli il carcere, lo fecero internare in manicomio. E fin qui, incidenti di percorso. A questo punto, una biografia di successo prevede che ci sia la svolta. E c’è, ma in negativo, perché William si ritira a vita privata, svolgendo lavori umili, per dedicarsi alle sue passioni e al desiderio di conoscenza, che ha perseguito fino alla morte in totale libertà, senza i vincoli del lucro e dell’accademia. Con un QI di molto superiore a quello di Einstein, dove sono le sue scoperte, le sue invenzioni, le sue aziende, i suoi imperi finanziari? Perché non ha lasciato niente, se non qualche pubblicazione minore sui suoi interessi — matematica, cosmogonia, psicologia, storia dei nativi americani — e un poderoso volume sui tram?
William Sidis è la pecora nera dell’etica calvinista, il modello negativo per eccellenza dei nostri tempi, che porta a un livello fuori scala come la sua intelligenza il peccato mortale del vangelo capitalista: lo spreco del talento.
Io, però, non ci vedo nessun paradosso nella «vita perfetta» di William Sidis, perché è anche il mio ideale di vita e se devo pensare a un modello del desiderabile, lo eleggo senza esitazioni.
Nemmeno ai piccoli Sidis di oggi si domanda quale sia la loro vita perfetta e ci sono terapie per far emergere il Bill Gates o la Temple Grandin nascosti. L’Autism Industrial Complex (Broderick, Roscigno 2021) propone soluzioni correttive per ogni livello di autismo, perché com’è possibile che una persona, accontentandosi di lavori umili pur di passare il tempo a studiare cose non spendibili per ottenere prestigio e ricchezza, non soffra?
La perniciosa tendenza a mettersi nei panni degli altri con le proprie misure è particolarmente tossica quando i panni si assomigliano.
Nel campo 6 dell’autismo, come nel campo più ampio della salute mentale e della disabilità, la partecipazione degli autistici ai processi decisionali è particolarmente ardua e marginalizzata dagli altri attori legittimati dal paradigma medico: gli esperti in primo luogo, in secondo i caregiver, che la ostacolano anche attivamente.
Ancora prima di poter rivendicare «Niente su di noi, senza di noi», gli attivisti nella condizione devono dimostrare di essere «noi», anche quando sono già legittimati dalla diagnosi.
«Ho anche imparato che lo storpio deve stare attento a non comportarsi diversamente da quello che gli altri si aspettano. Soprattutto, la gente si aspetta che lo storpio sia storpio; che sia disabile e indifeso, insomma inferiore a loro, e se lo storpio non soddisfa queste aspettative diventeranno sospettosi e insicuri» (Carling in Goffman 2018, p. 133).
L’autistico deve essere un outsider, un modello negativo, un soggetto non desiderante o con desideri non riconosciuti e svalutati. Ma se ha un lavoro, una famiglia, intelligenza e abilità oratorie, e compete per gli stessi desideri degli altri attori in campo, è un rivale, dunque un modello positivo e imitabile. Questo manda parecchie persone in cortocircuito.
Dare per scontato che i nostri desideri, i nostri modelli siano universali e abbiano valore intrinseco, non lascia spazio a una relazione autentica, perché prima di tutto esclude l’altro (l’outsider di Girard, quello con cui la maggioranza della società non si identifica) e ne fa una potenziale vittima, o comunque, qualcuno che nel campo di contesa sociale ha semmai statuto di oggetto, non qualcuno che possa stabilire cosa abbia valore e cosa sia desiderabile.
Alle superiori, con quello spirito critico che ho sempre apprezzato in me e negli altri, e che mi rifiuto di patologizzare, dissi nell’ora di religione che la principale regola etica del Vangelo era sbagliata. Avevo dalla mia sedici anni di evidenze e prove contrarie. Non dovrebbe essere ama il prossimo come te stesso, ma ama il prossimo come un altro.
Perché se ami una persona come ameresti te stesso, la consolerai come consoleresti te stesso, con un abbraccio morbido o accarezzandole i capelli, e quando urlerà e ti respingerà per un dolore che non conosci, penserai che ti odia. Perché se la ami come ameresti te stesso, la porterai nei posti che ami, nei modi che ami, ignorando e sminuendo quello che le piace: è triste stare da soli a casa a Capodanno, è strano mangiare i fiori e mettere in fila i colori, perché sei così asociale e non giochi con gli altri bambini?
Perché se la ami come ameresti te stesso, le darai tutto ciò che ti rende felice, e quando lo rifiuterà, la chiamerai ingrata, quando invece, per non deluderti, lo accetterà, la perderai, perché non può riamare chi non sa più riconoscere cosa la rende felice, cosa le dà piacere. E amerai una persona che non esiste, mentre quella vera diventa invisibile persino a se stessa.
Bibliografia
AA. VV., Che cosa è la salute mentale, «Doppiozero», 2023.
S. Ayaya, What’s a Communication Disorder?! Developmental Disabilities and Domestic Violence, «Center for Gender Studies, International Christian University», 2009. https://web.icu.ac.jp/cgs_e/2009/12/whats-a-communication-disorder.html
S. Ayaya — J. Kitanaka (2023), Tōjisha-kenkyū, «Aeon», 2023.
G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1972.
P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001.
M. Brask, La vita perfetta di William Sidis, Iperborea, Milano 2014.
A.A. Broderick — R. Roscigno, Autism, Inc.: The Autism Industrial Complex, «Journal of Disability Studies in Education», Issue 2, 2021.
P. Cipriano, Il manicomio chimico, Elèuthera, Milano 2015.
P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale, Elèuthera, Milano 2013.
R. Girard, La violenza e il sacro, Milano 1972, Adelphi.
E. Goffman, Stigma. Note sulla gestione dell’>identità degradata, Ombre Corte, Verona 2018.
J.L. Harrison — C.L. Brownlow — A.M. Piovesana — M.J. Ireland, Empathy Measurement in Autistic and Nonautistic Adults: A COSMIN Systematic Literature Review, «Assessment», vol. 2, Issue 2, 2020.
K. Krause-Jensen — R. Rodogno, Shame on Wrong Planet, in A. Fussi — Rodogno, R. (eds.), The Moral Psychology of Shame, Rowman & Littlefield, Lanham 2023.
D. Milton, On the ontological status of autism: the ‘double empathy problem’, «Disability & Society», vol. 27, n. 6, 2012.
C. Punshon — P. Skirrow — G. Murphy, The not guilty verdict: psychological reactions to a diagnosis of Asperger syndrome in adulthood, «Autism», vol. 13, Issue 3, 2009.
R. Whitaker, Indagine su un’epidemia, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2013.
R. Whitaker, Mad in America. Cattiva scienza, cattiva medicina e maltrattamento dei malati mentali, L’Asino d’Oro Edizioni, Roma 2015.
—
1) Tengo a precisare che la mia esperienza con la psichiatria è stata tutto sommato positiva. In particolare, sono molto grata a una giovane psichiatra del CSM, persona splendida sul piano umano e professionale. Proprio perché riconosco la mia fortuna, ritengo che il diritto alla salute mentale non possa dipendere dal caso o dal privilegio.
2) Goffman (2018) identifica con passing l’insieme delle strategie, consapevoli o inconsapevoli, con cui gli stigmatizzati dissimulano, in modo parziale, totale (covering) o contestuale, la propria carenza nell’interazione con i normali. La parola viene dal gergo della malavita americana ed era impiegata anche per indicare il meticcio che si dichiarava bianco, giocando sul colore meno intenso della propria pelle.
3) Corsivo mio.
4) [NdR: questa definizione è riportata identica da numerosi siti che si occupano di diagnosi dell’autismo].
5) Jessica Harrison, Help Me to Understand Autistic Empathy, in Reframing Authism.
6) Prendo in prestito la parola dal lessico di Pierre Bourdieu: campo come spazio di contesa tra attori legittimati a produrre le regole del gioco.
—
Immagine di copertina:
August Walla, Götter, 1986, Losanna, Collection de l’Art Brut