Parola di Jung

Carl Gustav Jung, BBC Face to Face

Carl Gustav Jung – Face to Face

(trascrizione dell’intervista rilasciata a John Freeman per la rubrica della BBC “Face to Face”, Svizzera, 1959)

Ricorda in quale occasione lei ha preso coscienza per la prima volta della sua individualità?
“Sì, avevo undici anni. Improvvisamente, mentre andavo a scuola, emersi da una specie di nebbia. Fu proprio come se prima camminassi nella nebbia e adesso fossi emerso e potessi dire: ‘Io sono’. ‘Io sono ciò che sono’. E pensai: ‘Ma prima che cosa ero?’ E allora capii che ero sempre stato in una nebbia, incapace di differenziare me stesso dagli oggetti. Ero un oggetto tra tanti altri oggetti”.

Questo avvenne in coincidenza con un particolare episodio della sua vita o è stata una normale funzione dell’adolescenza?
“Mah, difficile dirlo. Per quello che ricordo, non era successo niente, prima, che spiegasse quell’improvvisa presa di coscienza”.

La rivelazione di sé coincise con la scoperta della fallibilità dei suoi genitori?
“Sì, si potrebbe dire così”.
(Jung apparteneva alla Chiesa Svizzera Riformata)

Lei credeva in Dio?
“Sì”.

E adesso, crede in Dio?
“Adesso? Difficile rispondere. Adesso so. Non ho bisogno di credere. So”.

Ha incontrato difficoltà nel fare tirocinio e nel passare gli esami?
“In particolare avevo difficoltà con certi insegnanti che non credevano fossi in grado di scrivere un saggio. Ricordo un insegnante che aveva l’abitudine di discutere i nostri elaborati cominciando dal migliore. Ebbene, una volta li passò in rassegna tutti quanti, e il mio non arrivava. Io ero preoccupatissimo ma pensai: ‘Insomma non è possibile che il mio compito sia così brutto’. Poi alla fine il professore disse: ‘C’è ancora un compito, quello di Jung. Sarebbe di gran lunga il migliore se non fosse che l’ha copiato. L’ha copiato da qualche parte… l’ha rubato. Lei è un ladro, Jung! E se solo sapessi da dove l’ha preso, la farei espellere immediatamente!’ Io non ci vidi più e dissi che quello era l’unico compito sul quale mi fossi veramente applicato perché mi interessava l’argomento, a differenza degli altri, che erano così poco interessanti. Ma lui disse: ‘Lei è un bugiardo, e se potremo provare che l’ha copiato, la sbatteremo fuori dalla scuola’. Per me fu una cosa molto grave, perché, che altro mi restava? Come odiai quel tizio, è l’unica persona che avrei potuto uccidere, capisce, se l’avessi incontrato in qualche vicolo buio! Gliel’avrei fatto vedere io, di che cosa ero capace”.

Aveva spesso pensieri di violenza contro le persone, da giovane?
“No, non proprio. Solo quando mi arrabbiavo davvero. E allora, be’, gliele suonavo.”

E si arrabbiava spesso?
“No, non tanto spesso, ma quando succedeva, facevo sul serio”.

Era grande e forte, immagino.
“Sì, ero piuttosto forte, e poi, sa, ero cresciuto in campagna con figli di contadini, era un tipo di vita rude. So che sarei stato capace di violenza. Ne avevo un po’ paura e cercavo di evitare le situazioni critiche perché non mi fidavo di me stesso. Una volta fui aggredito da sei o sette compagni; non ci vidi più. Ne afferrai uno e, facendolo ruotare intorno per le gambe, ne buttai a terra quattro; allora ne ebbero abbastanza”.

E dopo, ci furono conseguenze?
“Oh, altro che! Da quel momento, dietro ogni rissa si sospettava ci fosse la mia mano. Non era vero, ma avevano paura e non fui più aggredito”.

Cosa le fece decidere di specializzarsi in psichiatria?
“Questo è abbastanza interessante. Avevo quasi terminato gli studi e non sapevo ancora bene che cosa volevo fare, quando mi si presentò la grande occasione di seguire un mio professore, che aveva ricevuto un nuovo incarico a Monaco e mi voleva come assistente. Ma ecco che, mentre preparavo l’ultimo esame, mi capitò in mano un libro di psichiatria: fino a quel momento non avevo mai dato molta importanza alla psichiatria perché il nostro professore non ne era particolarmente interessato; dunque incominciai a leggere l’introduzione di quel libro; vi si dicevano certe cose sulla psicosi come disadattamento della personalità. Questo fece centro. In quell’istante capii che dovevo fare lo psichiatra. Mi batteva forte il cuore, e quando dissi al mio professore che non sarei andato con lui ma che avrei studiato psichiatria, lui non riusciva a capirlo. E nemmeno i miei compagni, perché all’epoca la psichiatria era considerata zero, zero assoluto. Ma io ci avevo visto la grande possibilità di conciliare certe contraddizioni che erano in me, e cioè il fatto che oltre alla medicina, oltre alle scienze naturali, io avevo sempre studiato la storia della filosofia e discipline del genere. Era come se tutto a un tratto due correnti si congiungessero”.

Dopo quanto tempo, da quando ebbe preso quella decisione, venne in contatto con Freud?
“Oh, fu alla fine della specializzazione, e poi passò ancora parecchio tempo prima che lo conoscessi personalmente. Vede, terminai gli studi nel 1900 e Freud lo incontrai molto dopo. Nel 1900 avevo già letto la sua Interpretazione dei Sogni e gli studi sull’isteria di Breuer e Freud, ma quello fu un incontro, diciamo, letterario; poi nel 1907, lo conobbi personalmente”.

Vuole raccontarmi come avvenne? Era andato a Vienna a trovarlo?
“Dunque, avevo scritto un libro sulla psicologia della demenza precoce, come si chiamava allora la schizofrenia, e glielo avevo mandato, e fu così che facemmo conoscenza. Andai a Vienna per quindici giorni, ci mettemmo a parlare, una conversazione molto lunga e penetrante, e la cosa era fatta”.

E a quella conversazione lunga e penetrante seguì un’amicizia personale?
“Oh sì, divenne presto un’amicizia personale”.

Che tipo di persona era Freud?
“Ecco, aveva una natura complessa, vede. A me piaceva molto, ma scopersi ben presto che quando pensava una cosa, per lui era conclusiva, mentre io ero pieno di dubbi su tutto, e così era impossibile discutere le cose veramente à fond. Capisce, lui non aveva alcuna preparazione filosofica, in particolare, mentre io studiavo Kant, ci ero immerso, e quella era una cosa troppo lontana da Freud. Sicché fin dall’inizio c’era una discrepanza”.

La vostra successiva separazione fu in parte dovuta a una differenza di temperamento nel modo di intendere la sperimentazione, la verifica e via dicendo?
“Be’, esiste sempre una differenza di temperamento ed è logico che il suo approccio fosse diverso dal mio perché la sua personalità era diversa dalla mia. Anzi, fu questo che in seguito mi indusse a indagare sui tipi psicologici. Esistono atteggiamenti ben precisi: certe persone fanno le cose in un modo, altre in un altro, e sono modi tipici, e queste differenze esistevano anche tra Freud e me”.

Ritiene che gli standard scientifici di Freud fossero meno rigorosi dei suoi?
“Ecco, vede, questa è una valutazione che non compete a me dare. Io non sono la mia storiografia, né il mio storiografo. Per quel che riguarda certi risultati, penso che il mio metodo abbia i suoi meriti”.

Mi dica, Freud l’ha mai analizzata personalmente?
“Oh sì. Gli sottoponevo un gran numero dei miei sogni, e lui faceva lo stesso”.

Cioè sottoponeva i suoi sogni a lei?
“Sì, oh sì”.

Ricorda ora, dopo tutto questo tempo, quali aspetti significativi aveva notato allora nei sogni di Freud?
“Be’, questa è una domanda un po’ indiscreta. Vede… esiste il segreto professionale”.

Ma Freud è morto da tanti anni.
“Sì, ma queste forme di rispetto durano più della vita. Preferisco non parlarne”.

Va bene; posso farle un’altra domanda, forse altrettanto indiscreta? È vero che lei ha molte lettere scambiate con Freud ancora non pubblicate?
“Sì”.

Quando saranno pubblicate?
“Mah, non finché sono in vita”.

Non avrebbe obiezioni alla loro pubblicazione dopo la sua morte?
“Oh no. Nessuna”.

Probabilmente rivestono grande importanza storica.
“Non credo”.

Allora perché non le ha rese pubbliche, finora?
“Appunto perché non le trovo particolarmente importanti; non ci vedo nessuna utilità”.

Riguardano questioni personali?
“Be’, in parte. Ma non mi sembra che valga la pena pubblicarle”.

Va bene: possiamo passare al momento della rottura con Freud? Mi pare che in parte coincise con la pubblicazione del suo libro Trasformazioni e simboli della libido. È esatto?
“Quella fu la causa reale. No, voglio dire la causa finale, perché ci fu una lunga preparazione… Vede, fin dal principio io avevo una riservatio mentalis. Non condividevo parecchie delle sue idee”.

Quali in particolare?
“Ecco, principalmente, il suo approccio esclusivamente personale, e la sua noncuranza per le condizioni storiche dell’uomo. Vede, noi dipendiamo largamente dalla storia. A formarci è l’educazione, l’influenza dei genitori, il che non è affatto sempre e soltanto personale. I genitori stessi hanno pregiudizi, o sono influenzati da idee di origine storica o da quelle che si chiamano le dominanti, e questo è un fattore decisivo in psicologia. Noi non siamo né dell’oggi né di ieri; siamo di un’era immensa”.

Non è stata anche la sua osservazione, la sua osservazione clinica, dei pazienti psicotici a determinare la divergenza con Freud?
“È stata in parte la mia esperienza con pazienti schizofrenici a farmi arrivare all’idea di certe condizioni storiche generali”.

C’è qualche caso particolare che, ripensandoci oggi, potrebbe considerare un punto di svolta per il suo pensiero?
“Oh sì, ho fatto numerose esperienze del genere, sono perfino andato a Washington a studiare i pazienti di colore dell’ospedale psichiatrico per scoprire se fanno lo stesso tipo di sogni che facciamo noi, e queste esperienze, insieme ad altre, mi hanno condotto a ipotizzare l’esistenza di uno strato impersonale della nostra psiche. Posso fargliene un esempio. Nel reparto avevamo un paziente, tranquillo, ma completamente dissociato, uno schizofrenico, ricoverato nel reparto da vent’anni. Ci era arrivato che era ancora giovane, un impiegatino senza molta istruzione, e una volta che passavo per il reparto mi chiamò, in preda a palese eccitazione, mi tirò per il bavero, mi portò alla finestra e disse: ‘Dottore! Ecco! Adesso capirà. Guardi, guardi il sole lassù, come si muove. Ecco, provi a muovere la testa, così, e vedrà il fallo del sole, che è l’origine del vento. Guardi come si sposta il sole, secondo come muove la testa da una parte all’altra’. Naturalmente non ci capii niente. Pensai: è proprio pazzo. Ma il caso mi rimase impresso e quattro anni dopo mi capitò sott’occhio il lavoro di uno storico tedesco, Dieterich, che si era occupato della liturgia detta di Mitra, contenuta nel Grande Papiro Magico di Parigi. Nel testo della liturgia detta di Mitra, che Dieterich aveva pubblicato, si diceva: ‘Dopo la seconda preghiera vedrai come il disco del sole si dispiega e vedrai pendere da esso il tubo, origine del vento, e quando volgerai la faccia verso le regioni d’Oriente, il sole si sposterà da quella parte, e se volgerai la faccia verso le regioni dell’Occidente, ti seguirà’. Allora capii: eccola, ecco la visione del mio paziente!”

Ma come faceva a essere sicuro che il suo paziente non stesse inconsciamente ripetendo qualcosa che aveva sentito dire?
“Oh no. È fuori questione, perché quella cosa non era nota. Era scritta nel Papiro Magico di Parigi, ma non era stata pubblicata. Lo fu soltanto quattro anni più tardi, dopo che l’avevo osservata nel mio paziente”.

E questo secondo lei era una prova dell’esistenza di un inconscio che è più che personale?
“Non era una prova, ma semmai un suggerimento, e io seguii quel suggerimento”.

E ora mi dica, che cosa la indusse a iniziare lo studio sui tipi psicologici? È stato anche questo in seguito a qualche particolare esperienza clinica?
“Di meno. Avevo una ragione molto personale, e cioè rendere giustizia alla psicologia di Freud e anche a quella di Adler e inoltre trovare le mie coordinate. Mi ha aiutato a capire perché Freud elaborò proprio quella teoria, e Adler la sua, con il principio di potenza”.

Ha deciso a quale tipo psicologico appartiene lei?
“Naturalmente ho dedicato molta attenzione a questa spinosa questione!”.

E ha raggiunto una conclusione?
“Vede, il tipo non è una cosa statica. Si modifica nel corso della vita, ma io indubbiamente ero caratterizzato dal pensiero. Ho sempre pensato, fin da piccolissimo, e avevo anche molta intuizione. E una certa difficoltà con il sentimento, e il rapporto con la realtà non era dei più brillanti. Mi trovavo spesso sfasato rispetto alla realtà delle cose. Ecco, adesso ha in mano tutti i dati necessari per la diagnosi!”

Negli anni Trenta, quando aveva molti pazienti tedeschi, lei fece la previsione, mi pare, che una Seconda guerra mondiale era molto probabile. Adesso, guardando al mondo di oggi, ha l’impressione che sia probabile una Terza guerra mondiale?
“Non ho indicazioni precise al riguardo, ma i segni sono così tanti e vari che non si capisce più che cosa ci sta davanti. Sono alberi o è la foresta? È difficile dirlo, perché nei sogni della gente si nota, sì, un’inquietudine, capisce, ma è molto difficile decidere se davvero alludano a una guerra, perché l’idea della guerra è in cima ai pensieri di tutti. L’altra volta è stato molto più semplice. Allora la gente non pensava alla guerra, e quindi era piuttosto chiaro il senso dei sogni. Oggigiorno non più. Siamo così pieni di apprensioni, di paure, che non si sa esattamente a che cosa si riferiscano i sogni. Una cosa però è sicura: è imminente un grande cambiamento del nostro atteggiamento psicologico. Questo è certo”.

E come mai?
“Perché ci serve di più… abbiamo bisogno di più psicologia. Abbiamo bisogno di capire meglio la natura umana, perché l’unico vero pericolo esistente è l’uomo stesso. È lui il grande pericolo, e purtroppo non ce ne rendiamo conto. Non sappiamo niente dell’uomo, o troppo poco: dovremmo studiare la psiche umana, perché siamo noi l’origine di tutto il male a venire”.

Secondo lei è necessario che l’uomo viva con l’idea di peccato e di male? Fa parte della natura umana?
“Mi sembra ovvio”.

E di un redentore?
“Quella è una conseguenza inevitabile”.

Dunque non è un concetto che sparirà via via che diventiamo più razionali; è qualcosa che…
“Senta, non credo che l’uomo si allontanerà mai dallo stampo originario del suo essere. Idee del genere ci saranno sempre. Per esempio, se uno non crede direttamente in un redentore personificato, come è stato il caso di Hitler o del culto della personalità in Russia, allora si tratterà di un’idea, di un’idea simbolica”.

Lei ha scritto, in varie occasioni, alcune frasi sulla morte, che mi hanno lasciato un po’ sorpreso. Ricordo per esempio che lei ha detto che la morte psicologicamente è altrettanto importante della nascita e, come la nascita, fa parte integrante della vita. Ma come fa a essere come la nascita, se è una fine?
“Sì, se è una fine, ma su questo non siamo del tutto sicuri, perché, vede, la psiche possiede facoltà particolari, per cui non è del tutto confinata entro lo spazio e il tempo. Si possono fare sogni o avere visioni del futuro, si può vedere attraverso i muri e via dicendo. Solo gli ignoranti negano questi dati di fatto, è assolutamente evidente che questi fatti esistono e sono sempre esistiti. Ebbene, essi mostrano che la psiche, almeno in parte, non è soggetta a queste categorie. E allora? Se la psiche non soggiace all’obbligo di vivere esclusivamente nello spazio e nel tempo, e questo è pacifico, allora in certa misura la psiche non è soggetta a quelle leggi, il che significa in pratica una continuazione della vita, di una qualche forma di esistenza al di là del tempo e dello spazio”.

Lei, personalmente, crede che la morte sia la fine di tutto o crede che…
“Ecco, non saprei. Vede, la parola ‘credere’ mi crea sempre difficoltà. Io non ‘credo’; devo trovare una ragione a sostegno di una certa ipotesi. Oppure so una cosa, e allora la so, e non ho bisogno di crederci. Io non mi permetto, per esempio, di credere in una cosa per il gusto di crederci. Non ci riesco. Ma quando esistono sufficienti ragioni a favore di una certa ipotesi, allora la accetto… naturalmente. È come se dicessi: ‘Dobbiamo tener conto della possibilità della tal cosa’… capisce?”

In pratica, lei ci ha detto che dovremmo considerare la morte come una meta…
“Sì”.

E che ritirarci davanti a questo fatto è eludere la vita e privarla di scopo.
“Sì”.

Che consiglio darebbe alle persone negli ultimi anni della loro vita per aiutarle in questo atteggiamento, quando, per la maggior parte, probabilmente credono che la morte sia la fine di tutto?
“Ho avuto in trattamento molte persone anziane ed è molto interessante osservare come reagisce l’inconscio di fronte all’apparente minaccia di una fine totale. Ebbene, non la considera. La vita si comporta come se dovesse continuare: perciò io penso che sia meglio per una persona anziana continuare a vivere, guardare con attesa al giorno dopo, come se avesse secoli davanti a sé; allora quella persona vivrà nel modo giusto. Ma quando ha paura, quando non guarda avanti, ma all’indietro, si pietrifica, diventa rigida e muore prima del tempo. Mentre, se vive guardando piena di aspettativa alla grande avventura che la attende, allora vive, e questo è appunto ciò che l’inconscio vuol fare. Beninteso, è chiaro che tutti moriremo un giorno e che questo è il triste finale di tutto; ma ciò nonostante c’è qualcosa in noi che a quanto pare non ci crede. Ma questo è solo un dato, un dato psicologico, non dimostra niente. È così, e basta. Per esempio, anche se non sappiamo perché il sale è necessario, in genere preferiamo mangiare salato, perché ci fa stare meglio. Allo stesso modo, quando si pensa in un certo modo, si sta molto meglio, e secondo me se si pensa come ci porta a fare la natura, il nostro modo di pensare è giusto”.

E questo mi conduce all’ultima domanda che volevo rivolgerle. Nella misura in cui il mondo diventa sempre più efficiente tecnicamente, si direbbe che la gente abbia sempre più bisogno di adottare comportamenti comuni e collettivi. Ebbene, secondo lei, è possibile che il culmine dell’evoluzione umana sia di affondare la propria individualità in una sorta di coscienza collettiva?
“Non mi sembra possibile. Credo che ci sarà una reazione. Si instaurerà una reazione contro questa dissociazione collettiva. Vede, l’uomo non sopporta all’infinito il proprio annullamento. Prima o poi ci sarà una reazione e già la vedo iniziare. Se penso ai miei pazienti, loro vogliono tutti trovare la propria esistenza e garantirla contro questa totale atomizzazione verso il nulla o verso l’assenza di senso. L’uomo non può sopportare una vita priva di senso”.