Un’appassionata nonviolenza – lutto, rabbia e resistenza alle politiche dell’inimicizia

Antonio Ligabue, Re della foresta, 1959 (olio su tela, particolare)

Antonio Ligabue, Re della foresta, 1959 (olio su tela, particolare)

Judith Butler su lutto e non-violenza

Old pirates yes they rob I/ Sold I to the merchant ships/Minutes after they took I/ from the bottomless pit/ But my hand was made strong by the Hand of the Almighty/ We forward in this generation triumphantly…. Won’t you help me sing, these songs of freedom….

Con l’Alleanza dei corpi [2017] Judith Butler prosegue la sua ricerca sulla biopolitica contemporanea e sulla precarietà come conseguenza della gestione ‘differenziale’ della vulnerabilità. Ma se la precarietà è legata alla gestione delle disuguaglianze, per Butler come per Mbembe e molti altri è la co-vulnerabilità che potrebbe accomunare e rendere possible la co-abitazione del mondo. La vulnerabilità andrebbe dunque pensata – al di fuori di ogni culto della “vittima” – come una dimensione radicalmente ontologica, costitutiva dell’esistenza di ognuno e fondamento di una socialità umana che non può essere gestita in modo “contrattuale” o rivendicativo. Donna Haraway in Staying with the trouble [2016] affronta lo stesso tema in termini ecosistemici: accedere alla capacità intesoggettiva di vivere e morire bene e non solo tra umani. Si tratta – dice Butler – di una questione di empatia attraverso il tempo. Ma, se i più vulnerabili sono considerati indegni di cittadinanza, se non hanno accesso allo spazio pubblico, come potranno evidenziare che sono vivi o rivendicare una vita vivibile o «più semplicemente una vita prima della morte»? Il problema non è la vulnerabilità, che è dote di ognuno, ma l’esclusione dal vincolo sociale. Già Hannah Arendt aveva messo in guardia contro l’inclusione escludente:

Gli individui costretti a vivere al di fuori di ogni comunità sono confinati nella loro condizione naturale, nella loro mera diversità, pur trovandosi nel mondo civile (…) Il loro distacco dal mondo, la loro estraneità sono come un invito all’omicidio, in quanto la morte di uomini esclusi da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politica, rimane priva di qualsiasi conseguenza per i sopravvissuti [Arendt, 1951 (2009) p. 418].

Distinguere tra vittimizzazione e co-vulnerabilità è una possibile chiave di volta verso il riconoscimento dell’esistenza di prospettive diverse che possono generare un quantum di aggressività immunitaria (o divorante) inter e intra-specie. Il riferimento è alle ricerche dell’antropologia brasiliana sul propsettivismo. Anche gli esseri umani e l’ethos delle culture sono a un tempo simili e differenti. Le culture primordiali amazzoniche per esempio ci ricordano che siamo mossi da pulsioni e aspirazioni che nel confliggere possono trovare un equilibrio, una collocazione ecosistemica. In una forma meno consapevole la spirale retorica della reciproca sottrazione è moneta corrente nei modi di costruzione rivendicativa delle politiche identitarie contemporanee.

Oggi la biopolitica della precarietà viene particolarmente riflessa dalla crisi migrante, dai campi di concentramento libici come male minore dalle politiche dei muri sovrani.  La vulnerabilità continua in  a essere prevalentemente pensata secondo un calcolo di costi e benefici. Era questa anche la logica dell’eugenetica nazista: eliminiamo subito i più deboli, facciamo spazio a chi è “degno” di una buona vita.

In Approdi e Naufragi [2016] ho cercato di evidenziare l’importanza delle pratiche di sepoltura ‘dal basso’ durante le diaspore della schiavitù, pratiche che testimoniavano nel “negativo” del lutto – e attraverso la rivendicazione del diritto alla sepoltura – la capacità degli esclusi e tra esclusi di riconoscere il continuum della vita, persino di quella più vulnerabile. L’epoca della tratta è stata quelladelle prime grandi migrazioni che  hanno accompagnato la modernità. Nel crogiolo degli orrori della tratta emerse il seme di un’immaginazione etica che trascende la retorica di «sangue e suolo» come pure quella della «nazione». Secondo Mbembe [2006] questa fu l’epoca del mescolarsi forzato delle popolazioni,della scissione creatrice attorno alla quale sorse il mondo creolo delle grandi culture urbane contemporanee e

«il momento in cui alcuni uomini strappati alla terra, al sangue e al suolo, impararono a immaginare delle comunità al di là dei legami del suolo»

La storia della schiavitù testimonia che persino nelle condizioni estreme della tratta non si è mai spenta quell’aspirazione a un sovrappiù di vita. Del resto poter onorare il defunto nel lutto significava anche riconoscere che la sua vita era stata – o avrebbe potuto essere – amata. Reclamando il diritto al lutto gli schiavi non permisero che la vita e la memoria dei morti ma anche dei vivi cadessero nella fossa comune dell’indifferenziato, di ciò che, privo di utilità economica, e di possibilità di differenziazione,è condannato alla ripetizione come un fantasma che ritorna mutoe identico.

Mi colpisce molto che molti pensatori contemporanei della crisi suggeriscano l’importanza di una forma di coscienza inclusiva generalmente associata alle ‘culture primordiali’, una sorta di ‘presente esteso’, di «empatia attraverso il tempo» che include l’idea di un dialogo benjaminiano con i morti. E questo dialogo sulla co-vulnerabilità include sempre più la Terra e la questione ecologica. Viveiros de Castro e Donna Haraway parlano tra di loro e ascoltano quanto ha da dire Davi Kopenawa. Isabelle Stengers e Bruno Latour si preoccupano di una Gaia sempre meno ‘materna’ e sempre più incavolata.

La dimensione psicosociale (anzi direi: psicosocioambientale) del lutto rimanda anche ad alcune considerazioni di Franco Fornari sulla guerra come elaborazione paranoica del lutto – considerazioni quanto mai attuali in un’epoca dove l’inflazione di Hermes nell’era della virtualità mediatica e della dittatura dell’algoritmo nutre con ferocia in quasi tutto il mondo la paradossale tentazione di esprimere questa forma embrionale e pulsionale dell’io che come insegnava Winnicott mette alla prova la costruzione del vincolo distruggendolo. Se dunque la guerra è elaborazione paranoica del lutto, politica dell’inimicizia, la pace avrà a che fare con una capacità di trovare una diversa collocazione alla perdita. Non va sottovalutata la possibilità che per molti la prospettiva religiosa, riemerga – come durante la schiavitù – in senso lato come desiderio di liberazione su più piani.

Non più oppio dei popoli ma fonte di resilienza e resistenza culturale. Sopratutto se il dialogo interiore tra logos e muthos non viene ingessato da istanze rigide di controllo che invece strutturano una religiosità difensiva e identitaria, un idolo a cui aggrapparsi. Ma perché ignorare la passione per la giustizia che spesso è insita in modo radicale nella narrazione religiosa? Lo dice bene Achille Mbembe [2006]:

«La lotta per uscire da un ordine disumano delle cose non saprebbe esimersi da ciò che si potrebbe chiamare la produttività poetica del religioso […]. Il religioso si intende non soltanto come rapporto col divino, ma anche come «istanza della cura» e della speranza in un contesto storico in cui la violenza ha toccato non solo le infrastrutture materiali ma anche le infrastrutture psichiche attraverso la denigrazione e l’annientamento.»

Questo mi ricorda le considerazioni di Jean-Michel Hirt sul rovesciamento pulsionale che opera in un principio o archetipo di resistenza, resilienza e resurrezione, significante che non rimanda a nessun altro significante e determina un capovolgimento della pulsione distruttiva  in una violentissima desiderante nonviolenza biofila.

A proposito di rabbia lutto e non violenza vorrei condividere un bell’intervento della stessa Butler che potete ascoltare nel link e leggere di seguito nella mia approssimativa traduzione[1].

Trascrizione di (2014) Judith Butler: Speaking of Rage and Grief https://www.youtube.com/watch?v=ZxyabzopQi8

«Parlare partendo dalla rabbia non ci permette di vedere quanto la rabbia contenga e celi dolore. Così non riesco a farlo in modo adeguato. Per lo meno non questa sera. Molto spesso la rabbia nasconde il dolore in modo abissale, lo spegne. E’ mai possibile che il dolore possa invece far collassare la rabbia? C’è forse qualcosa che potremmo imparare sulle fonti della non violenza da questo potere particolare che il dolore avrebbe, quello di sgonfiare la rabbia della sua potenza distruttiva. Anne Carson[2]. si chiede “Come accade una tragedia?” e risponde “Perché sei pieno di rabbia. E perché sei pieno di rabbia? perché sei pieno di dolore. Chiedi a un tagliatore di teste perché taglia teste umane[3]. Dirà che è la rabbia a muoverlo e che la rabbia nasce dal dolore. L’atto di tagliare e buttar via la testa della vittima gli permetterebbe di buttar via tutti i suoi lutti. Potresti pensare che ciò non si applica alla nostra situazione, ma ti ricordi quella volta che tua moglie ti stava portando al funerale di tua madre e ha girato a sinistra invece che a destra a un incrocio e hai dovuto gridarle contro così forte che al semaforo gli altri autisti si sono voltati a vedere che succedeva e quando le hai tagliato al testa e l’hai buttata fuori dal finestrino si sono limitati ad annuire, hanno messo la prima e se ne sono andati?”. Fine della citazione. Il dolore è insopportabile e da quella insopportabilità nasce il desiderio di uccidere. Una morte che produce altro dolore. Abbiamo capito esattamente come funziona questa cosa? Questa transizione da un dolore insopportabile a una rabbia incontrollabile che si muta in distruttività? Forse il dolore viene immaginato attraverso una forma che sembra chiedere violenza, come se il dolore stesso potesse essere in tal modo ucciso, fatto fuori. Potremmo forse trovare una delle fonti della non violenza nella capacità di fare il lutto, nella capacità di stare con una perdita insopportabile senza trasformarla in distruzione? Se potessimo sopportare il nostro dolore, saremmo forse meno inclini a reagire violentemente? E se, d’altro canto, il dolore è insopportabile, esiste allora un altro modo di viverlo che non corrisponda alla sopportazione? Visto che è insopportabile? Conosciamo già i contorni di questo terribile circuito, distruggere per metter fine a un dolore insopportabile, per far finire ciò che è insopportabile, ma in realtà raddoppiando la perdita, distruggendo nuovamente. Forse quell’atto distruttivo è un modo di annunciare che ciò che è insopportabile è ora il problema di qualcun altro, non più solo mio: “ecco, prendi questa mia cosa insopportabile, ora è anche tua”. Ma qualcuno ha mai elaborato un lutto devastando la vita di qualcun altro? Qual è la fantasia, la presunzione che si cela in questa forma? Forse la scommessa è questa: se nel distruggere io diventassi improvvisamente pura azione, forse finalmente eliminerei la passività e la vulnerabilità. ‘Finalmente’, vale a dire, per un istante. O forse con la distruzione si vorrebbe che il resto del mondo venisse travolto dal medesimo sentimento di devastazione. Se il mondo è invivibile senza coloro che abbiamo perso, forse ciò che emerge è una forma disperata di egualitarismo secondo il quale tutti dovrebbero soffrire la medesima devastazione. Un tale atto di distruzione generato da un dolore insopportabile forse si basa sull’idea che con una tale perdita il lutto è già accaduto. Distruggere diventa una ridondanza, una ratificazione di ciò che è già accaduto. O forse c’è tentativo di portare il dolore al culmine, prendendo di mira un mondo in cui un tale dolore è possibile agendo la distruttività, facemdola proliferare furiosamente, generando altri lutti, distribuendo la perdita in modo ancor più irrazionale e insopportabile. Naturalmente, ciò che è insopportabile è di per sé già più di ciò che si può sopportare. Come potrebbe esserci qualcosa di ancor più insopportabile rispetto a ciò che è già troppo? Questa forma terribile dell’ineffabile viene proiettata sul mondo con quella forma furiosa di dolore che chiamiamo distruttività. Potremmo chiederci, ma c’è soddisfazione in questa distruzione? C’è soddisfazione nella guerra? Freud ci dice che certe forme di distruttività non generano piacere, non generano soddisfazione, ma mettono in atto una specie di ripetizione meccanica senza mai generare con la vendetta una vera soddisfazione. Eppure, eccoci qua. Attraverso la guerra la morte pare generare una terribile forma di soddisfazione. Il genere di soddisfazione a cui però bisogna resistere. La pace è solo molto occasionalmente uno stato di quiete. Per la maggior parte è semplicemente una lotta contro la distruttività. La pratica di resistere alla terribile soddisfazione della guerra. A che cosa dunque vi invito? Vi consiglio forse di sopportare più dolore? Penso che un aumento esponenziale del dolore provocherebbe meno distruttività nel mondo? No. Se non altro perché il dolore non si sottomette a nessuna misura matematica. Il dolore non consiste solo nel prendere atto che qualcuno, qualche gruppo o a volte un intero popolo è finito o quasi finito. Non è un processo lineare che finisce quando il principio di realtà consegna il suo verdetto. Certo, coloro per i quali stai facendo il lutto sono certamente andati. E il lutto non si conclude nemmeno quando scopriamo, come pensava Freud, di avere più o meno incorporato con successo una persona persa nella nostra realtà psichica. I nostri gesti, il nostro modo di pensare, il nostro modo di vestire, il nostro modo di parlare riflettono questa realtà incorporata. Ma il lutto ha a che fare con l’arrendersi a una trasformazione non desiderata, dove né la forma piena, né la comprensione piena di quella trasformazione può essere conosciuta in anticipo. L’effetto trasformativo di una perdita rischia sempre di diventare un effetto deformativo. Qualunque cosa essa sia non si sottomette alla volontà. È uno specie di sfacelo. Si viene colpiti da onde nel mezzo della giornata, nel mezzo di un compito. E tutto si ferma. Si inciampa, a volte si cade. Cos’è quell’onda che improvvisamente sottrae gravità e movimento. Quel qualcosa che ti fa fermare e ti affonda. Da dove viene? Ha un nome? Cosa ci possiede in questi momenti in cui non siamo decisamente più padroni di noi stessi e del nostro movimento quando perdiamo certe persone e veniamo espulsi da un luogo o perdiamo una comunità? Potrebbe essere che qualcosa di ciò che siamo venga improvvisamente alla luce, qualcosa che delinea i legami che abbiamo con gli altri, qualcosa che ci mostra come costruiamo vincoli. E che i legami che ci compongono sono anche quelli che ci disfano, che ci scompongono. Se perdendoti si evidenzia ciò che mi costituisce nel mio legame con te non sto solo facendo il lutto perché ti ho perso, ma perché sono diventato indecifrabile a me stesso ed è così che la vita è diventata insopportabile. Chi sono senza di te? Io non ero solo qui, io qui e tu là. Ma l’io era anche nell’attraversamento. Ero là con te ma ero anche qui. Così, per certi versi ero già decentrata. E questo stesso decentramento era prezioso. Eppure quando perdiamo qualcuno perdiamo il nostro terreno. Rischiamo improvvisamente di perdere le nostre vite o di prendere quelle altrui. Forse quello che si perde allora è proprio il sentimento che è possibile vivere anche senza di te, senza quel ‘tu’ specifico che sei stato. E quando ci sorprendiamo di essere sopravvissuti là dove la sopravvivenza era impensabile, allora capiamo che se riesco vivere senza di te è solo perché non ho perso il posto del tu, di un tu a cui rivolgersi. La persona a cui ci rivolgiamo è già legata a noi nella lingua, nella condizione linguistica della nostra sopravvivenza. Potresti essere proprio tu o un altro tu che ha un altro nome. Ma forse anche un qualche tu che non conosco ancora. Forse è un grande insieme di tu, in gran parte senza nome, che ciò nonostante sostengono la mia gravità e il mio movimento. E senza quel ‘tu’, senza quel pronome indefinito, promiscuo ed espansivo siamo finiti e cadiamo. Una perdita potrebbe sembrare qualcosa di esclusivamente personale, privato,una perdita che isola. Ma che potrebbe anche offrirci un inaspettato concetto di comunità politica, persino la premonizione di una possibile fonte di non violenza. Se la mia vita non è originariamente o in ultima analisi separabile dalla tua, allora quel ‘noi’ che siamo non è solo un aggregato di io e di te e di tutti gli altri, ma un insieme di relazioni di interdipendenza e passione. Questo non lo possiamo negare o distruggere senza rifiutare qualcosa di fondamentale sulle condizioni sociali della nostra vita. Quello che ne consegue è un ingiunzione etica che ci prescrive di aver cura di questi legami. Perfino dei legami tormentati proprio per restare in guardia contro quelle forme di distruttività che ci possiedono e che possono rapirci le nostre vite e quelle degli altri distruggendo le condizioni ecologiche della vita. Detto in altro modo, prima ancora di perdere qualcuno siamo già persi nell’altro. Persi senza l’altro. Ma non lo sappiamo mai così bene come quando effettivamente perdiamo qualcuno. Le relazioni sociali hanno il potere di sostenerci e di spezzarci ben prima che sia possibile stabilire un contratto che confermi che le nostre relazioni sono il risultato di una nostra scelta. Siamo già nelle mani degli altri. Dall’inizio. È un modo eccitante e terrificante di iniziare la vita. Fin dall’inizio siamo fatti e disfatti dall’altro e se rifiutiamo questa cosa, rifiutiamo la passione, la vita e la perdita. La forma vissuta di quel rifiuto è la distruzione. La forma vissuta della sua affermazione è la non violenza. Forse la non violenza è la difficile pratica di permettere che la rabbia collassi nel lutto? Allora potremmo avere la possibilità di sapere che siamo legati agli altri in un modo tale che ciò che sono o ciò che sei è uesta relazione vivente che talvolta perdiamo. A tutta velocità qualche volta ci allontaniamo dall’insopportabile oppure ci precipitiamo nella sua morsa o facciamo entrambe le cose allo stesso tempo. Ci sembra insopportabile essere pazienti con una perdita insopportabile, eppure quella lentezza, quell’impedimento può essere la condizione per mostrare a cosa diamo valore e forse anche quali passi fare per preservare ciò che è rimasto di ciò che amiamo. Grazie.»

 

[1] Ringrazio Giorgia Mirto per la trascrizione della traduzione del testo di Butler letta nel seminario romano sulla clinica della crisi.

[2] Anne Carson – poetessa e saggista canadese – la citazione è tratta dal suo Grief lessons: Four plays by Euripides [2006]

[3] Il riferimento è a un famoso testo di Renato Rosaldo Grief and a Headhunter’s Rage [1984]