[Intervistiamo il Gruppo Ecologia e lavoro del Projet OBERT che ha ideato e realizzato il ciclo di seminari Projet OBERT – Ecologia e lavoro, dialoghi interdisciplinari, in cui sono state affrontate di volta in volta tematiche relative alla rappresentazione del lavoro nella narrativa e nella poesia. La creazione di un Observatoire Européen du Récit de Travail (OBERT) nasce dalla collaborazione di diversi ricercatori che fanno capo al CAER (Centre Aixois d’Etudes Romanes) diretto da Claudio Milanesi, presso l’Università francese di Aix-Marseille. Si tratta di uno spazio di ricerca collettivo].

Come è nata l’idea di dedicare un ciclo di seminari al rapporto fra le rappresentazioni del lavoro nella narrativa contemporanea e la questione ecologica?

La rappresentazione del lavoro nelle sue varie forme, letteraria cinematografica poetica teatrale musicale ecc., è al centro degli interessi delle ricercatrici e ricercatori che intervengono all’interno del Projet OBERT. Questo genere di produzione artistica può essere letto a partire da vari punti di vista teorici: i concetti messi a punto dai cosiddetti subaltern studies oppure dei migration studies o ancora dei gender studies sono assai produttivi se applicati ai corpora che abbiamo riunito. Abbiamo citato non a caso gli studi sulla migrazione e quelli sul genere, perché rappresentano il fulcro di altrettanti gruppi di ricerca che si sono costituiti o si stanno costituendo all’interno dell’OBERT, quello sul genere, coordinato da Manuela Spinelli dell’Université de Rennes 2 e che, tra ottobre e dicembre, ha dato vita a nove seminari sui casi italiano francese e spagnolo (grazie anche alla collaborazione di David Becerra dell’Universidad Autonoma de Madrid e Carlo Baghetti della Casa de Velázquez), e quello sulla migrazione a cui stanno lavorando, con la collaborazione di altri ricercatori, Erica Bellia (University of Cambridge) e Alessandra Giro (Université Montpellier 3). In ogni gruppo è molto forte l’idea di ricerca partecipata, di uno scambio teorico che avvenga all’interno in modo aperto e condiviso; per questa ragione la forma seminariale ci è sembrata quella più idonea per dare forma pubblica a un dialogo che, dietro le quinte, è costantemente alimentato.
Per rispondere alla tua domanda, dunque, diremmo che l’idea del ciclo non nasce ma discende da questa impostazione generale che è stata finora condivisa dai vari gruppi di ricerca che animano l’OBERT. Entrando però più nel merito, ci siamo resi conto che nell’ampio dibattito che si è sviluppato in Europa e nel mondo accademico anglofono sull’ecologia, l’ecocritica, la critica ecologica (e le varie etichette che sono state via via applicate all’ampio e urgente dibattito), il problema del lavoro, della produzione, del contrasto tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale è centrale, ma che soltanto molto di rado questi temi vengono affrontati a partire dalle opere artistiche che tematizzano il lavoro. Grazie al lavoro compiuto da molti dei ricercatori che si possono incontrare negli incontri dell’OBERT, abbiamo riunito un corpus molto ampio di opere sul lavoro, le quali, sebbene non possano essere accomunate da un genere preciso, possono però essere ricondotte a un filone narrativo (termine inteso in senso ampio) ben identificabile. Adesso che questo filone inizia a essere definito e delimitato possiamo più facilmente interrogarlo ed è esattamente quello che abbiamo cercato di fare con il primo ciclo di seminari dedicato a “Ecologia e lavoro”.
C’è poi da aggiungere che il primo incontro, tenutosi il 25 gennaio, è stato incentrato su problematiche teoriche, e ha ospitato gli interventi di due tra le voci più importanti dell’ecocritica italiana e internazionale. Ci riferiamo a Serenella Iovino (University of North Carolina, Chapel Hill) e a Stefania Barca (Universidade de Santiago de Compostela). Pur provenendo da ambiti diversi, filosofico-letterari nel caso di Iovino, socio-politici nel caso di Barca, entrambe le studiose hanno voluto sottolineare quanto sia cruciale al giorno d’oggi riflettere sul rapporto tra il lavoro, l’ambiente e la cultura contemporanea, nelle sue forme più disparate. L’incontro ha messo al centro della discussione due testi: Ecocriticism and Italy. Ecology, Resistance and Liberation (2016) di Iovino e Forces of Reproduction. Notes for a Counter-Hegemonic Anthropocene (2020) di Barca. Nel primo, Iovino usa la prospettiva del material ecocriticism per interrogare alcuni dei paesaggi italiani più controversi e affascinanti (Napoli, Venezia, L’Aquila, le Langhe) mettendone in evidenza contraddizioni e criticità; nel secondo, Barca si propone di mettere in questione il concetto di Antropocene, un’idea prodotta dalla stessa cultura occidentale e capitalistica alla base della crisi ambientale che stiamo vivendo. In entrambi i casi, le studiose hanno messo in evidenza il potere “resistenziale” della narrazione (anche qui, intesa in senso generale) come strumento in grado di indagare la realtà e smascherarne gli infingimenti.

Il seminario ha sviluppato una curvatura esplicitamente ambientalista, fondendo i temi dell’ecologia e del lavoro. C’è un riferimento esplicito a una certa teoria, oppure l’ispirazione è esclusivamente critico-letteraria, in relazione con i recenti sviluppi dell’eco-critica?

Ognuno di noi proviene da una formazione incentrata sulla letteratura e sulla critica letteraria. Da una parte, crediamo che l’analisi strettamente letteraria sia ancora valida in quanto frutto di conversazione tra specialisti disciplinari. Ma dall’altra parte, il grande vantaggio degli environmental humanities – e crediamo tutti di averne sentito il bisogno – è di essere interdisciplinari, transdisciplinari o addirittura non-disciplinari, di invitare e coniugare i contributi dell’antropologia, della filosofia, della storia e di trarre spunto persino dalle scienze naturali. Che cosa può offrire la fisica allo studio della letteratura? Fino a pochi anni fa, la domanda avrebbe forse provocato delle risate, ma oggi sta diventando occasione per pensare con/attraverso/contro le discipline stesse, il modo in cui la nostra società abbia organizzato il sapere (che, come ci ricorda Foucault, non è né ovvio né insignificante). Potremmo porre una domanda più vicina al nostro interesse nell’ecologia: È possibile fermare il riscaldamento globale senza pensare in modo diverso? Anche gli scienziati rispondono di no, ed è qui che le rappresentazioni artistiche possono dare un loro contributo. Tutto questo per dire che non è nelle nostre intenzioni difendere una certa teoria ma piuttosto aprire al dialogo di teorie che sono state elaborate in contesti spesso indipendenti. Se c’è qualcosa che accomuna tutti noi è la convinzione della continuità – e non la rottura – tra società e ambiente, essere umano e mondo.

Nel corso degli incontri avete riflettuto sul rapporto tra ecologia e lavoro nelle sue diverse declinazioni (teoriche, narrative, poetiche e cinematografiche). Il terzo incontro in particolare è stato dedicato alle poetiche di Laura Pugno e Italo Testa. Quali questioni sono emerse e in quale modo ritenete che siano centrali nella rappresentazione contemporanea della società?

Sono numerose le questioni emerse durante l’incontro con Laura Pugno e Italo Testa. Entrambi portano avanti con strumenti propri una riflessione sull’Umwelt (letteralmente ‘ambiente’), ovvero, come illustra Niccolò Scaffai in Letteratura e ecologia, lo spazio di relazione, la modalità di coesistenza non egocentrata tra il soggetto e ciò che si trova sul suo stesso territorio; esso include anche quello che con Gilles Clément definiamo Terzo paesaggio, vale a dire i luoghi abbandonati o intoccati dall’uomo, come le aree industriali dismesse o i bordi delle strade. La loro riflessione si avvale almeno di due concetti chiave: quello di ambiente non umano, che Pugno desume da Mindscapes dello psichiatra Vittorio Lingiardi (a sua volta attinto allo psicanalista statunitense Harold F. Searles) e che percorre la sua produzione poetica già da Il colore oro (Le Lettere, 2007); e quello polisemico di indifferenza naturale, che Testa elabora sin da La divisione della gioia (Transeuropa, 2010) e che allude non soltanto a un’alterità in senso leopardiano, ma anche, per influsso etimologico, alla mutua correlazione di elementi eterogenei che (ri)configurano, seppur in modo conflittuale, drammatico, non sempre pacificato, la nostra forma di vita. Nei Camminatori testiani – che nelle parole dell’autore fanno allusione (anche) all’invisibilità sociale – interagiscono tra loro, e anzi chimicamente reagiscono, paesaggio urbano e lavoro sociale, componente non umana e postumana.
Per quanto concerne la seconda parte della domanda forse la poesia, più che rappresentare, interpreta. È uno strumento di lettura duttile, adattabile, comprimibile – per riprendere dei termini utilizzati dai nostri ospiti – che da una prospettiva altra e per mezzo di un codice formale per sua natura straniante permette di cogliere e mettere a fuoco alcuni nodi centrali della realtà (del rapporto dell’uomo con la realtà) in tutta la loro problematicità. Non è detto che il o la poeta voglia o debba esplicitamente denunciarli o risolverli: intanto ci permette di visualizzarli.

Da ciò che avete avuto modo di ascoltare, vi sembra che esista una problematica centrale e comune alle diverse forme letterarie attorno a cui ruota la rappresentazione, con particolare riferimento all’evoluzione della forma romanzo?

Il romanzo, come ogni forma letteraria, non si limita a raccontare il mondo, ma propone di stabilire nelle sue strutture linguistiche un particolare rapporto con esso. Questa l’intuizione di Eco nel suo saggio Il modo di formare come impegno sulla realtà (1962): quando noi leggiamo un romanzo, una poesia, quando guardiamo un film, quando consideriamo – perché no? – un apparato teorico o metodologico, pratichiamo una maniera di stare al mondo, una maniera di conoscere l’altro e di comprendere, magari di cambiare, la nostra relazione con l’esterno. Ecco: è questa una problematica centrale che ha trovato voce in tutti i nostri dialoghi, specie quando si parlava del tema corpo.
Dalla prima riflessione teorica con Iovino e Barca, fino all’ultimo incontro sul cinema documentario, che ha ospitato le importanti voci di Chiara Sambuchi e Daniele Atzeni, la tematica del corpo si è rivelata fondamentale, non solo sul piano rappresentativo ma anche e soprattutto su quello performativo: alla narrazione e alla rappresentazione del corpo il compito di “materializzare” il testo, alla “corporeità” del testo la funzione di evidenziare le interconnessioni sostanziali tra ambiente naturale (corpo sensibile, materia che contiene storie) e spazio umano di produzione (corpo dei lavoratori, corporeità dello spazio fisico entro cui il lavoro si insinua e si problematizza).
Serenella Iovino impiega sovente l’espressione bodily narrative, “corporeità narrativa”, ed è proprio nella porosità di questo concetto, nella complessità del tema del corpo, che probabilmente si ritrova, in materia di ecologia e lavoro, il senso dell’intuizione di Eco: la possibilità concreta di praticare, nel testo e attraverso il testo, nuove maniere di conoscere, interrogare e ricostruire il nostro rapporto corporale e materiale col mondo.

Come pensate che si evolverà questo seminario nel futuro e quali altre questioni credete che sia importante mettere al centro della riflessione sulla narrazione del lavoro?

I quattro incontri seminariali sono solamente la parte visibile di un lavoro di ricerca collettiva che avviene tra i membri che costituiscono il gruppo di ricerca. Prima, durante e dopo i seminari il gruppo si è riunito su Zoom ogni dieci, quindici giorni per mettere in comune letture, scambiare idee e punti di vista su teorie ecologiche, o anche su saggi, film, romanzi, raccolte di poesia, ma anche condividere scoperte musicali, suggerire articoli comparsi su differenti testate nazionali e internazionali, indicare altri seminari e attività di ricerca che hanno arricchito la nostra riflessione. In questo, le tecnologie di comunicazioni contemporanee ci hanno aiutato molto: abbiamo creato una bacheca digitale a cui hanno accesso solo i membri del collettivo e che serve da base per il nostro dialogo interdisciplinare, tutto è centralizzato in una cartella Google Drive a cui i membri hanno accesso, con la possibilità di operare modifiche e integrazioni.
Come vedi, dunque, il seminario è già di per sé un’evoluzione di un lavoro svolto in privato e ci sono delle possibilità che anche l’anno prossimo continui a esistere in questa forma, perché durante gli incontri sono venuti fuori degli spunti interessanti che finiscono col nutrire la nostra riflessione e – si spera – quella delle persone che hanno accettato il nostro invito a seguire le conferenze. Ci piacerebbe estendere la riflessione ad altre forme di rappresentazioni, come il teatro e la musica, ma anche ad altre aree geografiche, come la Cina o gli Stati Uniti.
Il gruppo di lavoro ha però anche degli obiettivi di medio e lungo termine, che abbiamo fissato fin dall’inizio delle nostre riunioni: a breve vorremmo fare uscire una call for paper che inviti i colleghi a inviarci articoli su rappresentazioni del lavoro e questione ecologica. L’idea è per il momento di concentrarci sul caso italiano. A lungo termine, invece, vorremmo sia organizzare un convegno su queste tematiche, che possa riunire e far conoscere specialisti di vari ambiti disciplinari, sia montare un progetto capace di ottenere un finanziamento europeo.

La mia ultima domanda riguarda il campo della critica letteraria, che attraversa un periodo di profonda crisi, causata prevalentemente dall’assuefazione alle logiche di mercato e al libro come prodotto editoriale e non più come strumento di critica sociale. Pensate che sia ancora possibile una critica letteraria genuinamente militante, o siamo destinati ad accettare il ruolo di megafoni della promozione editoriale, fenomeno che sembra interessare anche i critici più noti?

Il tempo in cui viviamo, dominato dalle logiche di mercato che descrivi, rende il compito della critica e, prima ancora, della letteratura o – più genericamente – dell’arte molto delicato. L’impegno, così come codificato negli anni Cinquanta e Sessanta, non è riproducibile oggi, il contesto è cambiato a tal punto da non rendere più comprensibile e forse possibile una militanza come quella che abbiamo visto nel secolo precedente. Ciononostante, non bisogna neanche cedere alla retorica opposta, decretare la morte della critica, la sua ininfluenza, mettere fuori dai giochi quella letteratura che cerca di offrire uno sguardo critico sulla società contemporanea e le sue storture; si tratta dello stesso atteggiamento miope, ma cambiato di segno. Le forme d’impegno e di militanza cambiano a seconda del contesto in cui intervengono; i romanzi, i film, le poesie che abbiamo studiato non fanno parte del magmatico e dogmatico mainstream. Al contrario, sono opere di nicchia, a volte pubblicate da piccoli editori, semi-clandestine, che l’occhio critico recupera e interroga e, grazie alle tecnologie forgiate nella Silicon Valley o altre vallate simili, le propone a comunità potenzialmente vastissime. Per questi seminari avevamo anche attivato una collaborazione con l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e ogni volta c’erano una ventina di studenti connessi, i quali, alla fine del ciclo, hanno steso una relazione in cui, oltre a riformulare quanto ascoltato, hanno ragionato intorno a una bibliografia che avevamo fornito loro. Possiamo parlare di militanza? Dove si colloca il confine tra formazione, ovvero il nostro dovere professionale – visto che siamo tutti anzitutto degli insegnanti – e militanza? Vi è davvero una differenza tra l’attività di militanza e mettere nelle mani di chi ci ascolta strumenti e conoscenze con le quali interrogare il mondo che traversano? Al di là delle roboanti e definitive espressioni che prendono talvolta la forma di titoli di saggistica contemporanea, crediamo che l’implicazione politica della letteratura e delle altre forme artistiche sia ancora non solo praticabile, ma anche forte e che il ruolo degli specialisti sia propriamente quello di attivarle, segnalarle, discuterle, sottoporle alla disamina critica.

Il Gruppo “Ecologia e lavoro del Projet OBERT” è composto da:
Carlo Baghetti (Casa de Velázquez)
Monica Battisti (Paris Nanterre)
Mauro Candiloro (Paris Nanterre)
Jim Carter (Boston University)
Paolo Chirumbolo (Louisiana State University)
Maria Luisa Mura (Aix-Marseille Université)

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Immagine di copertina:
Jean Tinguely, Méta mécanique – Horizontal II, 1954, S.M.A.K. Gent