Poscritto a “Crudeltà e passione”: 1. Nascita di Heteronymos

Jean-Antoine Watteau, L'indifférent, circa 1717 (particolare)

PREMESSA. L’Editore (E) chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore (A)

E. Dopo la prima pubblicazione einaudiana della Cognizione del dolore (1963),anche questa volta, in quanto Editore, presento ai miei lettori “quod superest”, ciò che rimane, di un altro testo: si tratta di un manoscritto firmato con il nick-name Heteronymos, seguito da un indirizzo telematico. Il manoscritto è stato ritrovato fortuitamente da un amico dietro l’altare della Chiesa settecentesca dell’isola veneziana di San Servolo. Anche questa volta, come era già accaduto con Gadda, in quanto Editore chiedo venia del recupero chiamando in causa l’Autore: pur non conoscendolo personalmente, lo sollecito ad aggiungere qualche osservazione utile e chiarificatrice. Il manoscritto ritrovato si muove all’incrocio tra il racconto e la riflessione. Il lettore troverà poi, nel poscritto dell’Autore che conclude il libro, una sorta di appendice esplicativa, scandita da un intreccio tra spunti narrativi e momenti argomentativi e destinata a funzionare come una singolare sintesi tematica. O meglio: come un singolare corredo tematico e concettuale entro il quale inserire le “avventure”, le situazioni e le congiunture che vengono poi raccontate nelle diverse parti del testo.

A. Accolgo volentieri l’invito. Heteronymos è un nick-name che dà voce a un personaggio stratificato e multidimensionale: un soggetto plurale, che ho voluto mettere in scena. Un soggetto che è uno, ma che è anche molti. Un caleidoscopico uno-molti. al quale ho cercato di assegnare storia e spessore: un enigmatico ossimoro, che solo il gioco della narrazione potrà presentare con nomi diversi e con differenti sfaccettature. Il mio nome proprio – il mio nome d’autore – e il nick-name, qui, si confondono, si sovrappongono, si ibridano. Potenza del virtuale! Ti permette di uscire dalle gabbie egoiche, che troppo spesso imbavagliano il pensiero e l’immaginazione.
Mi fa piacere credere che l’Editore non sappia nulla del personaggio – Heteronymos – che come Autore ho voluto mettere in scena: un personaggio inventato? un personaggio reale? un soggetto collettivo? un soggetto individuale? e in questo caso: un maschio? una femmina? un trans? Solo attraverso il gioco di questa incertezza identitaria, la scrittura può forse riconquistare il suo primato e la sua sovranità.

POSCRITTO

1. Nascita di Heteronymos

Heteronymos è il nick-name che avevo scelto. La mia esperienza personale – una cura di sé nel teatro del mondo – si è intrecciata con altre vicende, con altre storie di vita: con gli enigmi del singolo, con le sue voci, con i suoi silenzi, con lo scintillio tumultuoso delle moltitudini.
Ho affrontato in maniera non solipsistica i fragori, le devastazioni e le alterne vicissitudini della rottura: dall’attraversamento del dolore e dalle lacerazioni della perdita fino alla riconquista di sé e al risorgere della speranza.
Solo l’itinerario condiviso di una cura di sé può sottrarre la rottura al logorio della solitudine, all’egemonia paralizzante del lutto. Esiste, insomma, la possibilità di un buon uso della rottura, concepita come preludio e come annuncio di rinascita. Esiste la possibilità di vivere certe forme della rottura come riapertura del tempo, che proietta il mio presente verso un futuro possibile: esperienza preziosa, anche se sofferta, che mi spinge a riesaminare criticamente la mia storia, il mio modo di vivere e di pensare, il mio modo di stare con gli altri.
La rottura produce perdita, ma talvolta è anche vero il contrario: uno stato essenziale di perdita e di mancanza produce esperienze di rottura e di lacerazione. Su questo movimento circolare – su questo fondamento instabile – lavora la malinconia, sempre collegata, anche nelle sue forme non patologiche, all’esperienza della perdita. Ma dalle devastazioni della perdita possono nascere nuove potenze vitali. Posso lenire o superare il dolore della perdita – posso oltrepassare le paludi della malinconia – se lascio spazio alla passione del molteplice. Se do parola, anche attraverso i giochi del virtuale, al mondo che abita la mia mente. Lenire e superare il dolore della perdita, oltrepassare, quindi, l’orizzonte della malinconia, significa allora, per me – e per Heteronymos – valorizzare le energie vitali, le potenzialità creative, l’intero mondo che palpita nella mia mente. Un mondo sperimentato, vissuto, privo di confini stabili. Un cosmo illimitato, accessibile anche a partire da un uso nomadico e creativo della rete: da un attraversamento ludico ed erratico degli spazi virtuali.
Le verità e la varietà del mondo vivono nella mia mente: nella mente di Heteronymos. Cerco di abbattere le prigioni dell’io spronato da questa coscienza-mondo.
In compagnia della parola, del suono, dell’immagine.
In compagnia di molti orditi espressivi che rompono l’uniformità monocromatica dell’essere, che accompagnano questo mio viaggio oltre i confini dell’io: fuori dalle tirannidi – ora dolci, ora feroci – dell’ancoraggio identitario.
Lo so fin troppo bene: la maschera identitaria, legittimata da saperi codificati e collaudati – paludati e arroganti –, copre le infamie, il sangue, le usurpazioni, le violenze, i genocidi. Occorre spezzarla, sul filo dell’irrisione e della parodia. Occorre mostrare la sua consistenza effimera, la sua natura arbitraria, contingente, fittizia: il suo carattere di feticcio, contrabbandato, troppo spesso, per assetto naturale e immodificabile.
In compagnia di Gadda: in compagnia del mio amatissimo Carlo Emilio, genio malinconico e penna sublime, voglio irridere alla “vanagloria” dell’io: “idolo tarmato”, “bambolotto della credulità tolemaica”. Voglio sbeffeggiare questo pronome – “il più fanfaronesco” tra i pronomi di persona – che ha meritato il sarcastico e crudele dileggio del “gran lombardo”.
A partire dal superamento di una concezione solipsistica della mente – una concezione che la ipostatizza, che la considera un’entità disincarnata, separata, sovrana – si possono attivare tutte le risorse che rendono possibile un buon uso della rottura: a monte, un nuovo punto di vista, che assegna alla rottura, più che i colori del lutto, la fisionomia di un’opportunità vantaggiosa. Rottura rinvia a rompere, al latino rumpere, e alla sua radice indo-germanica ruplup nel sanscrito classico –, che indica lo strappo, l’interruzione, la perdita, ma anche la capacità di aprirsi una strada: una rotta – rupta, in francese route – un nuovo percorso. Un’opportunità vantaggiosa, dunque: il καιρόσ (kairòs) degli antichi greci, cioè un momento propizio, un’occasione favorevole, ma anche – come suggerisce la ricerca etimologica di Chantraine – un punto critico, gravido di pericoli.
Sopra le ceneri di una catastrofe esistenziale radicalmente vissuta e mai rimossa – sofferta e rielaborata – nasce dunque per me, per Heteronymos, un nuovo inizio: la possibilità di una reinvenzione giocosa del tempo e dello spazio.

Seduto, solo, davanti al computer. Apro la pagina del mio blog. Avevo deciso di presentarmi nella blogosfera con il mio nuovo nick-name – Heteronymos – ispirandomi all’aggettivo greco heterónymos: l’uomo dai tanti nomi, l’uomo dal nome diverso. Una denominazione particolare, dunque, per la blogosfera. Un nome singolare che veicola una presenza plurale. Heteronymos è l’Uno–molti: la personificazione di un ossimoro; un rizoma – come lo pensavano Deleuze e Guattari – non una radice; un soggetto che vive nella molteplicità dei suoi registri espressivi e produttivi. Multum in parvo, come recita l’antico adagio latino: sul piccolo schermo luminoso, a definire quel nome, molti linguaggi, molti vissuti, molte avventure, molte pulsioni…
Heteronymos è il nome di una maschera. Lo so da molto tempo: la fragile identità che cerchiamo di garantire e di “raccogliere” sotto ogni nostra maschera “non è che una parodia: il plurale l’abita, anime innumerevoli vi si disputano”. Così, assieme e dopo Nietszche, si era espresso Michel Foucault, la cui parola – ancor oggi – arricchisce e destabilizza. La sua genealogia serve a decostruire l’“idolo tarmato”, tanto inviso al gran lombardo; a mettere a fuoco i “sistemi eterogenei” che proliferano “sotto la maschera del nostro io”; a produrre “la dissociazione sistematica della nostra identità”. È possibile inventare, nella rete, itinerari che rendano possibile un uso creativo di questa dissociazione volontaria, consapevole e sistematica.
Per scegliere una denominazione adatta al mio blog, ho fatto riferimento ai diversi eteronimi che popolano l’opera di Fernando Pessoa. Heteronymos, dunque: l’Uno che racchiude i Molti. Una sola moltitudine. Uno spazio multicolore. Ricco di parole, di testimonianze, di dati: laddove “i dati stessi”, come scrive Don DeLillo in Cosmopolis, sono “pieni di calore e di passione”. Sono “un aspetto dinamico del processo della vita”. E “l’imperativo digitale” definisce “ogni respiro dei miliardi di esseri viventi del pianeta”. Lì c’è “il palpito della biosfera”: “i nostri corpi e oceani” stanno proprio lì, “integri e conoscibili”.
Lì, sullo schermo luminoso: accessibili, integri e conoscibili nel momento stesso in cui riesco a utilizzare in modo creativo il computer, trasformandolo – come disse, un tempo, Sherry Turkle – in una macchina per l’intimità, capace di infondere vita all’algoritmo digitale. Di contro, la miseria e la vacuità dei dibattiti teorici e delle dispute accademiche sulle differenze o sulla presunta dicotomia tra reale e virtuale…

Seduto, solo, davanti al computer. Con me stesso, con gli altri, con il mondo. Rileggo alcuni commenti a uno dei miei post: un testo già pubblicato in una rivista di psichiatria, nel quale avevo cercato di documentare – con intenti critici e con freddezza analitica – l’uso dell’elettroshock nella psichiatria clinica americana…
In armonia con il suo titolo, ho inserito nel blog materiali eterogenei: frammenti di vissuto, riflessioni, invettive, poesie, qualche intervento di taglio psicologico e socio-politico, già uscito mutilato su giornali quotidiani e ripubblicato nella sua veste integrale, senza tagli o censure; infine la traduzione di qualche autore straniero, non soltanto letto e amato ma certe volte incontrato personalmente. È il caso di Jean Starobinski, Starò per gli amici di lingua francese: autentico écrivain, critico, saggista ispirato e grande anima, lontana da ogni meschinità; grande professore, adorato dai suoi studenti, e anche, non da ultimo, grande malinconico. Ho tradotto un suo articolo, scritto con cristallina eleganza nei primi anni novanta (Fratello nella malinconia. Il ritratto del dottor Gachet di Van Gogh). Si tratta di un testo abbastanza breve, che ruota attorno a un duplice rispecchiamento: parla di un Van Gogh che si identifica con il suo “medico malinconico”, il dottor Gachet, oggetto del ritratto, ma parla anche, implicitamente, della mélancolie dello stesso Starò, che si rispecchia e si identifica nella malinconia, nell’angoscia e nell’ansietà del pittore.

Primo rispecchiamento: “Ho trovato nel dottor Gachet proprio un amico e quasi un nuovo fratello, tanto ci rassomigliamo fisicamente, e anche moralmente”. Così Van Gogh, in una lettera. Il commento di Starò riprende questo motivo: “Egli conobbe dei momenti di stanchezza e di delusione. Nel momento in cui Van Gogh fece la sua conoscenza, Gachet era vedovo da qualche anno. Questo lutto l’aveva provato. Van Gogh credette di scoprire in lui un profondo scoraggiamento, e ciò fu per il pittore un motivo di identificazone”. Egli “vedeva in Gachet” – nel suo “volto irrigidito dal dispiacere”, “coronato da un’abbondante chioma rossa” – “il suo proprio doppio”.

Secondo rispecchiamento: soffermandosi sulla coppia Van Gogh–Gachet, sembra quasi che l’autore dia voce al proprio demone malinconico. Su se stesso, in realtà, Starò è parco o reticente. Scrive mantenendosi sempre a una moderata distanza dai temi e dai personaggi della sua indagine. Ma la distanza non è mai priva di un certo pathos, che rappresenta anche la misura del suo coinvolgimento. Il pathos della malinconia è spesso presente in Starò, anche se in forme delicate o indirette: consegnato il più delle volte al contenuto lirismo e all’elegante musicalità della scrittura. È un pathos che coinvolge e non invade: che può coinvolgere il lettore mettendo in scena, magari in maniera tenue o vagamente allusiva, anche il coinvolgimento di chi scrive.
In chiusura, Starò porta efficacemente a conclusione, nella forma dell’interrogativo retorico, i temi del suo articolo: “in un linguaggio rinnovato con sovrana violenza, un artista esplora in anticipo un grande tema della coscienza occidentale: il tormento dell’esistenza individuale, nella solitudine e nell’angoscia del ritiro delle forze vitali. Questo medico in preda all’ansietà è il testimone dell’ansietà del pittore: quale via d’uscita, se colui da cui si aspetta un aiuto ha lui stesso bisogno di aiuto”?

Vi è infine un terzo livello di rispecchiamento, esterno al testo: più propriamente, un gioco polifonico di rispecchiamenti, presente in alcuni interventi dedicati all’articolo di Starò, comparsi sia in altri blog sia nello spazio del mio blog appositamente destinato ai commenti. In questi interventi emergono con chiarezza significativi livelli di coinvolgimento e sottili giochi di autoidentificazione.
“La desolazione del mondo che si riflette nella desolazione di un volto, ecco il punto di identificazione tra Van Gogh e il dottor Gachet”. Così scrive Alfredo Riponi nel suo blog, chiosando Fratello nella malinconia, in un breve intervento, illuminato da un corto circuito tra Van Gogh, Gachet e Antonin Artaud. Alfredo, mente letteraria e filosofica, completa il suo pensiero restituendo la parola a Starobinski attraverso la citazione di un passaggio particolarmente significativo dell’articolo: “Il punto di convergenza di queste diverse identificazioni, nel registro del verbale, è la parola desolato, nel significato forte di ferito”.
Anche la poetessa e blogger Rita Florit, in armonia con Alfredo, rilancia la connessione tra Van Gogh e Antonin Artaud, autore di un libro radicale e sconvolgente (Van Gogh, le suicidé de la société), pubblicato a Parigi nel 1947, un anno prima della morte. Nello spazio dedicato ai commenti, Rita infatti mi scrive: questo testo “mi ha fatto tornare il desiderio di rileggere il Van Gogh di Artaud, e mi ha riportato atmosfere della passata estate, a Saint-Rémy”.
Di solito Rita si muove all’unisono con Alfredo. Ma qui la sua rapida ed essenziale annotazione, giocata sul dettaglio autobiografico, è marcatamente personale. È distante dallo stile “alto” e concettuale di Alfredo, che ha corredato il suo intenso scritto – ricco, per altro, di un genuino lirismo – con dieci note redatte impeccabilmente, attenendosi alle regole più tradizionali dell’Accademia.
Muovendosi allo stesso livello di Alfredo, Bostonian scrive un breve commento di taglio concettuale. In questo rapido intervento, privo di intonazioni impositive, egli propone un’inedita e originale connessione tra il testo di Starobinski, L’indifferente di Proust e il quadro omonimo di Watteau, mantenendo aperta e problematica la sua sollecitazione critica…
Il commento di Proteus2000, più vicino a quello di Rita, si sviluppa sul versante di una compiaciuta autoironia e di un consapevole gioco di rispecchiamenti, comunicando al lettore una forte vibrazione emotiva. “Molto interessante. Sono una cosa malinconica: finalmente ne ho la conferma. La testa reclinata… Praticamente è il mio ritratto”.