Mario Galzigna, Stratificazioni identitarie. Una storia clinica

TESTO DELLA RELAZIONE DI MARIO GALZIGNA AL CONVEGNO “STORIE ITALIANE DI PSICHIATRIA”, Volterra, 28 settembre 2019

A partire dal 2011, ho incontrato regolarmente, nel mio studio, con frequenza settimanale, un paziente, a ridosso della morte dei suoi genitori. Lo chiamerò, con un nome di fantasia, Francesco: un uomo di mezza età, ben inserito nel mondo del lavoro e molto propenso, vista la sua formazione, all’uso di un lessico colto, che in questa mia esposizione riporto fedelmente. È figlio di un artigiano e di una casalinga. Ha 2 fratelli e due sorelle.

L’incipit dei nostri colloqui è crudo, spietato, assolutamente privo di sfumature e di mediazioni. “Sono figlio – dice Francesco – di due criminali, di due potenziali assassini: la loro brutalità è tuttora continua fonte di disagio. Turba i miei pensieri diurni e popola, con la forza di un incubo, i miei sogni”.

“Mi assale spesso – continua – un sentimento di vergogna: un sentimento che risale alla mia adolescenza: un’onta che mi esclude dal circuito sociale. Sento addosso a me un blasone: il blasone della vergogna. Da bambino mi azzuffavo con gli altri bambini. Alle elementari ero un somaro. In prima elementare mi hanno bocciato. Faticavo a leggere e a far di conto. Ai maestri mio padre diceva: picchiatelo, punitelo. Per me era una vergogna essere considerato come lo scemo del villaggio o come l’idiota della famiglia. Alle medie ho modificato il mio rapporto con la scuola e ho scoperto la conoscenza come strumento di riscatto, personale e sociale. Il mio sentimento di vergogna risale all’adolescenza: non volevo, allora, essere chiamato con il mio cognome; per me era un’onta: un’onta che mi faceva sentire escluso dal circuito sociale. A 18 anni scappo da casa, arrivando fino in Francia. La mia sorella più grande media con la famiglia e rende possibile il mio ritorno a casa. È l’epoca del mio primo grande amore per una stupenda ragazza – la chiamerò Laura – che aveva un anno più di me e che ho frequentato per un anno. Facevamo petting sotto i ponti. Ricordo di aver raggiunto, in questo modo, l’orgasmo. Comunque, il nostro consumo sessuale lo trovavo inadeguato se rapportato all’intensità dei nostri sentimenti. Ero molto geloso, credo con dei buoni motivi: Laura se la intendeva con un compagno di classe che era anche mio amico, ma non ho mai capìto cosa ci sia stato tra i due. La fine del nostro amore è collegata in ogni caso a questa relazione. Vissi la fine del nostro amore come un vero e proprio lutto, che durò per 4 o 5 anni. Una rottura drammatica, una spaccatura… Una pietra tombale cadde su di me. La mia gelosia per Laura, che fu sempre molto accentuata, aveva tratti ossessivi: un’angoscia di perdita la alimentava.

Laura aveva un aspetto lunare. Irradiava magnetismo, come le donne dell’amor cortese. Io la idealizzavo: ci fu, tra di noi, un intenso scambio di lettere d’amore”…

La testimonianza del paziente si intreccia, sùbito, con il racconto di una relazione amorosa tra lo stesso Francesco e una donna che chiamerò Francesca. Francesca ha una figlia adolescente: una tredicenne vivace, suscettibile, un po’ ribelle, che non riuscirà mai ad accettare la presenza di Francesco nella vita della madre. Un secondo figlio – all’epoca 15enne – era ridotto in carrozzella e veniva trattato con il metodo della cosiddetta Comunicazione Facilitata, che rendeva possibile, entro certi limiti e con l’aiuto del PC, uno scambio dialogico con lui. Questo figlio disabile tende alla suzione del pollice: per contenerla, gli erano stati imposti dei guanti anti-suzione, che Francesco, parlandone con Francesca, disapprovava.

[Francesco approfitta della cosa e parla con me – lo aveva già fatto in precedenza – dell’oralità, della sua oralità, che in qualche modo si rapporta all’oralità e alla voracità compulsiva del padre: un’oralità irrisolta, una pulsione predatoria che si accompagna alla paura inconscia di essere divorati. “Quando si è vittime di questa pulsione – dice testualmente Francesco riferendosi anche a Winnicot – ci si sente immobili, congelati, immobilizzati: in preda a movimenti ripetuti e stereotipati (ad es. dondolii) che riducono l’area della stimolazione, che spogliano gli stimoli, che li scarnificano, producendo l’effetto di una brusca riduzione del campo percettivo”.

Così prosegue Francesco, che cerca sempre di interpretare ciò che sente, ciò che vive, ciò che immagina: “una parte di me allucina ad esempio un seno: ciò accade quando il confine tra me e non-me non è chiaro, non è definito. L’allucinazione cessa – e mi porta a disallucinare – non appena questo confine appare chiaro e definito”. Durante la fase allucinatoria, dice Francesco, sempre sulla scia di Winnicot) “guardo me come se il me fosse un oggetto esterno a me; tutto, di me, mi pare strano ed estraneo, persino la mia voce, che vivo come voce impersonale, castrata, come voce bianca. Proietto il me fuori di me per non espormi: per mascherarmi, per nascondermi. Questa operazione di occultamento assume una modalità difensiva. Di qui un mio stato di intorpidimento, di stordimento e di torpore che mi fa entrare in una dimensione soporifera”.

Un torpore che mi contagia, dico a Francesco; mi contagia questa dimensione soporifera che ritroviamo, come mi fa notare Francesco, nei bambini autistici. In una qualche misura, Francesco si identifica con il figlio disabile di Francesca e con i suoi deficit.

Francesco teme il padre. Teme la sua violenza, la sua aggressività, il suo furore aggressivo. La madre – sorta di longa manus della violenza paterna – viene percepita come ammortizzatore di questa violenza, come cuscinetto ammortizzatore. Francesco ricorda distintamente scene paurose, che hanno messo in evidenza una sorta di pulsione assassina presente nel padre.

“Scappo da lui. Fuggo e mi chiudo a chiave nella mia stanza. Lui bussa minaccioso per entrare. Fuggo anche dalla stanza correndo attorno al Capannone. Mi corre dietro. Mi insegue urlando insulti, rivolti a me e, più in generale, anche ai miei fratelli; ci lancia dietro oggetti accusandoci con violenza: assassini, figure porche, siete la rovina della mia vita”.

Un mio compagno di giochi, è stato testimone di queste scene di terrore. Tre erano i luoghi di questo dramma familiare: il Capannone, teatro della pulsione omicida paterna (luogo del Padre); l’appartamento, al piano superiore, che per Francesco rappresentava una sorta di rifugio (luogo della Madre); il Campo dietro il Capannone – il luogo degli amici – dove, come osserva Francesco, era possibile “trasgredire i codici familiari” utilizzando la presenza di altri bambini, tra i quali vi era anche il mio amico del cuore.

Racconta Francesco: “La domenica pomeriggio – questo accadde tra i miei sei e i miei dieci anni – dovevo dormire con loro, nel loro lettone. Io, in mezzo a loro due. In un lettone-tomba. Un vero rituale, eseguito con puntualità rassicurante, che prevedeva anche il fatto che io e mio padre dovevamo pisciare assieme”…

Francesco si sente vittima di un codice patriarcale (CP), dispotico, autoritario, veicolato dalla figura paterna. L’aggressività – in Francesco poco visibile, poco appariscente – e il “risentimento verso la vita” sono componenti essenziali di questo CP. La svalutazione di certi tratti caratteriali di Francesca (allegria, leggerezza) viene consapevolmente ricondotta da Francesco al CP e alla sua nefasta influenza. La pulsione assassina del padre attrae, influenza il figlio, che teme il padre: che si sente suo rivale ma che nel contempo, in una qualche maniera, desidera somigliargli, desidera essere come lui. Da bambino, ricorda il mio paziente, non ha riscontrato, in altri padri, validi modelli alternativi. Tant’è che la figura paterna, per lui, ha rappresentato “quasi un assoluto”. La madre, da parte sua, pur svolgendo un ruolo di ammortizzatore, di cuscinetto, tentava in ogni modo di assorbire il ruolo del padre. Così facendo, essa inibiva il mio amore per lei, impedendo, conseguentemente, l’insorgere di qualsiasi possibile vissuto incestuoso. C’è sempre stata, sostiene Francesco, una complicità padre-madre, dentro un’atmosfera mortifera che ha alterato e distorto il paesaggio affettivo della famiglia.

I sogni di Francesco mostrano con grande evidenza la sua appartenenza a un contesto “macchinico” (uso deliberatamente l’aggettivazione di stampo deleuziano del mio paziente): un contesto macchinico che impone le sue leggi, le sue regole di funzionamento (diremo, ancor meglio, le regole del suo disfunzionamento). Queste le figure che ripetono incessantemente, dentro i sogni, la loro apparizione: macchine che s’inceppano, macchine che non funzionano, macchine (sono spesso delle automobili) ingovernabili, il cui incepparsi rinvia inesorabilmente a una costitutiva e immedicabile vulnerabilità personale.

La vulnerabilità corporea si afferma anche attraverso l’incombere – entro lo scenario onirico – di creature moleste e dannose: insetti velenosi, ragni, scarafaggi e tutto un brulichìo di presenze minuscole, indefinibili e pericolose…

Francesco sottolinea convintamente la presenza assolutamente centrale, nei suoi sogni, della figura materna. “Il volto devastato, mutilato e distrutto di mia madre – egli afferma – è entrato prepotentemente nei miei sogni”.

La devastazione interiore riguardante la madre affonda le sue radici nel rancore per i figli. Un rancore poco visibile, dall’esterno. Un rancore poco visibile proprio perché, in presenza di terzi, viene volentieri mediato e diluito. Rancore, astiosità e vendicatività, pur caratterizzando la sua relazione con i cinque figli, non appaiono, non sono facilmente visibili: non appaiono scopertamente il suo narcisismo infantile, le sue angosce, i suoi discorsi deliranti. La madre non accetta inviti a feste, a ricorrenze. Non accetta nemmeno le vacanze proposte dal marito. Per dirla con le parole di Francesco: “si nega al mondo per non essere scoperta” (cioè per evitare che vengano scoperte le sue posizioni deliranti). La posizioni deliranti di mia madre e le violenze paterne dovevano essere nascoste, soprattutto ad amici e parenti, con i quali mio padre – dice Francesco – “menava vanto di sé e del suo lavoro”.

La violenza del padre non veniva mai apertamente contestata dalla madre, la quale tendeva ad “essere confusa e confusiva”. Questa sua “modalità polverizzante e confusiva” – uso le espressioni di Francesco – la portava, per ogni problema emergente, a “sollevare cortine fumogene”: il che provocava in Francesco smarrimento e “stordimento”.

Non c’era, per Francesco, nessuno spazio favorevole alla manifestazione di emozioni, di stati d’animo. L’affiorare di emozioni avrebbe violato il clima pesante – autoritario e patriarcale – costruito sulla logica del divieto: un clima provocato, congiuntamente, sia dalla madre che dal padre. Era questo, a ben guardare, il segreto di Francesco. Il fardello che lo schiacciava, la croce da lui sempre mascherata, dopo l’adolescenza, dietro la cortina, spessa e impenetrabile, di un intellettualismo che nascondeva le sue angosce e le sue paure. “Derivano da qui – dice Francesco – i miei stati di terrore: derivano da un lutto senza nome, da un lutto senza oggetto”. Di qui, egli continua, “il mio impaludamento, la mia opacità, il mio annaspare, il mio arrancare, il mio sforzo per essere strappato dalle sabbie mobili che mi inghiottono, dal mio dire che si avvita su se stesso: dal mio stesso sguardo, che introduce sempre una distanza tra me e le cose. Credo che sia necessario elaborare questo lutto senza nome”.

SOGNO MACCHINICO (ricorre frequentemente): sono alla guida di un’auto. Perdo il controllo e la mia auto va per conto suo. Mi fermano i vigili: sono senza targa. Devo fabbricarne una con il PC. Non governabilità della macchina: parente stretta della non governabilità delle mie emozioni (e quindi della mia vulnerabilità, resa drammaticamente evidente dalla presenza perturbante di insetti, di scarafaggi, di ragni: di tutto un brulichìo di esseri minuti, contagiosi e pericolosi che suscitano in me una paura del contagio).

La narrazione di Francesco prosegue: “pranzo di Natale in villa, dalla sorella maggiore. Porto con me, al pranzo, Francesca”. Nonostante il suo disagio, essa dice che si sente onorata di far parte della famiglia. Si fa ben volere. Suona il piano che c’è nella casa. Uno dei fratelli riempie la scena con i suoi comportamenti teatrali. Esprimo riserve su nostra madre, invano: poiché essa, per mia sorella maggiore e per la sorella più piccola è una sorta di icona, mitizzata, elogiata e perciò intoccabile. Il padre, al contrario, è un bersaglio facile, a causa della violenza dei suoi gesti e delle sue parole.

Nonostante tutto questo, riemerge in Francesco il ricordo perturbante della figura materna: “ero terrorizzato da lei”, egli afferma: si tratta di un “terrore sepolto” ma sempre presente, “nascosto da qualche parte. La reminiscenza del terrore sconvolge le mappe della mia affettività. Lei mimava il ruolo paterno e così facendo ci dava la legge. Invadeva tutti gli spazi domestici. Provava piacere a irrompere improvvisamente nella mia camera: era una strega cattiva, arcigna, vendicativa. Provava piacere a spaventarci. Il volto di lei esprimeva il terrore. Era essa stessa il terrore: una figura stereotipata, assolutamente priva di interiorità”.

Il suo volto assumeva tratti umani, osserva ancòra Francesco, quando usciva dalla sua posizione materna e si incontrava con le sorelle. Ma viveva comunque i figli come oggetti persecutori. Perciò provava il bisogno di ibridare, in se stessa, i due ruoli – quello paterno e quello materno – al fine di esorcizzare la sua ansietà persecutoria, ben presente e attiva in qualche sogno-incubo. Francesco ne ricorda uno in particolare: la madre lo aggredisce con un coltello puntandolo al suo fianco, entro uno scenario di violenza – “violenza da lager”, dice Francesco – dove l’ostilità materna vissuta nel presente rappresenta una sorta di “ritorno del rimosso”.

Francesco parla dunque di un ritorno del rimosso: usa un lessico psicoanalitico, a volte in maniera approssimativa, altre volte in maniera pertinente. Ma tra un rimosso che a volte ritorna – attraverso i sogni e le fantasticherie – e il suo Sé attuale (il suo Sé di soggetto adulto e assestato) Francesco non intravede nessuna continuità. Dice infatti: “sono interrotti i percorsi che potrebbero condurmi dai miei strati profondi al mio sé attuale” facendomi comprendere la genesi lontana dei miei disagi. I materiali emergenti dai sogni si presentano alla coscienza di Francesco come dimensione perturbante. E si tratta di un perturbamento che accompagna inesorabilmente lo svolgimento stesso della narrazione onirica.

IL SOGNO DEI RESTI. “Guido la mia macchina. Arrivato a un crocevia vedo – conseguenza di un incidente – resti di carne umana sparsi sul suolo. Sono i resti di una madre, morta a sèguito di un evento catastrofico – un MATRICIDIO – che io stesso ho contribuito a produrre. Il corpo dei figli viene vissuto dalla madre come una parte di se stessa. Il tentativo dei figli di conquistare spazi di autonomia viene vissuto, sempre dalla madre, come smembramento di un corpo familiare che i resti di carne umana sparsi sul suolo rappresentano pienamente. Alla base di questi scenari terrorizzanti, c’è la presenza di madri con vissuti irrisolti: madri che creano con i figli un’area magica di indifferenziazione, favorevole a rotture, a strappi, a discontinuità. Emerge, nel cuore di questo sogno inquietante, un vissuto di lacerazione e un’angoscia di gelosia nei confronti di Francesca. La narrazione, a questo punto, si sposta: non riguarda più soltanto la mia dimensione onirica, ma anche gli accadimenti relativi alla mia vita ordinaria e il modo in cui tali accadimenti vengono filtrati e lavorati dalla fantasia”. Vediamo.

Lo spazio abitativo diventa, per dirla con le parole di Francesco, “trafficato”. Entra in casa un soggetto maschile. Arriva dal bagno. Si avvicina a Francesca e la bacia sulla bocca. Come mai? chiedo a lei. Lei mi risponde: Non lo so. Ma le mie angosce di gelosia vengono sedate e smentite dal piano della nostra relazione concreta. Si interessa di me. Cerca di consolarmi.

Non sono sorpreso, più di tanto, dai contenuti di questo sogno. Francesca, infatti, ha sempre mostrato uno spirito libertino e ha spesso condiviso, con me, fantasie di promiscuità, soprattutto in occasione dei nostri incontri sessuali. C’è in lei “un sottosuolo trasgressivo e libertino, che mi fa soffrire ma che, al tempo stesso, stimola il mio desiderio”.

Ecco, questa è una caratteristica di Francesco – un aspetto essenziale dei suoi vissuti – che il mio paziente fa emergere (ha sempre fatto emergere) in tutte o quasi tutte le sue storie amorose. Una duplicità irrisolta, che lo ha portato ad amare e al tempo stesso a detestare (e a temere) le componenti libertine delle sue partner (componenti da lui incoraggiate e favorite): una duplicità irrisolta che lo ha portato a fallire ogni tentativo di risolvere questo conflitto insanabile tra Eros e Sentimenti, assegnando un primato solo a uno dei due poli.

Francesco sottolinea il fatto che la sua gelosia delirante è stata rinforzata e incoraggiata dai tratti paranoidei del suo carattere. Questi tratti paranoidei – egli dice – hanno prodotto un vero e proprio impoverimento affettivo. Hanno ridotto la sua vita psichica a una “terra desolata”, a un “terreno brullo, pietrificato, arido”. Hanno prodotto una confisca della sua interiorità. Ho perso, così, ribadisce Francesco, la mia gioia di vivere e la “coloritura affettiva” dei miei vissuti. La mia affettività è stata azzerata e “scheletrita”. “Ho passato la mia infanzia a pulire”, aggiunge sconfortato il mio paziente: a pulire il Capannone, gli utensili, il cortile. La pulizia degli ambienti, faccio osservare, è sempre stata, storicamente, un’istanza di controllo e di disciplinamento: una palestra del disciplinamento, dell’obbedienza e dell’assoggettamento. Francesco osserva come, in tale contesto, gli risulta impossibile rimanere in contatto con le qualità del suo sentire, con le qualità della sua sensorialità (qualità delle quali riesce a riappropriarsi solo nei sogni o negli stati di rêverie). Dice ancòra: “mi sento di vivere come in un limbo infantile, nel quale tutto è sospeso, nel quale nulla accade: nel quale una parte di me (cioè la mia sfera pulsionale) è come paralizzata, congelata, dentro una condizione di stasi perenne. Sono come un polipo, che ritrae i suoi tentacoli quando l’ambiente è ostile. Salta ogni mia connessione con l’ambiente e il Tempo pare fermo, bloccato: un tempo immobile, che non passa, che mi riduce nella condizione di uno spettatore assente”.

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Difficile fornire un resoconto fedele ed esaustivo dei nostri dialoghi, che hanno occupato uno spazio temporale molto esteso: all’incirca otto anni, durante i quali ho potuto seguire con continuità il percorso evolutivo del paziente.

Ho già osservato la permanenza, nel tempo, di alcune configurazioni psichiche e relazionali, soprattutto in merito ai suoi rapporti amorosi. La spinta trasgressiva che spinge il mio paziente a evitare i luoghi comuni, i tòpoi consueti del rapporto di coppia, lo cattura dentro una polarità inconciliabile: la polarità eros-affetti: da un lato la ricerca dell’intimità amorosa, dall’altro lato, in contraddizione con essa, il desiderio di oltrepassare i limiti imposti dalla morale sessuale comune.

TRIOLISMO

Il rapporto triangolare – il triolismo, ben noto agli erotologi (parlo qui del particolare triolismo in cui due soggetti di sesso maschile, senza indulgere a nessun scambio erotico reciproco, fanno sesso, insieme, con la stessa donna) – cattura la mente e la fantasia del paziente, togliendo spazio al fantasma della più tradizionale intimità a due; ma da questa intimità a due, nonostante le sue derive – libertine e promiscue – Francesco continua a sentirsi attratto: un po’ come si può essere attratti da un sogno d’amore, continuamente vagheggiato ma visto sempre come dimensione impossibile e irrealizzabile.

Schvarzenegger

Un ruolo particolare, nel contesto familiare, viene svolto dal fratello maggiore, che Francesco, con me, denomina scherzosamente – vista la sua stazza fisica – Schvarzenegger. Un soprannome che ben si adatta anche alle caratteristiche psicologiche e fisiche del personaggio, che qui chiamerò Arnaldo: aggressivo, violento, profondamente squilibrato, con evidenti tratti deliranti. Inonda familiari e carabinieri con mail piene di risentimento, di insulti e di accuse.

Accusa i fratelli di volersi impadronire dell’eredità paterna: li chiama, con sarcasmo, “la banda Bassotti”. Lo stile delle sue mail è violentemente inquisitoriale. Per me, osserva Francesco, il suo atteggiamento è quello di un dittatore-delirante, che si sente – con una evidente distorsione affabulatoria – il giustiziere della famiglia, il portabandiera del suo onore e del suo prestigio. Uno stile, il suo, che viene ripreso e quasi imitato dalla moglie, che ha querelato i fratelli. Arnaldo ha anche aggredito fisicamente, in piscina, la sorella minore, dalla quale è stato sùbito denunciato. Francesco descrive con accenti ricchi di pathos questo degradato clima familiare: un clima rispetto al quale Francesco stesso si smarca decisamente: un clima appesantito dalle accuse di Arnaldo, che ha fatto causa a tutti i fratelli (accusati, come dicevo, di volersi impadronire dell’eredità familiare).

Gelosie morbose

Il rapporto con Francesca è giunto, oramai, al capolinea. Francesco la sospetta di averlo tradito con un militante di Veneto-Stato, un gruppo indipendentista veneto al quale Francesca si era legata. Questo clima di sospetti è responsabile della rottura tra i due. Lo spazio domestico di Francesca – osservazione più volte ripetuta ed insistita – era “trafficato” e nella donna non emergeva assolutamente – questa l’espressione di lui – un bisogno di intimità, che invece Francesco, da parte sua, rivendicava come un suo bisogno fondamentale.

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La rottura con Francesca fa emergere con grande forza il demone libertino del mio paziente: la sua propensione alla promiscuità e alle esperienze di triolismo, maturate soprattutto in qualche vacanza a Cap d’Antibes, in costa azzurra: vero paradiso dei trasgressori, che riuscivano a realizzare le loro fantasie libertine sia in spiagge particolari sia in sale cinematografiche espressamente riservate a scambisti, a coppie perverse, a singoli in cerca di facili avventure erotiche.

Francesco, sempre alla disperata ricerca di conciliare i suoi due demoni (l’eros e i sentimenti), frequenta da qualche tempo una quarantenne (la chiameremo Giulia). Madre disoccupata di una ragazzina di 8 anni, sposata con un meridionale geloso e possessivo, Giulia – la cui famiglia di origine è slava – si confida con Francesco, con il quale condivide (scenario consueto, lo si è visto) fantasie trasgressive e libertine, ma anche tenerezza e complicità: ma anche problematiche esistenziali connesse al lavoro e ai suoi bisogni di autonomia rispetto al coniuge, con il quale coabita senza più condividere, da qualche tempo, intimità e sessualità.

Francesco intravede in Giulia la possibilità di una partner stabile con la quale poter convivere… Per la prima volta i giochi sembrano aperti. Questa speranza pare quasi, per Francesco, la promessa di una riapertura del proprio tempo vissuto: di una possibile fuoriuscita dalle paludi vischiose della Malinconia, dalle quali è stato sempre, in tutti questi anni, frenato e vincolato.