4. Dioniso e Apollo. La sovversione amorosa
Dioniso, l’indiviso, colui che trabocca, che non osserva il limite, si afferma, in realtà, all’interno di dimensioni molteplici e complementari: il maschio e la femmina, il Sé e l’altro, la vita e la morte.
Apollo, simbolo del sole, dell’ascesa e della sublimazione – nume della forma, della razionalità, del limite e della misura – si afferma, in realtà, nell’atto di illuminare e di nobilitare la vita istintuale e la materia. Non ha più bisogno di respingerle e di negarle: le sottrae alla notte dell’indistinzione e le immerge, con la nettezza dei loro distinti profili, nell’eccesso della sua luce diurna. Nega la loro tenebra. Afferma la loro potenza rischiarata e visibile.
L’opacità anonima dell’indistinto e la luminosità riconoscibile della distinzione trovano nel vincolo d’amore un luogo di compenetrazione, di armonia e di equilibrio. Dioniso e Apollo – Passione e Ragione, dunque – insieme. Interdipendenti. Più forti perché inscindibili.
Bisogna farla finita con la patetica impostura di Pascal (“il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”). Non sappiamo che farcene di una ragione disincarnata, che ignora le logiche del desiderio e i linguaggi della passione. Allo stesso modo, non sappiamo che farcene di una passione cieca, che ci obnubila la mente e ci rende acefali: incapaci di pensare e di conoscere.
L’ebbrezza della pluralità e della sua distribuzione erratica irrora e alimenta l’abbagliante solarità del legame d’amore: la sua reciprocità, la sua cristallina e irrevocabile trasparenza. Aveva proprio ragione William Blake, il visionario: si raggiunge il Palazzo della Saggezza solo attraverso la strada dell’eccesso.
Attraverso il nostro eccedere, Tu, amorosa presenza, diventi tesoro inesauribile, scrigno incantato: contieni te stessa con i tuoi tanti volti; contieni il mondo, visto e sognato, con le sue tante forme; contieni il mio sguardo, con le sue tante direzioni; contieni – infine – ed esaudisci il mio desiderio nomade: il suo instancabile e insopprimibile divenire…
Sei capace di contenimento. Sei in grado di contenere. “Contieni”. Contenere discende dal latino continere, che sta per tenere insieme, congiungere, unire. Ma che sta anche per tener stretto, trattenere, tener fermo, reprimere. Contenimento e contenzione, accoglimento e costrizione: questi i due significati confliggenti del verbo latino, che spiegano l’insidiosa ambiguità dei termini moderni corrispondenti, fornendoci una chiave di comprensione linguistica della temibile e spesso feroce ambivalenza che ci accompagna ovunque. L’esecrabile odio–amore, che arricchisce i dottori dell’anima! Quella stessa ambivalenza che Freud, genialmente ma non senza contraddizioni, sognava, assieme a Ferenczi, di poter superare: “E ora c’è da aspettarsi – scriveva – che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale”: con Thanatos, con la morte, che assedia e contamina ogni nostra esperienza d’amore, ogni nostra energia creativa, ogni nostro progetto di trasformazione. Che soffoca, sospingendola verso le tenebre dell’annientamento, ogni nostra positiva e promettente oscillazione.
Attraverso il nostro oscillare Tu, amorosa presenza, diventi, ancora una volta, tesoro inesauribile e scrigno incantato: custodisci e diffondi la serenità del positivo, mostrando tutta la povertà delle Filosofie ancorate alla fissità monolitica dell’Uno, all’impotenza immobile e tirannica dell’Essere e dei suoi risibili “pastori”. Queste Filosofie sono cancri del pensiero. Tetano della fantasia. Patologie della coscienza. Il “pastore dell’Essere” – così si definiva pomposamente Heidegger – pretende, con risibile arroganza, di pensare l’uomo fuori dalle sue radici corporee e sensoriali. Imprigiona il nostro pensiero nell’ambito angusto e asfittico di categorie autoreferenziali, che spiegano solo se stesse. Che non ci aiutano a vivere, ad amare, a stare nel mondo, a comprenderlo, a trasformarlo.
Miseria della filosofia, mi viene da dire, copiando un celebre titolo di Marx: voce espulsa, negletta, “superata”, come amano dire molti intellettuali asserviti e saccenti. Quegli stessi intellettuali che troppo spesso si comportano, per dirla con Lenin, come lacchè diplomati dell’oscurantismo clericale… Miseria della filosofia – e la parola, qui, passa ancora a Marx – che trasforma “prodotti storici e transitori” (le categorie, per l’appunto, “tanto poco eterne quanto le relazioni che esse esprimono”) in “sostanza astratta”, impedendoci di comprendere le loro radici materiali. La loro “storia profana”.
La serenità del positivo dunque, prodotta e governata dalla potenza celeste dell’Eros. Da qui volevo ripartire, nei panni di Heteronymos, vivendo la rottura come kairòs, come occasione favorevole all’apertura di nuovi spazi creativi e di nuovi investimenti, al fine di sottrarla all’autocompiacimento necrofilo e all’autocommiserazione. Occorre farla uscire dalle paludi vischiose della malinconia, dal pantano immobile di un lutto non elaborato, di un passato avvolgente e onnipresente, di un negativo ipostatizzato e sclerotizzato, alla cui sopravvivenza cooperano, con grande lena e spesso inconsapevolmente, non pochi dottori dell’anima.
Valmont, la creatura anfibia a cavallo tra la rete e il mondo, aveva dunque abbandonato la scena in punta di piedi, senza proclami o clamori. Alcuni amici – a partire da Teodorico, psichiatra intelligente e caustico – non riuscivano a rassegnarsi a questa scomparsa. Non comprendevano, a ben guardare, il senso della rottura e la direzione del cambiamento. Non accettavano la morte di Valmont. Si: perché Valmont rappresentava, in fondo, la loro parte misconosciuta, negletta o nascosta. La loro parte misconosciuta e al tempo stesso necessaria. Era importante che qualcuno la interpretasse e la incarnasse, sorbendosi le loro modalità difensive e i loro mascherati esorcismi: la battuta amichevole, la garbata presa in giro, il vezzeggiamento ironico.
Era importante che Valmont, divenuto l’icona peccaminosa e maledetta di una radicale alterità, rimanesse con loro: lo vedevano come un’icona rigidamente stilizzata e quasi del tutto priva di caratteristiche individuali specifiche. Era comunque importante che Valmont, anche se percepito come personaggio astratto e spersonalizzato, continuasse a interagire con loro, a dialogare con la loro parte rimossa: un modo – ma non si sa se di questo erano consapevoli – per riconoscerla, per darle voce, anche se in maniera indiretta e surrettizia. Questo gioco, in definitiva, era facile. Abbastanza scontato.
Ogni piccolo Apollo ha bisogno di un piccolo Dioniso, generoso e disponibile: un suo contraltare, una sua controfigura. Ha bisogno di farlo parlare e di ascoltarlo: garantendo, tra le due posizioni, una giusta e rassicurante distanza, che faccia meglio risaltare, a fronte dell’eccesso riprovevole e seduttivo di chi parla, la blasonata e riconosciuta trasparenza di chi ascolta. Una trasparenza blasonata e socialmente riconosciuta, anche se afflitta dalla noia e dall’afflizione malinconica.
Ma ogni piccolo Apollo – lo si sa – non tollera di condividere il proprio quotidiano con un piccolo Dioniso amico e dialogante, capace di contaminare la purezza di un’antitesi tra due stili di vita che devono, ad ogni costo, rimanere polari e separati. Non tollera la mescolanza dei due mondi. Ha quindi bisogno di respingere ogni rottura dell’icona libertina che sfoci, più che in una pacificata normalità coniugale, in una scelta d’amore movimentata: arricchita dall’ebbrezza dichiarata, agìta e solare della pluralità.
Dioniso dentro Apollo: questo l’ibrido inaccettabile, o addirittura impensabile, rappresentato da Heteronymos. L’amore, anche quello monogamico, attraversato da un desiderio nomade, in perpetuo movimento: questa la provocazione irricevibile!
Memorabili l’incredulità e lo sgomento di un mio interlocutore – un filosofo anarchico, vecchio compagno di sbronze e di baldorie – di fronte a tre mie affermazioni, apparentemente tortuose e difficili, ma che mi paiono in realtà assolutamente chiare e lineari. Tre mie affermazioni che cercavano di spiegare con semplicità, in riferimento alla problematica amorosa, l’emergere di Heteronymos dalle ceneri di Valmont:
“Alla presunta conquista di tante donne – amate solo eroticamente, conosciute solo superficialmente, estranee ai meccanismi profondi della mia vita affettiva – preferisco l’esperienza di un radicale attraversamento sessuale, affettivo e conoscitivo delle molteplici dimensioni di una stessa donna: una donna che ho scelto e che amo appassionatamente.
Solo all’interno di questa esperienza è possibile realizzare la pienezza della passione amorosa, resa possibile da un erotismo ricco, polimorfo e gratificante: l’erotismo del Corpo, l’erotismo del Cuore, l’erotismo della Conoscenza.
Solo all’interno di questa esperienza la passione del molteplice diventa un ingrediente fondamentale della scelta d’amore”.
Alcuni di coloro che erano stati buoni amici di Valmont – ma che lo avevano comunque tenuto a distanza, vezzeggiandolo come utile e divertente variante esotica del loro assetto normativo – non riuscivano a tollerare la provocazione di Heteronymos, proprio perchè si svolgeva sul loro terreno. Un terreno ad essi familiare, perlomeno in apparenza, al quale pretendevano di appartenere organicamente: non più il territorio estraneo, per essi alieno, del nomadismo libertino, selvaggio, crudele e impersonale, ma la terra cognita dell’amore coniugale, dell’amicizia, della solidarietà, della progettualità creativa e condivisa…
In questa terra cognita – abusivamente abitata dall’uomo prevedibile e “conforme alla regola”, come lo chiamava Nietzsche – c’è davvero posto per un’autenticità radicale? C’è davvero posto per quella che secondo Heteronymos rappresentava una passione condivisa del molteplice? Per un molteplice in perpetuo movimento, inteso – alla maniera di Canetti – come passione della metamorfosi? Per un molteplice considerato come potenziamento della creatività individuale all’interno di una dimensione sociale e politica? Per una pluralità di pratiche, di produzioni e di enunciati concepibile come prodotto di un soggetto collettivo?
L’invenzione di Heteronymos non ha mai rappresentato, per me, la presunzione di fornire una risposta definitiva a queste domande radicali. Rispetto ad esse, si limita a voler funzionare come una sorta di collettore: un luogo di incontri e di confronti, ma anche di dissensi e di conflitti, dove sia possibile formularle compiutamente, uscendo da una posizione solipsistica. Assieme a tanti altri interlocutori. Senza mai conoscere in anticipo le soluzioni possibili …
Inventare Heteronymos significa metterlo in scena, farlo vivere come personaggio stratificato e multidimensionale: ritrovarlo nel teatro del mondo, nella diversità delle circostanze, nella molteplicità delle esperienze storico-politiche, nella varietà delle congiunture individuali e collettive. Il singolo palpita dentro la vita del tutto. Il tutto è presente dentro la vita del singolo. Non ha più senso, oggi, raccontare e raccontarsi fuori da questa curvatura cosmica della rappresentazione.