Viveiros de Castro: l’offensiva finale contro gli indios

Viveiros de Castro: “Stiamo assistendo a un’offensiva finale contro i popoli indigeni”. In un’intervista a Pública, l’antropologo afferma che deforestatori e minatori illegali funzionano come “carne da cannone” per la privatizzazione dell’Amazzonia (traduzione di Enrico Valtellina)

INTERVISTA DA DIFFONDERE

Viveiros de CastroEduardo Viveiros de Castro, 68 anni, è antropologo e professore presso il Museu Nacional da UFRJAF RODRIGUES (AGÊNCIA PÚBLICA)
Uno tra gli antropologi più influenti del pianeta, Eduardo Viveiros de Castro non è uno che si dà troppa importanza. “Forse è una congiunzione casuale, una contingenza di fattori che mi ha fatto diventare una persona in evidenza all’interno dell’accademia e poi all’esterno”, dice con la solita franchezza.
Nonostante le necessarie riserve, Viveiros de Castro ci ha parlato di diverse questioni di attualità – dalla resistenza indigena alla distruzione dell’Amazzonia. Dal governo Lula-Dilma a Bolsonaro e ai militari. Dalla riforma agraria a Belo Monte. Dal terrapiattismo alla mamadeira de piroca (fake new dei bolsonaristi durante le elezioni secondo cui il PT di Lula distribuiva negli asili nido biberon con tettarella a forma di fallo “per combattere l’omofobia” ndt). Dalla questione climatica alla fine del mondo. All’inizio della conversazione, nel tentativo di qualificare la propria perplessità, afferma: “Siamo arrivati in una situazione in Brasile in cui si deve utilizzare il vocabolario della psicopatologia”. Di seguito sono riportati i passi principali dell’intervista.

Domanda – Un tipo che lei ammira, Claude Lévi-Strauss, disse una frase come questa: “Il mio desiderio è per un po’ più di rispetto per il mondo, che è iniziato senza l’essere umano e finirà senza di lui. Si tratta di qualcosa che dovremmo sempre tenere a mente”. In che misura ciò che dice si riferisce al momento che stiamo vivendo?
Risposta – Quella frase è in un libro pubblicato nel 1955, Tristi tropici, il suo libro forse più noto al di fuori degli ambiti specialistici dell’antropologia. È un libro che riflette molte cose, a partire da un certo pessimismo filosofico molto importante nell’immaginario Lévi-straussiano, si tratta di un’osservazione, in primo luogo, assolutamente vera. È interessante come questa sia un’osservazione che è, per così dire, un’ovvietà, perché il mondo è iniziato senza l’uomo e finirà senza di lui, ma allo stesso tempo, è un’ovvietà che va ricordata. In primo luogo perché è partendo dall’oblio di ciò che spesso si costruiscono vite, e in secondo luogo perché in quel particolare momento qualcosa che è stato detto 50, 60 anni fa improvvisamente acquista una rilevanza attuale in qualche misura inaspettata.
E anche se Lévi-Strauss aveva già presentito il fatto che la marcia della cosiddetta civiltà occidentale comportava necessariamente una distruzione delle proprie condizioni materiali di esistenza e, quindi, era un progetto di civiltà suicida, egli individua spesso più specificamente nella civiltà occidentale di origine europea questa idea che si tratta di una civiltà che consuma quantità assurde di materia ed energia, e che sta producendo entropia, sta producendo disorganizzazione del cosmo terrestre e che quindi non può proseguire in questo modo. In effetti, in qualche modo sta contribuendo alla fine della specie.
Questa idea che il mondo è iniziato senza l’uomo e che, lo sappiamo bene, finirà senza di lui, pone la domanda riguardo a quanto velocemente questa fine accadrà. Quando finirà senza di lui? L’impressione che si ha è che questa fine si stia approssimando con più velocità di quanto si potesse immaginare. Ma se pur questo è vero, l’idea che la crisi attuale, il cambiamento climatico, la crisi di tutti i sistemi geofisici, geochimici, del pianeta, implichi necessariamente la scomparsa della specie umana, forse è un’affermazione un po’ esagerata. Perché è probabile che non scomparirà tutta la specie e che le condizioni di vita saranno molto più difficili di quanto lo siano state negli ultimi 10.000 anni, che è il tempo della storia, il cosiddetto Neolitico della storia, questa fase climatica in cui sono emerse tutte le cose di cui siamo orgogliosi in quanto civiltà: scrittura, città, arti, ecc.
E queste condizioni comporteranno molto probabilmente uno shock della popolazione nella specie, e non si sa esattamente quando accadrà, come e cosa ciò comporterà. Dunque, la frase di Lévi-Strauss è cupa, soprattutto perché ha acquisito un’urgenza, una qualità che forse non aveva nel 1955, e che potrebbe essere vista come una frase poetica cupa, ma forse solo poetica. Il tempo verbale si è fatto improvvisamente più complicato. Non è, forse, “finirà”, ma “sta finendo”.

D – In alcune interviste ti ho sentito affermare che sei un pessimista, ma in che momento del tuo percorso sei stato meno pessimista? E come ti caratterizzeresti oggi?
R – Penso di essere pessimista, sì, a vari livelli e in modi diversi. Ad un certo livello, sono pessimista nel senso in cui Lévi-Strauss era pessimista quando diceva che la specie sta collaborando alla propria estinzione, a partire dai rappresentanti della specie che si considerano più avanzati, più evoluti, all’avanguardia, e che sono proprio quelli che stanno contribuendo nel modo più radicale al deterioramento delle condizioni materiali di sopravvivenza della specie.
In un altro senso, sono pessimista perché non vedo con grande speranza la capacità degli Stati nazionali, dei governi mondiali, di cambiare efficacemente con la radicalità imposta dalle condizioni di esistenza delle società avanzate – in particolare quelle tecnologicamente avanzate – in modo da ridurre la velocità di deterioramento del sistema termodinamico terrestre.
Si tratta quindi di un pessimismo nel senso che non ho molta fiducia nel passaggio dalla razionalità individuale, cioè da persone capaci di percepire che le cose vanno molto male dal punto di vista delle condizioni di esistenza, alla razionalità collettiva, passo necessario affinché i movimenti sociali, il governo, l’ONU, chiunque ne abbia modo, prendano effettivamente misure che comportano un drastico, radicale e drammatico cambiamento nel modo di vita che consideriamo ideale e che, tuttavia, è proprio ciò che sta producendo la distruzione del pianeta.
Sto parlando di auto, sto parlando di petrolio, sto parlando di uso dell’energia elettrica, sto parlando del consumo di energia, sia essa fossile, sia essa proveniente da altre fonti, il consumo in generale, pro capite, di energia, lo spreco, la produzione di rifiuti e così via.
È in questo senso che sono pessimista.
Inoltre stiamo vedendo qualcosa che nessuno immaginava, forse, ovvero una marea fascista mondiale guidata dalla potenza leader mondiale [gli Stati Uniti], che presto sarà la seconda potenza mondiale. L’altra [la Cina] da 5.000 anni è sempre stato un regime autocratico, è sempre stato un regime imperiale, in un certo senso.
Il Brasile, per me, è un grande motivo di pessimismo, dal momento che non abbiamo mai regolato i conti con la dittatura – è vergognoso che il Brasile non abbia fatto quello che hanno fatto l’Argentina, il Cile – e il fatto che viviamo – e oggi è più chiaro di dieci anni fa – come una democrazia protetta, in una certa misura consentita dai militari. Dalla proclamazione della Repubblica, questo più o meno è ciò che è sempre accaduto. Il che è ancora più patetico, perché siamo passati da una monarchia straniera a una Repubblica sotto tutela dei militari. Quindi, non abbiamo molto da festeggiare.
D’altra parte, questo è un paese che è ancora caratterizzato da una struttura profonda della sua natura, la schiavitù. Continua, in un certo senso, a ruotare intorno a un modo di essere, di pensare, di agire, che è contenuto nella memoria della schiavitù. Non è solo il razzismo, ma anche il rapporto del potere pubblico del governo con le popolazioni nere e povere del Brasile, il genocidio entusiasta praticato dai governi.
E ora ci troviamo in una situazione in Brasile dove si deve usare il vocabolario della psicopatologia per parlare di quelli al governo. Questo governatore [di Rio, Wilson Witzel] è uno psicopatico, questo presidente è pazzo, e qualcosa del genere. Sempre più spesso si affaccia un vocabolario… “La gente è impazzita”. “È una follia”. Allora, cos’è successo perché improvvisamente la politica si sia trasformata in psicopatologia?

D – È quello che mi chiedo ogni giorno.
R – Bisogna chiamare uno psicanalista per fare analisi politiche oggi. È ciò che nemmeno Reich [Wilhelm Reich, autore e psicoanalista] ha fatto del fascismo. Per analizzare questo qui, serve una persona che lavora con questioni di psicopatologia.

D – Nel 2013 (anno delle prime manifestazioni contro il governo petista e la Presidente Dilma Roussef, motivo scatenante era stato l’aumento del prezzo dei mezzi pubblici ndt) io avevo 23 anni ed è stato un momento di eccitazione per quanto stava accadendo. E oggi vediamo un sacco di analisi – soprattutto da parte della sinistra petista (PT, partito dei lavoratori) che era al potere – che, in qualche modo, le proteste hanno dato inizio a un’ondata di eventi che avrebbero portato al Governo che è c’è oggi.
R – Si è verificata una situazione in cui il PT si è comportato in modo, a mio parere, completamente sbagliato. Invece di incorporare le bandiere che si stavano alzando nel 2013, durante quei giorni deliberò una Garanzia della legge e dell’ordine (richiesta di intervento militare per ristabilire l’ordine in caso di sommosse) e cominciò a comportarsi come se si trovasse di fronte a dei malvagi, dei terroristi, qualunque cosa fossero. In questo modo ha gettato il movimento nelle braccia della destra. La destra divenne rivoluzionaria e la sinistra conservatrice.
Pensandosi il PT come partito di sinistra, cosa che ho sempre trovato un’associazione un po’ frettolosa, solo in Brasile si dice che Lula è un personaggio dell’estrema sinistra, mentre in realtà il PT è un partito socialdemocratico, mentre affermare che il PSDB sia un partito socialdemocratico è assurdo, perché è un partito di centro-destra.
Il progetto del PT era, infatti, quello di migliorare le condizioni di vita della popolazione brasiliana senza toccare i cosiddetti rapporti di produzione e, se possibile – e lo ha fatto anche lui – senza toccare i profitti della classe dominante, del grande capitale. Tanto che la borghesia, le banche, le banche, l’agroalimentare, tutti ne hanno tratto grande profitto, se la sono passata bene durante il governo del PT. Quindi, ciò che il PT voleva era semplicemente che altre briciole cadessero dal tavolo in modo che la gente potesse mangiare di più di quelle briciole. Ma non ha mai pensato di prendere la torta, dividerla e consegnarla, ridistribuendola radicalmente. Si è cercata una ridistribuzione moderata e, soprattutto, senza mettere la mano nelle tasche dei ricchi.
Come si potrebbe realizzare un progetto per migliorare le condizioni di vita della parte più misera della popolazione brasiliana senza toccare le tasche dei ricchi? Bisognava tirarlo fuori da qualche parte. Da dove l’hanno preso? Dalla natura. Dalle foreste, dalle acque. Così aumenta la deforestazione, aumenta lo sfruttamento dell’Amazzonia, aumenta la devastazione dell’Amazzonia, aumentano i grandi progetti che distruggeranno le organizzazioni sociali tradizionali, le popolazioni tradizionali.
Penso che il PT abbia commesso un errore storico, e penso che il principale non sia stato quello di aver assunto lo spirito delle giornate del 2013 e, al contrario, di essersi messo dalla parte della polizia, letteralmente, e con questo ha gettato il movimento nelle mani della destra opportunista e nelle mani della frazione considerevole della classe media, che è reazionaria, che è sempre stata in ammirazione della dittatura, che è sempre uscita per strada alzando croci e bandiere, nella Marcia per la Famiglia con Dio per la Libertà, indossando la maglietta della nazionale brasiliana.
In questo modo queste persone sono uscite dall’armadio in cui si trovavano dalla fine della dittatura e, soprattutto, dopo che il PT aveva vinto le elezioni del 2002. Ha vinto, infatti, solo perché il PT si è prestato a fare concessioni. La Lettera ai brasiliani di Lula, nel 2002, diceva: non toccheremo il sistema. E nonostante ciò, è stato cacciato dal governo con un colpo di stato. In parte a causa dell’evidente crisi economica globale.
Infatti, non sono particolarmente ottimista, penso che non siamo mai stati così male, da un punto di vista politico, come lo siamo ora. La situazione è piuttosto surreale. Recentemente ho fatto una battuta sui social network dicendo che il successo delle fake news in Brasile è dovuto al fatto che la verità è diventata incredibile. Le notizie vere appaiono incredibili, quindi si finisce per credere a quelle false.
Il Senato ha chiamato Steve Bannon per parlare con il Senato. Una cosa così è incredibile. Bolsonaro dice che l’estrazione mineraria è fantastica e che è ora di finirla con gli indiani e non so cosa. Questo è incredibile. Quindi, devi credere alle bugie. È più facile credere in una mamadeira de piroca (vedi sopra) che a Steve Bannon.

D – C’è un’intervista che Celso Furtado ha rilasciato alla rivista Caros Amigos prima della prima elezione di Lula [2002]. E ha detto che, dal suo punto di vista, sarebbe un compito fondamentale del PT, se eletto, cercare di evitare il processo di disintegrazione del Brasile. Lei ha già detto qualcosa al riguardo, ma quali altri peccati ha commesso il PT nel suo percorso? E Belo Monte?
R – Per prima cosa, volevo avanzare una riserva. Non è nemmeno per dire che non è il momento di fare queste critiche, ma si tratta di dire che vicino a quello che c’è, il PT è stato il paradiso, in termini di qualità delle relazioni politiche, delle relazioni sociali. In realtà, con tutte le mani in pasta, i parassitismi, le tangenti, i negoziati al Congresso, il mensalão (scandalo che ha coinvolto molti esponenti del PT negli anni 2000) e tutto ciò che il PT ha combinato, non è stato il primo partito di sinistra a farlo nella storia.
Ha fatto un patto con il diavolo per essere in grado di governare, e il diavolo ha presentato il conto, come fa sempre.
Con l’impeachment è stato così. Aveva fatto un patto con le forze più reazionarie e corrotte del sistema politico per essere in grado di governare, e in una certa misura lo ha fatto. Da quel momento in poi, è arrivato il conto da pagare. E il conto arriva nel modo più atroce e assurdo, questa prigionia di Lula, questa esposizione del fatto che il sistema giuridico è avvelenato da persone di pessima qualità ideologica, di pessima qualità culturale e di pessima qualità politica.
Tutto questo, naturalmente, ci obbliga a criticare il PT, ma dicendo “guarda, osserva bene”. Lula libero per cominciare – questa elezione è stata una frode perché Lula è stato arrestato per impedirgli di vincere. Non tutti quelli che avrebbero votato per Lula – e lui avrebbe vinto al primo turno – erano del PT, e tutti lo sanno. Così come non tutti coloro che hanno votato per Bolsonaro sono bolsominions (termine spregiativo per i sostenitori di Bozo ndt), ma molte delle persone che hanno votato per Bolsonaro avrebbero votato per Lula, se fosse stato in libertà.
Questo, in parte, è legato a un certo immaginario brasiliano che coinvolge la figura del leader potente, il leader salvatore, che è stato trasferito da Lula a Bolsonaro, anche se incarnano figure molto diverse nel rappresentare la speranza. Lula era, essenzialmente, il padre dei poveri, in qualche modo la Bolsa Família (sistema di sovvenzione per i più poveri introdotto da Lula), e l’altro è, essenzialmente, la figura del capitano, il poliziotto che ucciderà, arresterà e spaccherà tutto, come ha detto Figueiredo. Ed è stato il poliziotto a vincere.
Sto usando “il poliziotto” per non usare un’altra parola (“miliziano” ndt), quella dei suoi amici, della gentaglia con cui si fa fotografare ovunque. Quindi ci troviamo in una situazione di regime criminale. Non so come altro definirlo. Non sto parlando della criminalità classica della politica, che è la criminalità dei contratti, dei favori dei gruppi di potere, che è sempre esistita e che anche il PT ha praticato, ma in una criminalità nel senso più proprio, criminalità di omicidio, estorsione di popolazioni povere… Questa criminalità è al potere. E questa è una cosa incredibile.
Ed è al potere, in parte con il sostegno e in parte con le perplessità della magistratura, e sta saturando l’intero sistema, l’intera macchina pubblica, con la peggiore gente possibile.
C’è un criterio molto semplice: dato un certo ministero, qualche segreteria, chi è la persona peggiore possibile da mettere lì? E quella persona ci finisce.
Quindi c’è una sorta di perversità, e di perversità in senso realmente psicopatologico, ed è per questo che ho parlato di psicopatia. È una sorta di perversità nel mettere esattamente la persona nemica di quel tema per condizionare la politica statale su quel tema.
Ciò avviene per l’ambiente, i diritti umani, i diritti delle donne, della famiglia, in un certo senso, nell’economia.

D – E Belo Monte?
R – Beh, una delle grandi divergenze, uno dei grandi problemi che ho con il PT è Belo Monte, che ficcato in gola agli abitanti del fiume, alle popolazioni indigene della regione, da Lula, da Dilma. Quindi, non posso accettare un partito, un governo responsabile per lo scempio di Belo Monte. Da ciò non consegue che devo accettare ciò che è al potere ora, al contrario, ma Belo Monte non merita perdono.
Ho lavorato lì, la conosco, non c’è perdono per quello che hanno fatto. Si tratta di un’idea del Brasile in cui, in un certo senso, c’è una certa continuità a un certo livello tra il progetto del PT e il progetto del governo attuale per quanto riguarda il rapporto con l’Amazzonia, con i popoli tradizionali, con il Brasile profondo.
Bisogna modernizzare, ci si deve civilizzare, si deve industrializzare, produrre, distruggere, generare rendita, generare valore, generare occupazione, sono cose che abbiamo sentito dire da secoli e alla fine ogni volta ci fottono.
Lula libero sì, Belo Monte, no. Belo Monte mai.

D – Il governo del Bolsonario ha eletto alcuni nemici diretti, sia a livello territoriale, che singoli individui o gruppi sociali. Sto parlando dell’Amazzonia e dei popoli indigeni. Perché questo governo ha così paura degli indios?
R – Il problema degli indios, per questo governo e per le frazioni della società brasiliana che rappresenta – in particolare, il grande capitale, l’agroalimentare – è che le terre indigene non sono nel mercato fondiario. E il progetto di questo governo è di privatizzare al 100%. Se possibile, tutto il Brasile.
Parchi nazionali, riserve ecologiche, tutte le terre che hanno una destinazione speciale sono all’attenzione di questo governo. Da qui l’importanza del Ministero dell’Ambiente per distruggere i sistemi territoriali protetti e attaccare le popolazioni indigene. Questo attacco, infatti, esprime la volontà di trasformare l’intero Brasile in proprietà privata.
È uno Stato il cui obiettivo è quello di sottrarre allo Stato la sua effettiva sovranità sul proprio territorio, ovvero di trasformare la sovranità in un mero potere di controllo, ma di cedere le terre a capitali privati, nazionali o stranieri.
Da qui il mantra dei militari: “Ah, l’invasione dell’Amazzonia da parte degli stranieri”. Stanno vendendo le terre dell’Amazzonia a molti proprietari stranieri, non è questo il loro problema. È una menzogna.
Il problema con gli indios è che le loro terre sono terre federali, e l’obiettivo del governo è di privatizzarle. E più che il governo, le classi che il governo rappresenta, di cui è il jagunço (sicario assoldato ndt), perché è quello che è: il jagunço della borghesia.
La seconda ragione, credo, è in una dichiarazione assurda che Mourão, il vicepresidente, ha recentemente rilasciato, elogiando le capitanerie ereditarie e i bandeirantes (esploratori delle terre interne del Brasile per conto dei portoghesi ndt), dicendo che questo è il meglio della nostra origine, il meglio della nostra storia, dell’imprenditorialità e così via.
Sembra una provocazione, una provocazione specificamente anti-indigena, perché celebra il genocidio amerindiano, il bandeirante, che è una figura che si è evidentemente trasformata, a partire da San Paolo, in un eroe della nazionalità, quando quello che ha fatto, di fatto, è stato di strappare il Brasile dalle mani dei suoi occupanti originari. Non è riuscito a cacciarli tutti, hanno ancora il 13% della terra [indigena].
E l’obiettivo, ora, è completare il processo iniziato con l’invasione dell’America da parte dei portoghesi. Questo è molto chiaro.
I militari, ora, si stanno identificando con l’Europa. È molto strano se si guarda la composizione razziale delle forze armate brasiliane. Non ne troverete molti biondi. A cominciare da Mourão, che è un indio mezzosangue. Ma a quanto pare, non gli fa piacere.
Quindi, c’è una concezione che vede il Brasile come un paese essenzialmente europeo, in un certo senso, da lì viene il meglio della nostra educazione, della nostra storia. Come dice Mourão, il meglio è l’Europa. È quello che sta dicendo.
Forse il momento culminante del film Bacurau, che sta avendo successo, è il dialogo in cui i gringos (gringo in portoghese è qualunque straniero ndt) assassini dicono ai due adulatori brasiliani che non sono bianchi in nessun modo. Mourão, infatti, parlava come quel motociclista: il meglio della nostra storia sono le capitanerie. Ed ecco il gringo: “Per cominciare, i portoghesi non sono nemmeno bianchi. E, secondo, tu non sei nemmeno portoghese”. Allora, bum!
E le celebrazioni del personaggio meticcio, a mio avviso, sono pura dimostrazione di ipocrisia. Per quello che in Brasile si chiama mestiçagem, meticciato, il nome giusto è sbiancamento.
Quindi c’è un odio per i non bianchi in Brasile, il razzismo contro i neri, e un doppio razzismo, un razzismo territoriale, in relazione agli indios. Queste sono le ragioni principali, direi.

D – E l’Amazzonia?
R – L’Amazzonia è un oggetto immaginario, molto complicato in Brasile. In primo luogo dobbiamo sempre ricordare: l’Amazzonia non è brasiliana. L’Amazzonia è di nove paesi.
Le sorgenti, gli affluenti del Solimões e la maggior parte degli affluenti del rio delle Amazzoni, si trovano al di fuori del territorio brasiliano. Se Perù, Colombia e Bolivia decidono di chiudere il rubinetto, resta a secco.
Rimarranno i fiumi che si formano nel Cerrado, nel Brasile centrale, lo Xingu, Tocantins, Araguaia, Tapajós… che stanno per essere distrutti. Il Cerrado sta finendo male, e anche questi fiumi sono fottuti.
Lo scandalo della Francia che parla dell’Amazzonia… La Guyana francese è francese. La Francia è amazzonica, cosa possiamo fare? Non possiamo fare niente. Possiamo cercare di invadere la Francia, cosa che nemmeno l’Argentina ha fatto con le Falkland, andrà molto bene…
E l’Amazzonia ha questa cosa: allo stesso tempo, lo si usa come biglietto da visita, come un orgoglio – “Guarda il verde, il paradiso, molti alberi…’. – e, d’altra parte, vuoi distruggere l’Amazzonia così che gli altri non la prendano.
Quindi hai quell’assurdo atteggiamento infantile: “L’Amazzonia è nostra, e faccio quello che voglio. Quindi gli darò fuoco perché è mia. Posso fare come il bambino che sta per rompere il giocattolo perché il giocattolo è suo, capito?”
Questo è quello che dicono i militari, che non devono fare casini con l’Amazzonia, l’Amazzonia è nostra. Nostra per fare cosa?
Perché le Forze Armate non hanno voluto intervenire in tre recenti denunce per attacchi dei minatori illegali a Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis, Istituto brasiliano per l’ambiente e le risorse naturali rinnovabili, pesantemente attaccato dal governo attuale ndt)? Perché sono dalla parte dei minatori.
Non è solo la ridicola ammirazione di Bolsonaro per le miniere, che deriva dalla sua amicizia, a Serra Pelada, con major Curió, no. Questa è solo la parte più, per così dire, grottesca. Ma l’idea di usare la popolazione povera, miserabile, disperata, come carne da cannone, per entrare, prendersi la malaria, uccidere gli indiani, essere uccisi, distruggere, fottere e tutto il resto, è un’idea che in realtà è nelle menti dei militari.
In realtà, questo fa parte dell’ideologia nazionale. Il minatore è più brasiliano dell’indio per i militari. Ora, quando si arriva a queste persone che sono al di fuori, come gli indios, la popolazione tradizionale, i fluviali, i caboclos (indios mezzosangue ndt), i sertanejos (abitanti del sertão, zona rurale desertica dell’entroterra del Nordest del Brasile), le persone il cui stile di vita è in contraddizione, nel senso forte del termine, con questo progetto di paese, allora la cosa prende piede.
Quello che sta accadendo, inoltre, è che in parte questo genocidio che si sta praticando a Rio de Janeiro sulle favelas, con la polizia che spara dagli elicotteri, avviene perché, in larga misura, il cosiddetto “proletariato” è diventato un po’ inutile. Non serve molto lavoro, e oggi ci sono molte persone che sono considerate superflue all’interno del sistema economico. E queste persone vengono massacrate.

D – Una grande caratteristica di questo governo che mi sembra diversa dai precedenti è questa cosa di presentare i leader e le popolazioni come “ah, guarda qui, i Paresi [gruppo etnico del Mato Grosso] vogliono piantare soia”. Questo racconto dell’indio del ventunesimo secolo.
R – Da un lato, credo che stiamo assistendo a una sorta di offensiva finale contro le popolazioni indigene.
È l’onda montante ora, e arriva dappertutto. Se non li compri con i soldi, ci metterai i pazzi evangelici per abbatterli, per proibire lo sciamanesimo, per fare il diavolo, per accusare gli indiani delle cose più folli.
Perché è questo: l’indio non è un santo. Nessuno lo è. Ci sono dei figli di puttana tra gli indios, non so quanti, ma non sono esclusi, per esempio, dalla hall del figliodiputtanismo umano. Poi ci sarà sempre un indiano, un indigeno, che servirà da traditore, come nel caso di questa ragazza, questa donna Kalapalo che Bolsonaro ha trascinato qui e là, e che è stata persino rinnegata dal suo villaggio, dal suo popolo.
Per non parlare d’altro: i popoli indigeni raramente hanno una struttura politica con un portavoce, una persona che parla a nome della popolazione. Quindi, quello che succede è che se uno dice qualcosa, arriverà un altro che dirà il contrario, perché ci sono lotte politiche interne. Se non si tratta di una lotta politica interna, il tipo in questione si allea con i latifondisti per fregare l’altro. Lo farà.
Per cominciare, ci sono più di trecento popolazioni indigene in Brasile. Chiamarli tutti indigeni non dice molto su di loro, dice molto di più sulla Costituzione brasiliana, sulla legislazione, che chiama indigena una cosa. La nozione di indigeno, infatti, è una parola, soprattutto di rilevanza giuridica.
Da qui la confusione: questo è indio, questo non è indio, non si sa. Quando, di fatti, un indio è una forma di relazione con lo Stato. Naturalmente, ha una dimensione storica, sono discendenti, rimanendo popolazioni che si considerano legate a comunità precolombiane. Ma sono anche comunità che hanno un certo rapporto di esteriorità rispetto allo Stato nazionale e all’etnia dominante, che è un rapporto molto particolare. E questo rapporto riguarda principalmente un certo rapporto con la terra.
E questo, infatti, è il nodo del problema, perché quello che succede è questo: l’Amazzonia è la parte del Brasile che rappresenta tutto il Brasile del 1500. Non che sia esattamente la stessa cosa, è tutt’altro che la stessa. Ma questa è la parte che non è stata ancora distrutta, che non è stata ancora civilizzata, che non è stata “conquistata”. E ora “Dobbiamo finire il lavoro iniziato nel 1500”.
E poiché l’Amazzonia è diventata un centro dell’attenzione internazionale per il fatto che è la più grande foresta tropicale del mondo, perché ha una grande importanza nell’equilibrio geochimico e termodinamico del pianeta, ovviamente tutti la guardano.
Questo sarebbe il momento in cui il Brasile potrebbe, se avesse una diplomazia meno folle di quei pazzi che fanno parte del ministero… Starebbe naturalmente fatturando, nel senso positivo del termine, usandola come un bene importante per valorizzare la sua posizione sulla scena internazionale. Ma, al contrario, stanno battendo i piedi, facendo un capriccio assolutamente ridicolo. E ne subiranno le conseguenze. Ora hanno un nemico importante, che è il papa, che, ovviamente, non ha tante legioni, come ha detto Stalin, non ha un esercito, ma esercita un grande potere sull’opinione pubblica.

D – Lei ha parlato della questione della leadership indigena, che non ha una voce che parla per tutti, ma abbiamo la figura di Raoni, per esempio. Volevo che lei commentasse il suo ruolo in questo processo di resistenza indigena di oggi. E per quanto riguarda la questione della terra, volevo che parlasse del ruolo della riforma agraria.
R – La riforma agraria è un caso particolarmente importante. Il Brasile non ha attuato la riforma agraria, e tutto ciò che accade in Brasile, in parte, si spiega con questo. Si è scelto di buttare la popolazione rurale nelle città e consegnare i campi ad un’agricoltura meccanizzata e intensiva. Quello che succede in Amazzonia è che c’è ancora una gran parte della tradizionale popolazione fluviale, e non so cosa ne sarà, perché la soia è già arrivata in Amazzonia da molto tempo. La frontiera economica è in aumento e, man mano che sale, espelle le persone, estirpando alberi, mettendo buoi – il Brasile ha più buoi che persone. E questo bue, naturalmente, non va tutto in pancia alla popolazione brasiliana. Quindi stiamo davvero nutrendo il mondo. E la cosa divertente è che spesso vedo il governo dirsi orgoglioso che il Brasile sta nutrendo il mondo. Dovrebbe dare da mangiare ai brasiliani, no? Per cominciare.

D – La fame è tornata…
R – Sì, la fame è tornata e siamo orgogliosi di nutrire la Cina. Che orgoglio è mai questo? Se l’intera popolazione brasiliana fosse in una spettacolare salute nutrizionale, ci si potrebbe concedere il lusso di essere orgogliosi di nutrire anche altri paesi, no?
In realtà, stiamo bruciando i mobili di casa per riscaldarci, per così dire. Stiamo distruggendo il Brasile, esportando acqua, esportando suolo al di fuori del Brasile, e siamo più ricchi per questo? La disuguaglianza è diminuita dopo anni di distruzione del Cerrado, dell’Amazzonia? Il ciclo dell’oro, il ciclo del caffè, il ciclo della gomma, il ciclo della soia, tutti questi cicli hanno la stessa struttura, ovvero: il Brasile come esportatore di prodotti primari verso le metropoli capitaliste. Siamo nella stessa posizione in cui eravamo nel 1500. È una colonia per l’esportazione di commodoties.
Ora sono commodities ad alta tecnologia, giusto? Non è più il braccio dello schiavo, non è più l’indio costretto, ora è la mietitrice, è il grande trattore, è la fiera di Barretos.
Il Brasile continua ad essere una colonia che riesce nel prodigio di essere una auto-colonia, colonia di altri e colonia di se stesso.
Infine, che dire della riforma agraria, che fine ha fatto il MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, movimento dei contadini senza terra, si batte per la riforma agraria ndt)? Penso che il MST sia scaduto col governo di Dilma Rousseff. Ha perso il fiato, ha perso il suo slancio, ha perso la sua capacità politica, in parte perché era vincolato nel suo rapporto con il governo del PT.
Sono ottimista su una cosa: non credo che Trump sarà rieletto. Ma avevo anche detto che Bolsonaro non sarebbe stato eletto, e lo è stato, giusto? Ho detto che se fosse stato eletto, avrei lasciato il paese. Non me ne sono andato…
Ma se Trump non viene rieletto, la situazione in Brasile cambierà molto, perché non ci sarà più un pazzo simile. Questa scommessa totale della Presidenza su una relazione carnale con gli Stati Uniti d’America della Trump è molto rischiosa.

D – Questa riemergenza dell’estrema destra nel mondo sembra essere una cosa ciclica, non è vero?
R – Il fatto è che è qualcosa legato, ovviamente, a una crisi economica globale, la crisi del capitalismo. Non è un caso che ci sia stata la crisi del 1929, poi c’è stato il fascismo. E oggi c’è la crisi iniziata nel 2008 e che, di fatto, non è finita. Questo è un punto di cambiamento: ci troviamo in una crisi economica globale, che si sta manifestando in Brasile in modo particolarmente drammatico – non sappiamo cosa possa venire dopo. Queste reazioni di estrema destra sono chiaramente reazioni, sembra che siano movimenti reattivi di fronte a una crisi, alla precarizzazione, in relazione alle condizioni di vita, e anche una reazione alla crisi ambientale.
Molti dei rifugiati che stanno lasciando i loro paesi d’origine se ne vanno a causa di problemi di distruzione delle condizioni materiali: siccità brutali, inondazioni. Si tratta quindi in larga misura di rifugiati climatici. Queste persone che stanno andando verso gli Stati Uniti, cercando in ogni modo di saltare oltre il muro, sono in gran parte rifugiati climatici.
Ciò che mi preoccupa di più è la crisi ecologica. Il problema è che colpisce quelle che possono essere definite le condizioni materiali di esistenza. Non è il salario, è l’aria. Non è l’occupazione, è l’acqua.
Queste sono pertanto cose che raggiungono un livello fondamentale per animali reali, persone reali, come noi siamo, che hanno bisogno di aria, acqua, molte cose materiali. È qui che si manifesta la crisi. Nell’esaurimento degli stock ittici, nell’acidificazione degli oceani, nell’innalzamento del livello del mare, nel riscaldamento globale, che causa siccità, inondazioni, uragani, rifugiati.
Per sopravvivere a questo tipo di crisi è necessario un cambiamento radicale nella forma ormai egemonica nel mondo.
Cambiamenti molto radicali, non saranno tre torri eoliche a risolvere la situazione. Ci sarà bisogno di molto di più di questo, necessita un cambiamento radicale nei modelli di consumo, nelle società sviluppate, una ridistribuzione radicale delle risorse rispetto alla popolazione del pianeta.
Ma è più facile, invece, che accada qualcos’altro, guerre genocide, sterminio di massa delle popolazioni, devastazione totale di interi ambienti… Ecco, vedi perché non sono molto ottimista?

D – Nel tuo libro Há mundo por vir? (Esiste un mondo a venire? Trad. it. ed. Nottetempo ndt), che hai scritto con Débora [Danowski, filosofo e compagno di scuola di Castro], si dice che questa catastrofe climatica impone agli esseri umani il cambiamento metafisico di non pensare il mondo intero a partire da se stessi, di superare la centralità dell’uomo.
R – Non basta continuare a dire: “Oh, è colpa del cristianesimo, è colpa di coloro che mettono l’uomo al di sopra delle altre creature”. È tutto vero, ma non credo che questo sia ciò che è fondamentale.
Penso che ciò che contraddistingue la modernità occidentale sia una certa fiducia nel fatto che l’uomo, attraverso la tecnologia, è in grado di risolvere qualsiasi problema che si presenti, che ci sarà sempre una soluzione. La gente accetta sempre più spesso che c’è una crisi ecologica, ma pensa che qualcuno la risolverà. E se non fosse così? Perché dovrebbe accadere? Non tutto ha una soluzione.
Penso che la crisi ecologica non abbia una soluzione nel senso di mantenere lo status quo attuale. È fuori questione. E tutti lo sanno: se il mondo intero consumasse la quantità di energia pro capite che un cittadino americano consuma, avemmo avuto bisogno di cinque pianeti Terra per sostenere tutta l’umanità. Qual è l’alternativa?

D – Lei ha detto che dovremmo domandare agli indiani della fine del mondo, perché il loro mondo sta finendo dal 1500. Quali lezioni concrete possono darci le popolazioni indigene su questa coesistenza con questa fine del mondo, che è graduale, che non si verifica immediatamente?
R – È chiaro che i 7 miliardi di persone che vivono sul pianeta Terra non possono vivere come fa oggi in Amazzonia una popolazione di 500 persone. Ma i popoli indigeni, in generale in tutto il mondo, e non solo i popoli indigeni brasiliani, hanno una relazione con il resto della realtà, in particolare con la realtà biologica, vivente, altri esseri viventi, che è molto diversa da quella implicita nel nostro modo di vivere ed esplicita in varie dottrine religiose, filosofiche, ecc.
Che cos’è questa relazione? Queste popolazioni si considerano parte di un universo in cui sono allo stesso livello degli altri esseri. Non intendo dire che preferiscono essere altri esseri. Percepiscono se stessi allo stesso livello, come soggetti alle stesse condizioni metafisiche dell’esistenza, per così dire.
Quello che accade nella modernità occidentale è che l’uomo si considera un essere eccezionale. È un animale, ma ha qualcosa che gli animali non hanno. Un tempo si chiamava anima, ora è cultura, scienza, tecnologia… Ma è qualcosa che rende l’uomo metà animale e metà angelo, qualcosa del genere. E il lato extra-animale, super-animale dell’uomo compensa, annulla, libera la specie da questa immanenza terrestre – trascende la realtà materiale.
D’altra parte, i popoli tradizionali, poiché la storia li ha condotti in un’altra direzione, non si vedono al di sopra di altre creature. Possono pensare che gli uomini siano più intelligenti degli alligatori, ma non pensano che questa differenza sia una differenza di grado, non è una differenza di natura.
Per noi, è una differenza di natura. È una specie di ipocrisia. Perché abbiamo la sensazione di essere dotati di qualcosa che ci libera da qualsiasi problema, che l’altra specie si estinguerà, ma non la nostra – quando sappiamo che si estinguerà anche questa specie.
È come se la specie umana fosse l’unico animale che, sapendo di essere un animale, non è un animale. Perché, sapendo di essere un animale, pensa che ciò la renda diversa da tutti gli altri animali e, quindi, non sia un animale.
Il che è una contraddizione in termini. Sapere di essere un animale dovrebbe renderlo più consapevole delle condizioni che lo avvicinano agli altri animali: la necessità di un ambiente tollerabile dalla specie.

D – Hai anche affermato che la specie umana si sta suicidando.
R – In un certo senso. Forse ogni specie si estingue perché si suicida, a meno che una meteora non le cada sulla testa, ovviamente. Quando diciamo “specie”, dobbiamo stare attenti, perché quando diciamo “specie”, nove volte su dieci stiamo parlando di paesi sovrasviluppati, del loro stile di vita sviluppato in eccesso.
Ecco un’altra parola che mi piace usare, superdesenvolvimento, sviluppo eccessivo. Quello che noi chiamiamo un paese sviluppato è in realtà sovrasviluppato, nel senso di sviluppato eccessivamente. Nel senso che consuma molto più del necessario, molto più di quanto sia ragionevole e molto più di quanto sia possibile, date le condizioni materiali di questo pianeta. Quindi questi paesi sono paesi sovrasviluppati.
Devono “desvilupparsi” in modo che altri paesi, altri popoli, possano svilupparsi un po’ di più, per equiparare un po’ le condizioni di esistenza del Bangladesh con quelle della California.
Ciò significa che il Bangladesh deve diventare la California? No. Significa che la California deve diventare il Bangladesh? Nemmeno questo. Ma ci deve essere una via di mezzo, ci deve essere un certo riavvicinamento tra questi due popoli, tra il contadino del Bangladesh, la baraccopoli di Rio de Janeiro e i condomini di lusso di Miami e Los Angeles. Perché se non accade, il pianeta esploderà.
Il Brasile è un paese che oggi viene usato dal sistema economico mondiale per un esperimento scientifico, che è: quanto si può fottere una popolazione senza produrre una insurrezione sanguinosa? Per quanto tempo si può continuare a sottrarre diritti, ferendo, sfruttando, espropriando, uccidendo, buttando nell’informalità, senza che questo produca una sommossa, una rivoluzione, un’esplosione di violenza popolare? È quasi come un esperimento scientifico: quanto posso torturare questo animale prima che muoia, senza che muoia?
E sappiamo che l’umanità può sopportare molte cose, quindi è difficile da immaginare… C’è la famosa idea che un giorno la collina scenderà… Ma se non dovesse accadere?

D – E c’è la resistenza indigena…
R – Mi hai chiesto di Raoni, ho dimenticato di rispondere. Quello che succede è questo: sì, Raoni è diventato un simbolo, questo simbolo è in grado di catalizzare la lotta indigena, è un simbolo essenzialmente esterno, un simbolo soprattutto per i non indios. In parte per l’aspetto molto marcato, in parte perché è un gentiluomo, è in lotta da molto tempo, letteralmente. E gli indiani si trovano costretti a costruire alleanze, cause comuni. Ricordo una frase di Daniel Munduruku, che è uno scrittore: “Non sono indio, sono Munduruku. L’indio è una cosa tua, io sono Munduruku”. Ha assolutamente ragione.
Ma i Munduruku ora si uniscono con, che so, con i Kayapó, con gli Araweté, con il Parakanã… Perché tutti questi popoli, che non sono una cosa sola, possano presentare un fronte unico davanti a un’altra parte, che è una cosa, noi, lo Stato brasiliano, il gruppo etnico dominante, che è bianco.
Perché ci chiamano “bianchi”? Parola che, molte volte, può essere applicata anche a un uomo nero? Perché il problema non è il colore. Una metonimia, bianco per parlare di bianchi, neri, gialli e blu, ma allo stesso tempo perché il bianco è di fatto la figura centrale. Il bianco è qualcosa solo per loro: è lo Stato.
Le società indigene situate in Brasile sono sempre state società con un grande potenziale anarchico. Nel senso che, date le condizioni demografiche ed ecologiche del Brasile precolombiano, in una società indigena, se non sei soddisfatto del villaggio, della tua gente, prendi le tue cose, prendi l’amaca e te ne vai, crei un’aldeia, un villaggio, da un’altra parte. In altre parole, erano società che non avevano bisogno di produrre sistemi politici piramidali con un leader fondamentale. Perché se non si era soddisfatti del capo, si andava via in un nuovo villaggio. Questo rimane nelle società indigene come un impulso refrattario a chiunque pretenda di parlare per il bene del tutto, il che, allo stesso tempo, è in contraddizione con ciò di cui hanno bisogno ora, ovvero di nomi che possano parlare a favore di tutti contro questo stato etnocida.
Gli indios si trovano, infatti, in una situazione complicata. Devono produrre leader, a volte anche sovra-etnici. Raoni, per esempio, è un Kayapó, ma non parla a nome del Kayapó. Egli parla a nome degli indios, di tutti i popoli indigeni e, allo stesso tempo, questo è qualcosa che va un po’ contro la stessa sensibilità politica indigena. E devono negoziare, non ci sarà altro modo, perché si trovano di fronte a un nemico che li costringe a unirsi. Sono uniti solo grazie ai bianchi. Sono gli indiani che trattengono l’Amazzonia dalla forza distruttiva dell’industria agroalimentare, dal grande capitale e da questi militari pazzi che pensano che il meglio per il Brasile sia ridurlo a un deserto, che governare sia creare un deserto.

D – Oggi assistiamo a un oscurantismo che ha raggiunto il punto di mettere in discussione la forma della Terra.
R – Penso che tutto stia in quella frase di Darcy Ribeiro che tutti giustamente citano, ovvero: la cattiva educazione in Brasile, la distruzione, il pessimo sistema educativo, non è un difetto, è un progetto. Penso che ci sia un progetto per de-educare la popolazione brasiliana, tranne quando si tratta di formare manodopera qualificata per alcune funzioni specifiche del mercato del lavoro capitalista. Ma dal punto di vista di quella che chiamiamo cultura in generale, penso che ci sia un progetto per impedire alle persone di imparare.
Perché questo attacco alle università è in atto ora che la politica delle quote si è concretizzata? C’è un corso di pre-ingresso all’università a Maré (favela della zona Nord di Rio), che permette l’accesso a tutte le università pubbliche. “Non si può permetterlo. Se questa gente comincia a pensare, creerà problemi”. Devono tenere la popolazione sotto controllo.
E ora saltano fuori queste cose folli, come il terraplanismo, il revisionismo storico, il negazionismo climatico. Da dove vengono? Soprattutto dagli Stati Uniti, vengono da [Steve] Bannon, vengono dall’alt-right, dalla nuova destra. E insieme con cosa? Con una certa fantasia del Medioevo, crociati e Deus vult (Dio lo vuole) e non so che altro. Quindi immagino che ci sia una sorta di progetto folle di regressione storica, mitica.
Non credo sia un caso che chiamino Bolsonaro “mito”, perché c’è una mobilitazione di certe strutture mitiche che sono politicamente reazionarie e che vengono diffuse, a mio avviso, deliberatamente, da un’élite che, naturalmente, non ci crede. Credi che Olavo de Carvalho pensi davvero che la Terra sia piatta? Certo che no.
Penso che ci sia in parte un progetto deliberato per introdurre confusione, terraplanismo, negazionismo e così via, e che passi attraverso un più ampio progetto politico di regressione culturale antiliberale e antidemocratica.

Ha collaborato all’intervista: Carolina Zanatta