I figli degli “ostracizzati”: un’ipotesi su violenza e terrorismo

Una ipotesi su violenza e terrorismo

[Grazie a Ranieri Salvadorini, per alcuni link e per il confronto su alcune questioni; grazie alla collega Ilaria Carosi per il confronto su altre]

Dall’inizio del 2015 è emersa una leva di jihadisti costituita da immigrati di seconda generazione, non più venuti da lontano ma nati nel paese europeo nel quale compiono atti terroristici. Diverse analisi sugli attentati di Parigi parlano del nuovo radicalismo come rivolta generazionale, come la guerra di una “seconda generazione in rivolta contro i loro padri” e con la loro religione troppo “morbida”. Mi pare una considerazione molto stimolante per chi lavora con le relazioni familiari, con gli adolescenti e con i loro genitori, e si trova ad osservare i modi in cui il conflitto generazionale si esprime anche attraverso la violenza, diretta all’interno della famiglia ma anche all’esterno.
Mi torna utile, per parlare di alcuni aspetti che mi interessano dei rapporti tra figli e genitori, e tra questi e il contesto sociale, un concetto che in questi ultimi anni ha focalizzato Adriano Zamperini, professore di psicologia sociale all’università di Padova: l’ostracismo.

charlieparigi

L’ostracismo

Da Charlie Hebdo in poi, dunque, identifichiamo la minaccia terroristica sempre meno nei video di un miliardario annoiato e crudele, e sempre più con una riserva di rabbia accumulata e compressa nelle banlieue e nelle periferie, nelle quali deflagrano questioni come la povertà, la disparità e l’esclusione. È la ragione per cui mi pare utile ricorrere a una chiave di lettura che, nel campo della psicologia sociale, ci fornisce Adriano Zamperini (in questo articolo e nel suo libro del 2010). Riprendo una sua definizione di ostracismo e metto in corsivo alcuni passaggi che torneranno utili nel ragionamento: “…qualsiasi atto volto a ignorare, respingere e escludere individui o gruppi (…). In tal modo, coloro che, per diversi motivi, sono ostracizzati subiscono una dissociazione relazionale: vengono privati dei comuni contatti interpersonali, evitati e respinti ai margini dell’attenzione. Ampia è la letteratura scientifica che evidenzia quanto il nostro benessere dipenda dal sentirsi inclusi e accettati dagli altri. E come l’essere ostracizzati nei rapporti umani si traduca in una condizione gravida di sofferenza“.
Un capitolo cruciale del libro di Zamperini si intitola “Quando gli ostracizzati diventano cattivi” e parla delle strategie estreme che le persone mettono in atto per essere viste. Perché il servilismo, cioè la resa all’esclusione, è la conseguenza più indesiderabile dell’ostracismo.
Ma cosa succede quando non solo non diventano cattivi, ma finiscono per partecipare ai meccanismi della loro stessa esclusione?

Figli di ostracizzati

Parte della mia esperienza professionale si è svolta nella provincia del nord Italia, un’altra parte in ambienti urbani e metropolitani. Si tratta di contesti piuttosto differenti: quello della provincia è un contesto culturale fortemente segnato dalla tradizione che era stata rurale e poi industriale ed operaia, ed è evoluto spesso intorno a una grande azienda la cui storia ha coinciso in parte con quella del luogo. In un contesto che fonda la propria sopravvivenza su un punto d’appoggio quasi esclusivo, gli effetti di cambiamenti economici sul piano sociale e psicologico – cioè sui gruppi e sulle vite delle singole persone – sono più drammatici, improvvisi ed evidenti.
In entrambi i contesti mi è capitato di essere consultato da famiglie per difficoltà di rapporto coi figli, e in alcuni di questi casi quello che affliggeva i genitori erano comportamenti violenti dei figli a casa e fuori. Nel contesto della provincia questo accadeva a ondate. Cioè, in alcuni periodi si presentavano con una frequenza più alta del solito famiglie che soffrivano del fatto che un figlio sfasciasse i mobili litigando con la madre, o si distinguesse per comportamenti aggressivi a scuola – particolarmente verso gli adulti – o manifestasse, insieme ai comportamenti oppositivi, atteggiamenti ostili verso gli stranieri, o offensivi nei confronti delle donne: atteggiamenti che la famiglia trovava terribilmente deludenti, e che in nessun modo incoraggiava o condivideva.

La faccia di quella provincia è cambiata in pochi anni, di pari passo con la trasformazione di quel mondo industriale che un tempo era così essenziale al benessere e all’identità di quei luoghi e che in breve tempo è andato in crisi.
Quello che mi capitava di vedere, nelle “ondate” di richieste d’aiuto da parte di genitori di figli aggressivi, era che esse coincidevano con momenti, drammatici per la comunità e per le singole famiglie, di delocalizzazione e chiusura dell’attività di quelle fabbriche. Spesso i padri di quei ragazzi avevano perso il lavoro. Qualche volta erano riusciti a inventarsene presto un altro in proprio, ma erano finiti male. Altre volte avevano accettato lavori alternativi e stipendi ben più bassi di quelli che erano abituati a portare a casa. In pochi casi avevano dovuto affrontare una disoccupazione più lunga e senza prospettive. In tutti questi casi, però, questi padri avevano subito una ferita profonda alla propria identità. Per lo più ne soffrivano in silenzio, e nel raccontarmi la loro esperienza in presenza dei familiari, lo facevano con virile fatalismo ma tenevano a bada moti d’emozione. Anche molte madri subivano le conseguenze di quelle crisi, perdevano il posto e dovevano trovarne un altro, ma l’impressione era che in una cultura ancora piuttosto tradizionale e fondata su ruoli di genere ben distinti, per le donne la ferita fosse meno profonda e più riparabile.
Ecco, se penso a quei padri, al senso di rifiuto e di inutilità che sperimentavano, al loro bisogno di essere riconosciuti, penso che la definizione di “ostracizzati” spieghi bene la loro condizione. Erano d’improvviso privati del proprio ruolo in società e in famiglia, e con quello perdevano la rete di relazioni che avevano intessuto nel mondo del lavoro.

L’ipotesi era spesso che questi figli fossero profondamente sensibili a quella sofferenza e costantemente sintonizzati con essa. Se in prima battuta sembravano voler diventare i vendicatori, o comunque i portavoce di un dolore non detto, a mano a mano che li si conosceva si faceva possibile pensare che con la loro riottosità offrissero un modello differente ai propri arrendevoli padri. Spesso pensiamo che il comportamento aggressivo sia un modo di richiamare attenzione, ma quegli adolescenti cercavano un’attenzione non finalizzata al proprio riconoscimento, quanto alla rivalsa del padre ostracizzato e depresso: “guarda come faccio io!”.
Nei casi in cui questi padri, nella loro perdita di status e di identità, finivano per sentirsi soggiogati dalle mogli (le donne di queste culture tradizionali sanno essere molto pragmatiche e capaci di prendere la guida della situazione), la violenza dei ragazzi sembrava a volte accompagnarsi a comportamenti aggressivi verso l’autorità del corpo insegnante, che era prevalentemente femminile.
La questione di chi fosse il destinatario di quel richiamo era piuttosto importante, e lo è qui per ragioni che credo si capiranno meglio fra un po’. L’ipotesi che fosse una forma di protesta che aveva come interlocutore il padre depresso condusse a cercare di promuovere intimità e dialogo fra quei figli e i padri. A volte questo dava sollievo a questi ultimi, che sperimentavano di avere ancora una possibilità di contare nelle vite dei figli, e questi a loro volta sembravano gratificati da questo rapporto con un padre che sembrava di nuovo “competente”.
Soprattutto nella prima ondata migratoria degli anni 80-90 dai paesi africani e arabi l’esperienza di ostracismo – del fallimento e del rifiuto – era frequente. Spesso l’immigrato arrivava in Europa da solo, e lontano dalla propria famiglia doveva lavorare per creare le condizioni per un ricongiungimento. Molte volte era vittima di un doppio ostracismo: se è vero che una strategia di sopravvivenza all’ostracismo consiste nel ridimensionare l’investimento sull’ambiente ostracizzante e nel guardare altrove per trovare alternative in cui sperimentare di nuovo qualche forma di riconoscimento, questa possibilità era spesso preclusa: ammettere di non aver trovato in Europa quello che cercava, tornare a casa e dichiarare il proprio fallimento, insomma tornare a mani vuote dopo aver lasciato la propria terra comportava l’ostracismo da parte dei parenti.
Come ho scritto altrove (anche se in termini differenti: realizzo ora come il concetto di ostracismo possa supportare bene quella critica), la stessa “integrazione” che si propone come soluzione ai problemi della convivenza fra culture, è una forma di ostracismo. Integrare non è altro che (fonte: dizionario Treccani) “far entrare, incorporare un elemento nuovo (cosa o persona) in un insieme, in un tutto, così che ne costituisca parte integrante e si fonda con esso”. Lo si intende dunque come un processo unidirezionale che la cultura “accogliente” opera su quella “ospite”. Ma, scrivevo, “un’integrazione – qualunque cosa si intenda con questo termine – operata da un soggetto nei confronti di un altro definisce un rapporto di potere. È un’azione unidirezionale e non reciproca, e dunque stabilisce una differenza incolmabile al di là dell’intenzione di creare parità e dialogo”.

Ora, mi guarderei bene dal formulare una teoria del tipo “un vissuto di ostracizzazione non dichiarato produce violenza nella generazione successiva”, perché la troverei una reificazione indebita e perché, applicata ai giovanissimi terroristi urbani, avrebbe almeno un difetto grave: io sono un osservatore occidentale ed europeo, e occidentali ed europee sono le famiglie che costituiscono il mio campo di osservazione circa la violenza giovanile. Però mi domando dove ci porterebbe pensare alla violenza estremista come a un messaggio rivolto ai padri ostracizzati.

Ribelli di seconda generazione: i leghisti siciliani

Con tutte le dovute differenze, mi colpiva, anni fa, che la Lega Nord, negli anni in cui interpretava un cupo sentimento antimeridionale, raccogliesse tante simpatie fra gli immigrati di seconda generazione dalle regioni del sud Italia. Non era ancora la Lega attuale, che avrebbe unito nord e sud nel disprezzo per le altre culture (e attendiamo di capire l’entità del fenomeno costituito dai nuovi leghisti figli di extracomunitari).
Questa osservazione sembra contraddire l’ipotesi precedente: questi figli di immigrati avrebbero incarnato bene le fatiche di inserimento dei genitori e dato maggior voce alle loro radici recise se avessero dato vita, non so, a un estremismo meridionalista! Invece no, diventavano attivisti della Lega Nord.
Ma può darsi che la contraddizione sia solo apparente. Certo, pensiamo subito al desiderio di identificarsi con un aspetto forte e unificante della cultura in cui si vive, di sentirsi accettati e di fare piazza pulita di complicazioni identitarie. Ma avvicinandomi ad alcune di quelle storie mi capita di pensare che non sia secondario il fatto che la generazione precedente (protagonista del progetto migratorio verso il nord) abbia vissuto la condizione dell’ostracismo.
È facile trovare anche in forum e articoli in rete documenti che raccontano l’esperienza e la scelta di questi figli di immigrati: sembra che nella loro narrazione l’ostracizzatore dei padri sia non il nord che li ha chiamati terroni, ma piuttosto il sud che li ha costretti a emigrare; quel sud dei loro parenti che, mentre “noi [siamo] qui, a buttare il sangue in fabbrica”, sono rimasti a “l’idea del posto fisso, di un santo che li aiuti”. È in quel sud che ai loro occhi li ha rifiutati e non ha esaltato il loro sacrificio, è nelle generazioni che sono rimaste là, che questi giovani hanno rintracciato il nemico da indicare ai padri. I quali forse, ai loro occhi, sono colpevoli di rimpiangere la terra che gli ha tolto la speranza, e di essere troppo benevoli con essa. Basta lacrime, nostalgia e sentimentalismi.

Alcune ipotesi, dunque

  • Mi domando come cambierebbe il nostro modo di vedere il terrorismo fuori dalla cornice della “guerra fra culture” e piuttosto come un “messaggio ai padri ostracizzati” e inconsapevolmente piegati a una integrazione passivizzante e unidirezionale. Avrebbe conseguenze pragmatiche stimabili nel modo di guardare al rapporto con le culture che si avvicinano a noi, e al terrorismo?
  • Per lo meno ridimensionerebbe il ruolo della religione in tutto questo. Essa avrebbe, in quest’ottica, un ruolo non “a monte”, ma “a valle” con la sua capacità di costituire un modello tanto forte da fare da richiamo conflittuale e identitario. Come dice il sociologo Farad Khosrokhavar, il richiamo alla religione è “un modo per sacralizzare il proprio odio e per legittimare e giustificare la propria aggressività”.
  • Il ruolo della religione sarebbe ridimensionato, ma acquisterebbero rilevanza chiavi di lettura che facciano riferimento alle disparità e alle ingiustizie sociali ed economiche.
  • Infine, sul fronte della prevenzione, si sente ultimamente parlare di identificare soggetti che soffrono di disturbi psicologici. Questo evoca qualche forma di schedatura e di criminalizzazione di stranieri (ma, già che ci siamo: perché solo di stranieri?) che attraversino momenti di sofferenza più o meno profonda o duratura. La prevenzione possibile passa attraverso qualunque iniziativa che combatta l’ostracismo e che favorisca pratiche di integrazione non unilaterale, di dialogo e di ascolto fra nativi e immigrati e fra genitori e figli.
3 comments to “I figli degli “ostracizzati”: un’ipotesi su violenza e terrorismo”
  1. Lasciar chiedere elemosina,cosa che prevede
    quasi sempre un rifiuto,provoca sicuramente un
    senso di inferiorità e rabbia.Il buonismo delle
    non regole genera disprezzo e rivalsa.
    Integrazione e’ sentirsi alla pari ,non tollerati
    o giustificati perché inferiori o diversi.
    Il nostro paese sta mostrando generosità
    pelosa,non sapendo dare un’identità di
    cittadinanza con doveri e diritti.

  2. Pingback: Ritmi per adolescenti: i consigli della pedagogista | genitoricrescono.com

  3. Trovo interessanti le considerazioni fatte in questo articolo. E condivido in particolare questo passo:

    la stessa “integrazione” che si propone come soluzione ai problemi della convivenza fra culture, è una forma di ostracismo. Integrarenon è altro che (fonte: dizionario Treccani) “far entrare, incorporare un elemento nuovo (cosa o persona) in un insieme, in un tutto, così che ne costituisca parte integrante e si fonda con esso”. Lo si intende dunque come un processo unidirezionale che la cultura “accogliente” opera su quella “ospite”. Ma, scrivevo, “un’integrazione – qualunque cosa si intenda con questo termine – operata da un soggetto nei confronti di un altro definisce un rapporto di potere. È un’azione unidirezionale e non reciproca, e dunque stabilisce una differenza incolmabile al di là dell’intenzione di creare parità e dialogo”.

    Vorrei segnalare tuttavia soprattutto i commenti di un altro articolo sempre di Salzarulo (http://www.poliscritture.it/2016/04/19/guerra-al-terrore-i-fronti-esterni-e-interni-2/#comment-28096) perché rivelano quanto siano forti e diffuse anche fra intellettuali “pensanti” le tesi del respingimento, che fanno apparire la discussione sul tema della cosiddetta “integrazione” quasi avveniristica.

Comments are closed.