Un approccio epistemologico alla psichiatria

Un approccio epistemologico alla psichiatria

[ Ripubblico questo articolo giù uscito il 15 febbraio 2006 sulla rivista “Epidemiologia e Psichiatria Sociale”, fondata e diretta da Michele Tansella ]

Nella storia dell’alienistica l’elaborazione della diagnosi e i suoi percorsi evolutivi hanno sempre rappresentato un terreno di mediazione e di collegamento tra le due matrici costitutive della clinica psichiatrica: e cioè tra una percezione diretta del folle ed una sua definizione nosografica (Galzigna, 1992; 1999a); come dire: tra un approccio empirico maturato entro precisi assetti istituzionali ed un approccio categoriale sempre supportato da un determinato orientamento epistemologico: checché ne dicano, oggi, alcuni autorevoli estensori del DSM-IV, convinti di aver costruito il loro edificio nosografico a partire da un punto di vista “ateoretico” e meramente “descrittivo” (Ballerini, 2002).
Occorre prendere le distanze da due posizioni estreme e dannose (Ballerini, 1997): da un lato un rigido diagnosticismo, che ci allontana dalla complessità personologica del paziente, dall’altro lato un cieco empirismo, incapace di cogliere con pienezza la specificita nosografica dei sintomi e il loro orizzonte di senso.
Si tratta allora, in armonia con orientamenti critici sviluppatisi in questi ultimi anni (Barron, 2005), di integrare, entro il processo  diagnostico, la prospettiva nomotetica, che utilizza diagnosi categoriali statiche pre-trattamento, con la prospettiva idiografica, orientata – come mostrano chiaramente importanti studi preparatori del DSM-V (Kupfer et al.,  2002) – alla valorizzazione delle singole storie di vita.
Va considerata positivamente la tendenza a sostituire le diagnosi categoriali statiche pre-trattamento con concetti multidimensionali di assessment, direttamente connessi allo svolgersi delle cure e perciò, in ultima analisi, alia qualità della relazione.
Così intese, le diagnosi, oltrepassando la mera dimensione “descrittiva” (Gabbard, 2005), diventano processuali e possono subire modifiche nel corso della terapia. Prima di mettere a fuoco una definizione nosografia del disturbo, occorre, in definitiva, dare molto spazio al momento empirico. Voglio far rientrare, in questa espressione, tutti i contatti che il gruppo dei curanti riesce a stabilire con il paziente, con i suoi familiari e con la sua rete relazionale. L’anamnesi storico-clinica sarà il primo importante risultato di questa varietà di contatti e di approcci conoscitivi. Essa verrà costruita ed arricchita nel tempo proprio a partire dalla cooperazione continua tra operatori, medici e psicologi. In questa prospettiva, non sarà una semplice cronistoria dei sintomi e delle crisi. Sarà, molto più radicalmente, un luogo di giunzione tra storia di vita e storia clinica, tra eventi e concetti, tra livello empirico e livello categoriale: un terreno fecondo, dove sperimentare l’importanza decisiva di una logica induttiva, attraverso la quale gli operatori, “imparando dall’esperienza”, possano anche utilizzare “argomenti rischiosi” (Hacking, 2005), capaci di mettere in discussione la validità delle teorie. I sintomi, in questa prospettiva, vengono dereificati: collocati entro un orizzonte di senso e restituiti alia loro ineliminabile dimensione storica, sociale e culturale (Shorter, 1993).
Partendo da queste premesse, voglio presentare tre esemplificazioni cliniche; le prime due sono tratte dalla mia attività di consulenza epistemologica svolta presso il Dipartimento di Salute Mentale di Rovigo; la terza, come si vedrà più avanti, e tratta da un confronto on line con due operatori della salute mentale: si tratta, in ogni caso, di tre esemplificazioni relative a storie cliniche non ancora concluse.

UN CASO DI CONFINE

Maria (la chiamerò così) e una paziente trentaseienne. Presenta un evidente disturbo ossessivo-compulsivo: seguendo rituali precisi e costanti, si lava molto spesso mani e braccia con varechina. Costringe il fidanzato a lavare e a disinfettare abiti e macchina, evidenziando una classica rupofobia (riferita al pericolo dell’AIDS). II gruppo dei curanti, con molta cautela e senza giungere a conclusioni diagnostiche definitive, tende ad interpretare questi sintomi come manifestazioni di una grave nevrosi ossessivo-compulsiva (Pancheri, 1992; 1998).
L’osservazione prolungata della paziente e l’arricchimento dell’anamnesi getteranno nuova luce su questo caso molto difficile, orientando sempre di più i terapeuti verso una diagnosi di psicosi. I sintomi DOC, nel caso di Maria, sembrano assolvere a una funzione ben nota in letteratura clinica: proteggono la paziente da una disintegrazione psicotica, svolgendo cosi una funzione “utile”, come afferma Gabbard, “in termini di omeostasi psicologica” (Gabbard, 1995).
Per comprendere la funzione dei sintomi all’interno della struttura intrapsichica globale della paziente, il gruppo dei curanti – armonizzando, al suo interno, mansioni, competenze e paradigmi di riferimento – ha ritenuto necessaria un’anamnesi molto attenta e una conseguente valutazione di carattere psicodinamico, a partire dalla quale la definizione nosografica potesse risultare più appropriata. Vediamo meglio.
La madre di Maria, casalinga tradita dal marito, era stata messa a fuoco, in un primo momento, come madre depressa. Indagini più attente evidenziano una realtà diversa e più complessa. Questa casalinga tradita dal marito, certamente angosciata da vissuti depressivi di scacco e di rinuncia, è per la figlia una figura persecutoria: è una madre sessuofobica e pesantemente intrusiva. Rappresenta quindi, per Maria, il principale veicolo di un Super-io severo, persecutorio, non integrabile. Un Super-io che non produce rimozione delle pulsioni, con conseguente sintomo (è lo schema della nevrosi), ma rigetto, werverfung, delezione delle pulsioni. I sintomi DOC non sembrano quindi sintomi nevrotici (in questo caso sintomi di una nevrosi ossessivo-compulsiva), ma manifestazioni morbose che caratterizzano (non la coprono, si badi bene: la caratterizzano!) la situazione di un Io dissociato e frammentato. Un dato sottovalutato precedentemente acquista ora nuova luce: Maria avrebbe sofferto, in passato, di qualche allucinazione. Nel suo recente ricovero in SPDC ha manifestato la presenza di allucinazioni uditive. II quadro clinico, caratterizzato da vari tentativi di suicidio e da un tentato abuso sessuale subito dal padre quando la paziente aveva sette anni, si e ulteriormente complicato, da qualche tempo, per la presenza di una condotta bulimica che ha pesantemente alterato la fisicità della paziente.
Come si evince da questo esempio clinico, la diagnosi non si è configurata come un’attività classificatoria reificante, rigida, formulata ab imis. È stata in realtà un percorso, un processo: attraverso la cooperazione tra i curanti, essa è progredita e si è sviluppata nel tempo, avvalendosi della maggior capacità dell’intera équipe di comprendere meglio il mondo interno della paziente: di avvicinarsi empaticamente  alla sua storia, alla sua cultura (intesa in senso antropologico), al contesto delle sue relazioni familiari e sociali.
In questo classico caso di confine tra disturbo DOC e psicosi, la diagnosi categoriale lascia il posto alla diagnosi dimensionale, più complessa, ma certamente più adeguata ad inscrivere i sintomi entro un orizzonte di senso. Utilizzare, a fini classificatori, le dimensioni al posto delle categorie significa – non lo si dimentichi – distribuire le malattie, secondo variazioni quantitative, all’interno di un continuum, come ha scritto correttamente Migone, “che va fino alia normalita”: un continuum di gradazioni, dunque, che va dalla salute alia malattia (Migone, 1995; 1998).

SINDROME DI COTARD?

Alex (lo chiamerò così) è un paziente di 37 anni. A partire dal 1989 è stato più volte ricoverato in SPDC e in una clinica privata. I genitori sono sempre stati poco collaborativi ed entrambi protagonisti, in passato, di gravi episodi depressivi. All’età di tre anni il primo ricovero, dopo una crisi convulsiva con vomito e perdita di coscienza. L’anno seguente il secondo ricovero: stessi sintomi, accompagnati da un’angina febbrile. All’età di sette anni evidenti tic relativi agli arti superiori e presenti anche nella sorella, nata quattro anni prima di lui. È lei, a tutt’oggi, l’unico elemento della famiglia con cui il gruppo dei curanti – armonizzando, anche in questo caso, mansioni, competenze e paradigmi di riferimento – spera di portare avanti un dialogo. Alex raggiunge la licenza media, sempre scarsamente motivato verso la scuola, verso l’apprendimento, e comunque incapace di sviluppare, anche in ambito scolastico, una vita relazionale. Ha sempre vissuto confinato nell’ambito domestico, accudito da una madre simbiotica e pesantemente intrusiva.
Dopo il CAR viene congedato dal servizio di leva, a causa di evidenti disturbi psichici, definiti dai medici militari con una dicitura generica: sindrome dissociativa. Subito dopo gli viene ritirata la patente. Emerge, a partire da questi anni, il quadro clinico che perdura tuttora. Evidenti i disturbi del comportamento alimentare – già presenti durante l’infanzia – sempre scanditi da rituali complessi ed elaborati, con evidenti aspetti fobico-ossessivi. Manierismi, ossessività e ritualismi coinvolgono altre sfere del quotidiano: impiega moltissimo tempo (anche delle ore) per vestirsi; predilige abiti militari ed ama essere circondato da armi giocattolo. Tende a coprire la sua pelle – incluse le aree genitali – con carta assorbente, collocata sotto gli abiti. L’eloquio è a volte circostanziato e prolisso: emergono spesso spunti persecutori. L’ideazione è molto povera, polarizzata in prevalenza su tematiche ipocondriache, con tratti ossessivo-compulsivi. I deliri ipocondriaci si accompagnano spesso ad atti gravemente autolesivi, indirizzati soprattutto verso l’area genitale e perianale (taglio delle vene a 21 anni; operato a 26 anni e a 31 anni: prolasso anorettale ed emorroidectomia). L’area genitale e perianale è normalmente oggetto di scrupolosi, reiterati e lenti rituali di pulizia, nei quali viene abitualmente coinvolta la madre. II gruppo dei curanti, concorde nel ritenere assolutamente inutilizzabile una diagnosi categoriale, si è orientato verso una diagnosi dimensionale. Ha poi avvertito la necessità di riutilizzare categorie della psichiatria classica di fine ‘800, estranee al DSM-IV, in seguito ad una complessa e appassionata discussione e ad un esame critico di alcuni testi fondamentali (Borgna, 1988; Lantéri-Laura, 1991; 1997; Resnik, 2001; Cotard, 1882; Séglas, 1897; Ey, 1950). È emersa, per questo paziente, l’idea di riattivare criticamente la ben nota sindrome di Cotard (SdC) con il suo “delire des negations”, ma anche e soprattutto la successiva messa a punto di Jules Seglas, condivisa e riproposta, negli anni ’50, dal grande Henri Ey: la SdC, più che una malattia mentale specifica, era stata considerata come una costellazione di sintomi presenti nelle forme croniche di malinconia, nelle forme ansiose e acute di malinconia e nell’ambito di altre psicosi. Questa concezione più flessibile e meno marcatamente categoriale – “plus souple et plus clinique”, l’ha definita Henri Ey – ci aiuta a concepire il “delirio delle negazioni” come un delirio ipocondriaco presente in svariate forme di disturbo mentale: un sintomo, dunque (o una costellazione di sintomi), di natura transnosografica, più che una malattia mentale specifica, con contorni stabili e ben definiti. II sintomo ipocondriaco rappresenta una difesa molto primitiva dell’io, che ha come base un meccanismo di dissociazione tra mente e corpo. Per risparmiare al pensiero situazioni penose ed angosciose, paranoidi o depressive, l’Io, come spiega mirabilmente Resnik, “evacua nel corpo”. Nel corpo, o in una sua parte, viene spostata un’angoscia intollerabile per l’apparato psichico. Di qui, la tendenza al suicidio, alle mutilazioni volontarie, ai deliri ipocondriaci (ed agli agiti relativi): deliri e idee di non esistenza, di negazione, di distruzione di diversi organi o di tutto il corpo. La difesa ipocondriaca punta a controllare e ad isolare in una parte del corpo un’angoscia psichica intollerabile. Quando questa difesa fallisce nel suo proposito emerge un meccanismo di “negazione onnipotente”, la cui espressione estrema è rappresentata da una tendenza del soggetto a rendere invisibile una parte del corpo o tutto il corpo: si pensi, al proposito, al tentativo, da parte di Alex, di nascondere il corpo sotto una carta assorbente; un corpo negato, quindi, nascosto, assorbito, per l’appunto, sottratto alla vista propria ed altrui. Mutilazioni, coperture e nascondimenti si alternano a momenti di ripiegamento e di ritrazione: Alex, in questi momenti, si flette su se stesso, si rannicchia, rimanendo immobile, passivo. Ma se nel SPDC questi momenti non esprimono nessuna potenzialità comunicativa, nel Centro Diurno (CD) essi sembrano aprirsi a una nuova valenza intersoggettiva. Quando Alex, nel CD, è coinvolto in qualche attività socializzata ed assistita (lavoro al computer, attività motoria, cibo consumato in una festa di compleanno di un paziente, ecc.), allora le condotte autolesive e i rituali alimentari tendono a scomparire. Le posture di rannicchiamento, quando si ripresentano, acquistano un particolare significato comunicativo, che gli operatori cercano di valorizzare: queste posture depresse, o depressive (così le hanno provvisoriamente definite gli operatori), sembrano invocare una comunicazione; sembrano alludere ad una domanda d’aiuto e di accudimento; sembrano annunciare un possibile superamento di quel processo di “néantisation” (nientificazione) – di passaggio dall’essere al nulla, come osserva Henri Ey citando Jean Paul Sartre – che caratterizza ogni “délire des négations”. L’accudimento socializzante – l’accudimento che non implica una negazione dell’altro e del mondo (come accadeva ad Alex quando veniva accudito e isolato dalla madre) – apre una possibilità di comunicazione. L’accudimento socializzante, costantemente orientato ad inserire il paziente in un contesto gruppale, rende possibile il dialogo: Alex riconosce, in alcune foto appese al muro – foto scattate e sviluppate dal gruppo fotografia dei pazienti del CD (Centro diurno di Badia Polesine, 2002) – luoghi della sua infanzia e del suo passato. Un varco si apre. Dal buio della frammentazione psichica, che cancella storia e memoria, emerge il bagliore di qualche ricordo. Un passo è stato compiuto. La riflessione clinica, nell’ambito del gruppo dei curanti, sottolinea criticamente il rischio di produrre, all’interno del SPDC, un accudimento isolante e segregante: una sorta di contenzione dolce e mascherata. Dall’accudimento segregante all’accudimento socializzante il passo sembra breve. Non lo è. Tra le due forme dell’accudimento vi è tutta la distanza che separa una pratica manicomiale (magari mascherata o addolcita) da una pratica riabilitativa e autenticamente terapeutica. La distanza tra segregazione e cura. Tra contenzione e contenimento.

SULLA SINDROME DI CAPGRAS.
OSSERVAZIONI DI METODO

Per Alex era parso opportuno ridiscutere e, in una certa misura, riattualizzare la Sindrome di Cotard. Non è questo l’unico caso in cui, entro l’attivita clinica, si sente la necessità di riabilitare e di riproporre una categoria nosografica della psichiatria classica. Tra i diversi esempi possibili, voglio citare la ben nota sindrome di Jacques Capgras (SJC), riutilizzata nel 2001, per un loro paziente, da Andrea Mazzeo, psichiatra, e da Paola Ulissi, psicoterapeuta (Mazzeo & Ulissi, 2001). Le brevi annotazioni che seguono emergono – nel contesto di un “uso psichiatrico della rete” (Galzigna, 1999b) – da una discussione on line che ho avuto modo di aprire con gli autori, sia all’interno della rivista telematica Psychiatry on line Italia, dove era apparso il loro contributo, sia in una mailing-list correlata. Qualche osservazione.
Lo psichiatra francese J. Capgras, allievo di Magnan, illustra in tre articoli (Capgras & Reboul-La Chaux, 1923; Capgras & Carrette, 1924; Capgras et al.,  1924) la sua nota sindrome, conosciuta anche come illusione del sosia. Nell’ambito della letteratura dedicata alia SJC, Mazzeo dà grande rilievo all’interpretazione antropoanalitica di Bruno Callieri (Callieri, 1974). Ma vorrei ricordare anche il contributo, che risale al 1955, di un altro ‘padre’ dell’antropoanalisi italiana, Danilo Cargnello, al quale lo stesso Callieri si ispira direttamente (Cargnello & Della Beffa, 1955). II paziente SJC – riprendo Cargnello – vede in un alius il sosia di un’altra persona (alter) che egli conosce bene ed alla quale è legato. II sosia (l’alius) può anche essere visto dal paziente come un impostore che cerca di assumere le sembianze dell’alter.  A questo alius si indirizzano i sentimenti negativi del paziente: sentimenti “spostati” dall’alter all’alius.  Questi “spostamenti psicotici” – per dirla con Silvano Arieti – possono essere considerati come parte di una “sindrome paranoide”: emerge, in casi simili, una diagnosi di “schizofrenia paranoide” che gli autori applicano al loro paziente, in chiusura dell’articolo, definendola “diagnosi definitiva”.
Per ovvie ragioni, non ho la possibilità di entrare nel merito della diagnosi. Mi sembra, tuttavia, che il finale dell’articolo sia improntato ad un certo pessimismo terapeutico, di cui anche l’aggettivo “definitiva” è forse una spia eloquente. Mi domando quali possano essere il significato e la legittimità di questo aggettivo. Mi piacerebbe sapere se per questo paziente – a proposito del quale si parla di una “compliance farmacologica e psicoterapica” che “rimane molto bassa” – è possibile pensare ad un nuovo progetto terapeutico. Cosa si fa – a livello psicoterapico – e cosa si pensa di fare, per questo paziente (e con quali strumenti, e con quali operatori), al di là della citata “terapia neurolettica”? Dando per acquisita la diagnosi, mi permetto di aggiungere qualche osservazione, che spero possa essere utile al proseguimento della ricerca clinica avviata dai due autori.
Inizio citando Silvano Arieti (Arieti, 1978): “La sindrome di Capgras può dunque esser vista come una forma insolita di spostamento psicotico. Dallo stato normale alle nevrosi e alle psicosi si presentano tutte le gradazioni di spostamento. Nella pratica privata vediamo spesso come il risentimento della giovane sposa verso la madre venga liberamente spostato e liberamente espresso alia suocera, nei confronti della quale la nuora non ha sentimenti ambivalenti […] Alla persona reale viene risparmiato l’odio della paziente […] e i sentimenti di ostilità vengono diretti contro l’impostore […] Ovviamente la madre viene identificata con l’impostore, ma quest’identificazione rimane inconscia”.
Identificazione inconscia, dunque. Evidente, in questo caso, la necessità di ‘integrare’ l’approccio psicopatologico con quello psicodinamico. A questo proposito, non è forse inutile qualche richiamo storico. Già Capgras, soprattutto nell’articolo del 1924, si era mostrato sensibile a questa necessità di un approccio integrato. Va ricordato che la SJC si inserisce in una vasta esplorazione delle psicosi paranoiche, che la scuola clinica francese aveva sviluppato all’interno del vecchio quadro dei “deliri sistematizzati”. Nella sua tesi di dottorato – Della psicosi paranoica (1932) – Jacques Lacan (Lacan, 1980) rivaluta il lavoro di Capgras e, più in generale, i contributi della scuola clinica francese. Di Capgras si veda soprattutto l’importante lavoro scritto con Sérieux nel 1909 (Sérieux & Capgras, 1909): qui la “costituzione paranoica” viene analizzata, con straordinaria finezza clinica, come configurazione psichica, come “complesso ideo-affettivo” – direttamente influenzato dai conflitti sociali e dall’ambiente – strutturato attorno a due assi fondamentali, clinicamente distinti, ma comunque appartenenti ad una sostanziale unita nosologica: il delirio di interpretazione e il delirio di rivendicazione.
Leggo, nell’articolo di Mazzeo e Ulissi: “È comparso successivamente un aspetto che si potrebbe definire rivendicativo”. Stando al testo del 1909, sembra che nei “rivendicativi” la “costituzione paranoica” contenga elementi di una “predisposizione” più accentuata, spesso favorevole all’esaltazione ipomaniacale. Nel delirio di rivendicazione emergerebbe sovente, tra i vari meccanismi, una “idea fissa che si impone alla mente in modo ossessivo”, che “orienta da sola l’attività intera” e che “la esalta in base agli ostacoli incontrati”. Nella fase “rivendicativa” del paziente – mi domando – sono emersi elementi di questa natura? La sua “pretesa di una riabilitazione”, di cui si parla nell’articolo, e assimilabile a quanto detto sopra?
La concezione “psicogenica” della paranoia e dei suoi deliri costitutivi – che influenzò anche Kraepelin nella stesura dell’ottava edizione del suo trattato – domina la clinica francese fino alla seconda guerra mondiale. Concezione “costituzionalista” ma insieme “psicogenica”, e quindi aperta a sollecitazioni e a integrazioni. La rapida annotazione psicoanalitica di Arieti prima citata trova precisi riscontri già a partire dalla letteratura clinica francese dei primi quarant’anni del ‘900. In questa congiuntura, il denominatore comune fu proprio lo sviluppo di un continuo confronto tra psichiatria clinica e psicoanalisi (Roudinesco, 1986).
Non avendo avuto contatti diretti con il paziente ed avendo seguito solo attraverso comunicazioni scritte il percorso terapeutico prescelto, mi sono limitato ad alcune osservazioni di metodo.
Un primo e limitato confronto, dunque, nel quale e emersa, in ogni caso, una difficolta molto spesso presente nelle équipe terapeutiche dei Dipartimenti di Salute Mentale: la difficoltà – già messa a fuoco da Tanya Luhrmann anche a partire da un vertice osservativo di tipo antropologico – di armonizzare e di integrare “le due menti” (two minds) della psichiatria (Luhrmann, 2000): l’approccio farmacologico e quello psicoterapico; più in particolare, il paradigma biologico e quello psicoanalitico (Kandel, 2005).
Sviluppandosi nell’ambito della psichiatria, un’epistemologia clinica – intesa come epistemologia applicata e definibile come epistemologia della connessione  lavorerà al superamento di queste barriere, che rendono troppo spesso insufficiente e inefficace ogni scelta terapeutica.


 

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