Come cura la psicoanalisi

Come cura la psicoanalisi

Mai come in questo momento storico ci sembra di assistere ad una vera e propria ossessione per la validazione e la certificazione “scientifica” -numeri e dati alla mano- delle psicoterapie, e dunque anche, e soprattutto, della psicoanalisi.

Una tale ossessione, apparentemente finalizzata a esigere dalla psicoanalisi la garanzia della sua attendibilità e della sua efficacia come cura del disagio psichico, in effetti sembra piuttosto dimostrare una resistenza ostinata a riconoscere che la psicoanalisi invece, e proprio per il suo statuto, non può rientrare in nessun discorso di validazione scientifica senza rischiare di perdere proprio quella credibilità e quella efficacia che pure le vengono chieste di dimostrare.

La psicoanalisi infatti sembra riporre la sua efficacia proprio nel fatto che essa, pur avvalendosi di una sua tecnica, e pur avendo ben chiari oggetto e finalità del suo intervento, non si muove secondo procedimenti standardizzati, applicabili a chiunque e allo stesso modo, e dunque dimostrabili come efficaci in sé e per sé e a prescindere dalla clinica, ma, essendo pratica dell’inconscio, si implica nelle soggettività di ogni singolo paziente, uno per uno, stabilendo con ognuno il possibile livello di salute perseguibile, e quale, secondo dunque le singole soggettività e non secondo modelli ideali di salute prestabiliti una volta per tutte, anzi “La psicoanalisi mette in questione la significazione stessa della guarigione, cioè interroga ciò che vuol dire stare bene, stare male, ma nel senso di: cosa vuol dire per te, stare bene, stare male, stare meglio? Per te, singolarmente, non per la tua famiglia, per tuo marito, per tua moglie, ma solo per te” (Gault 2003, 195).

Invece, il paradigma tipico della nostra epoca sembra essere sempre più quello di riconoscere come attendibile solo il sapere della Scienza, rispetto a quello conoscitivo e soggettivo cui si arriva attraverso quel particolare processo di cura che è un’analisi, e la cui efficacia può essere riconosciuta, non sulla base di una asettica e standardizzata certificazione della sua validità proveniente dall’Altro della scienza, ma sulla base di una fiducia accordata, e revocabile, dal soggetto stesso all’Altro della cura e dunque, più che alla certificazione del metodo di cura, a quella figura professionale, l’analista, in quanto in grado di essere credibile sul piano della fiducia e del riconoscimento che gli si accorda, a patto che analista ci sia effettivamente diventato. L’analista dunque, in quanto figura di riconoscimento simbolico, irriducibile a quella di un “tecnico” che certifichi oggettivamente sé stesso e l’efficacia del suo metodo di cura, e anche magari la certezza dei risultati.

È diffusamente riconosciuto, dal punto di vista epistemologico, che lo statuto della Scienza è quello di “conoscenza del reale” che riduce il linguaggio che usa a quello di una registrazione neutra, un linguaggio constatativo, vale a dire il linguaggio che certifica in maniera oggettiva e tecnicista. Un linguaggio quindi de-soggettivato.

La psicoanalisi invece fonda la sua pratica sull’uso del linguaggio comunicativo-performativo, del linguaggio inteso cioè come mediazione del legame sociale, del linguaggio che si organizza attraverso le libere associazioni cui dispone il paziente, il linguaggio dell’immediatezza soggettiva e di un “dire senza pensare” che è il solo dire possibile dell’inconscio, e quindi del linguaggio come mediazione del transfert con l’analista, del linguaggio che non è quello del sapere reale, ma del “transfert sul sapere” solo simbolicamente riconosciuto provenire dall’analista, il linguaggio dunque dell’impegno soggettivo.

Altra cosa, questa sì irrinunciabile, è invece il diritto per il paziente di sapere chi sia l’analista che si sta proponendo come tale, e di esigere che sia in grado di dimostrare come è diventato tale e se abbia davvero attraversato quel percorso di studi e di formazione, compresa l’analisi personale, che è il solo che lo autorizza a costituirsi come tale. Un’altra manifestazione, infatti, dell’ossessione scientista, e del paradosso che l’attraversa, è di dare valore alla certificazione di validità del metodo, piuttosto che a quanto l’analista sia in grado di dimostrare di saper fare.

Il sapere psicoanalitico non è dunque il sapere della scienza, ma del soggetto, è quel sapere cui conduce, come ha dimostrato Freud, non la scienza, ma l’isterica, quell’isterica che Freud ha saputo ascoltare, mettendo da parte il sapere della scienza del suo tempo. Per questo il sapere della psicoanalisi non può che sfuggire alla possibilità di costituirsi come un sapere compiuto, e definito in un discorso che abbia il rigore delle scienze così come le conosciamo. “Non possiamo immaginare la psicoanalisi come una disciplina che possa essere insegnata e appresa come la fisica, la chimica o l’agronomia, tanto per fare qualche esempio, cioè come un complesso di nozioni definite, suscettibili di essere trasmesse mediante l’ausilio del pensiero logico che, una volta apprese, possano essere, più o meno prontamente e correttamente, utilizzate; detto altrimenti, non pensiamo che la psicoanalisi sia assimilabile ad una qualsiasi disciplina scientifica e professionale che prepari uno studente all’esercizio di un mestiere o di una professione. In realtà, sebbene sia anche una professione che dà da vivere a chi la esercita – il caso del suo inventore è emblematico al riguardo – rimane portatrice di una specificità epistemica che la rende non assimilabile del tutto né alle altre professioni né alle altre discipline scientifiche o umanistiche. È per questo motivo che la sua trasmissione, anche al livello dell’insegnamento della teoria, non può effettuarsi nella forma di un’esposizione conclusa della dottrina ma abbisogna di una continua riflessione che implica una riscoperta di qualcosa che ogni volta deve avvenire di nuovo.” (Conrotto 2000, 13).

È proprio questa particolare posizione della psicoanalisi rispetto al sapere, che fa della psicoanalisi, non solo una epistemologia del tutto singolare, ma soprattutto una cura del tutto singolare. È  proprio questo aspetto cioè, della implicazione soggettiva, a fare dell’analisi una cura, una cura non solo del tutto singolare, ma anche una cura efficace, in quanto non è sulla standardizzazione secondo i canoni precostituiti della scienza e dei modelli di salute previsti che essa poggia la sua azione, quanto sul fatto che essa, al contrario, è una cura “fuori-canone” poiché, disponendosi ad essere risposta alla domanda del soggetto, lo ascolta. È solo la psicoanalisi infatti ad aver dimostrato come il sintomo, piuttosto che disturbo da eliminare, rappresenti quel discorso soggettivo da ascoltare e decifrare.

In altre parole la psicoanalisi cura in quanto, paradossalmente, si sottrae ad ogni modello di cura stabilito, cura al di là di ogni modello di cura precostituito dalla scienza, per portare il paziente alla “sua cur” e alla “sua salute” soggettiva.

Non è pensabile dunque una standardizzazione definitiva della cura, anche se la storia del movimento psicoanalitico è contrassegnata da infiniti tentativi di definire una volta per tutte se e in che modo la psicoanalisi possa esercitare la sua funzione terapeutica, e che cosa la rendesse efficace come terapia.

Lo stesso Freud, in tutta la sua opera, non smise mai di richiamare l’attenzione proprio su questo aspetto.

D’altra parte la psicoanalisi, e soprattutto sul versante della cura, mantiene la caratteristica della ricerca empirica che, come tale, non esclude di poter apprendere proprio dai pazienti il suo metodo, al punto che, potremmo dire, i pazienti sono anche per così dire i supervisori del proprio analista, anzi sono, come richiama Lacan, i veri analizzanti. Per questo il modo attraverso cui opera la psicoanalisi, e la sua efficacia -che può essere proprio per questo anche enorme- non possono dunque essere ravvisati in un protocollo univoco di tecniche e di interventi che prescindano dal paziente. Per dirla in altri termini, in psicoanalisi non può essere concepito nessun modello di terapia, e nessuna tecnica, che non includano anche il modo attraverso cui l’analista si relaziona al suo paziente, e la posizione che assume nei suoi confronti, in quanto l’analista non solo interpreta, ma si implica nell’inconscio del paziente. Per questo indicazioni e controindicazioni della cura psicoanalitica, per quanto -soprattutto in certi viluppi post-freudiani- si cerchi di prestabilirli una volta per tutte, finiscono per essere invece stabiliti, e anche concordati, di volta in volta, in ogni analisi e con ciascun paziente, uno per uno.

Relativamente al metodo, dunque, la psicoanalisi potrebbe essere vista come una scienza empirica, che procede per via induttiva e dunque, come la biologia o la medicina, può forse essere assimilata ad una scienza della natura perché si interessa della natura umana e formula teorie a partire da essa. Tuttavia, a differenza delle scienze empiriche, che desumono come il fenomeno accade dal fenomeno una volta accaduto, la psicoanalisi cerca piuttosto di cogliere il fenomeno nel suo accadere, visto che l’oggetto del suo intervento è l’inconscio che si coglie appunto proprio “quando accade” e nel suo aspetto evenemenziale; per questo l’intervento analitico è anche una risposta a ciò che accade in quel momento della seduta, una risposta al discorso del soggetto e alla domanda che in esso viene posta, in quanto il discorso del paziente sottende sempre una domanda: che significa quello che sto dicendo? Che vuol dire questo? Una risposta però, quella dello psicoanalista, che non è detto arrivi, soprattutto non è detto arrivi come il paziente se l’aspetta e, comunque, una risposta pur sempre provvisoria. Perché provvisoria? Perché se da una parte riconosciamo alla psicoanalisi di appartenere alle scienze empiriche in grado di scoprire fenomeni naturali che hanno il carattere di verità e della universalità (la scoperta dell’inconscio e delle sue leggi ne è d’altra parte un esempio), dall’altra ci ritroviamo a fare continuamente i conti anche con la provvisorietà intrinseca al suo metodo di cura? In altri termini cosa significa che quel “qualcosa che stiamo appena scoprendo ogni volta deve avvenire di nuovo?” (Conrotto, op. cit., 13). Significa evidentemente che l’inconscio, pur regolato dalle sue leggi di funzionamento, tuttavia si caratterizza anche per la particolarità delle significazioni che assume in ogni individuo e che è dunque universale e particolare al tempo stesso.

La psicoanalisi è allora sì scienza della natura, ma al tempo stesso è anche scienza del particolare, perché l’inconscio si struttura sì attraverso la sua logica, che è la stessa in chiunque, dunque formulabile anche in termini di leggi universali, ma si muove intorno al desiderio, che invece è il particolare del soggetto. In questo senso l’inconscio è effettivamente strutturato come un linguaggio che, come si sa, è universale e particolare al tempo stesso. Perciò, nel momento in cui si dispone alla cura, lo psicoanalista si costituisce allo stesso tempo nella funzione di ascolto di un soggetto di cui, pur conoscendo le leggi che regolano il suo inconscio, sa di non sapere nulla circa il desiderio che lo abita.

È proprio in questo non sapere nulla del paziente che consiste la qualità della cura psicoanalitica, ma anche la specificità della sua azione, deel modo attraverso essa cura e anche della sua efficacia.

L’apporto di Freud

Questo specifico ambito epistemico della psicoanalisi può essere colto in Freud già negli Studi sull’isteria (Freud 1892-95, 163-439), infatti “è a partire dall’isteria che Freud riuscì a sviluppare le prime teorizzazioni psicoanalitiche e ad organizzare l’iniziale architettura della mente e del suo funzionamento, tant’è che l’isteria è classicamente considerata la nevrosi, anzi, l’origine stessa della psicoanalisi, se infatti una della prime pazienti isteriche di Freud, Emmy von N, con il suo famoso non mi tocchi, stia zitto, rivolta al medico viennese, riuscì ad imporre il suo discorso, mettendo di fatto lo stesso Freud nella posizione di colui che ascolta ciò che il paziente ha da dire e dunque nella posizione dello psicoanalista.” (Errico, Perrotta 2012). Nel saggio Per una psicoterapia dell’isteria che conclude gli Studi (Freud op, cit., 394-439), Freud riporta puntualmente le difficoltà che ha incontrato nelle sue pazienti trattate con la tecnica dell’ipnosi, descrive come ha potuto riconoscerle ed affrontare, come ha modificato la tecnica e quale il procedimento che man mano si è ritrovato ad adottare, non solo nella cura, ma anche nella costruzione di un metodo -del tutto nuovo e rivoluzionario- che tendeva ad accogliere piuttosto che rigettare ciò che, provenendo dalle pazienti, Freud non si aspettava. È in questo modo che le libere associazioni e il transfert, inizialmente avvertiti da Freud come resistenze, diventano invece alleati della cura e quindi i pilastri della terapia psicoanalitica. La valenza euristica dell’analisi, come la sua efficacia terapeutica, consistono nel fatto che analista e paziente sono disposti in maniera tale da poter essere colti da ciò che non si aspettano. In altri termini -è questo l’insegnamento straordinario di Freud- in analisi conta quello che manca, piuttosto ciò che è presente, vale a dire quello che, sottraendosi continuamente al discorso, nel discorso ritorna in altri modi e in altre forme.

L’analista allora non è più colui che si attrezza a ritrovare il contenuto inconscio, il rimosso, attraverso un procedimento attivo in un paziente passivamente regredito per mezzo della suggestione ipnotica, ma colui che, disponendosi all’ascolto, accoglie il discorso spontaneo del paziente. L’analista in effetti non cerca l’inconscio, ma lascia che questo lo raggiunga, e il paziente, dirà Lacan, da analizzando, diventa analizzante.

Freud arriva dunque sempre più a comprendere che la tendenza del paziente a raccontare, come l’attitudine alla traslazione, sono pulsioni cui egli non può sottrarsi, nonostante pure vi resista. Sono manifestazioni e istanze di desiderio che, in quanto tale, è ineludibile, e per quanto il soggetto cerchi di aggirarlo, torna insistentemente. Su questa via Freud scopre il significato del sogno come realizzazione di desiderio, come la scena del desiderio e l’analisi il luogo dove questa scena si riproduce per poterlo accogliere, comprendere, interpretare. In una parola analizzarlo. In analisi, diversamente da quello che avviene in altri procedimenti terapeutici, il desiderio, e l’inconscio che ne è il luogo, non sono mai elusi, ma continuamente affrontati. Non è in questo allora che possiamo evidentemente cogliere la specificità della cura analitica? E forse anche della sua efficacia? Nel fatto che l’analisi è il luogo del riconoscimento del desiderio e della sua interpretazione.

Procedendo dunque nel suo metodo, Freud non si sottrasse mai, in tutta la sua opera, a porsi la domanda di come e perché l’analisi curasse, di quali potessero essere i fattori che ne determinassero l’efficacia terapeutica, legandola, all’inizio, essenzialmente al disvelamento dei contenuti inconsci e dunque all’azione dell’analista che procedeva in senso inverso a quella della rimozione.

Mi limito solo a ricordare a tal proposito che soprattutto agli inizi Freud ribadì più volte quanto fosse importante, ai fini della cura, spiegare, informare, chiarire al paziente quello che avveniva nel suo inconscio, perché solo questo avrebbe facilitato il superamento delle resistenze nei confronti del ritorno del rimosso, e dunque la possibilità di rendere conscio il materiale inconscio, condizione imprescindibile per la buona riuscita del trattamento.

In altri passaggi della sua opera (Freud 1910, 329; 1913, 333-352) il padre della psicoanalisi andò invece man mano ridimensionando il ruolo dell’interpretazione, dimostrando che da sola questa non poteva bastare: occorreva anche che si potesse stabilire un buon attaccamento del paziente all’analista. In altre parole, a più riprese, Freud sottolineò anche l’importanza della relazione tra il paziente e l’analista, fino ad affermare che è il transfert, non la conoscenza intellettuale, ciò che fa pendere il piatto della bilancia verso l’efficacia della cura analitica (Freud 1915-17, 581-596). Quindi sin dall’inizio Freud legherà l’efficacia della psicoanalisi da una parte alla interpretazione dell’inconscio, dall’altra al fenomeno del transfert del paziente sulla persona dell’analista.

Non a caso la storia del movimento psicoanalitico è stata attraversata, anche in segito, dal dibattito, e spesso dalla contrapposizione, tra l’enfasi data ora all’interpretazione ora alla relazione tra paziente e analista.

In ogni caso, al di là dei fattori terapeutici di volta in volta considerati, gli analisti su un punto essi sono sempre stati concordi e cioè sul fatto che non ci può essere nessuna efficacia della pratica analitica come cura se non è correttamente esercitata da chi si è adeguatamente formato come analista. Insomma gli psicoanalisti, nel raccogliere l’insegnamento di Freud, hanno cercato di continuare a seguirne il percorso tracciato anche in questa direzione; hanno sempre cercato di mettere al sicuro l’efficacia della psicoanalisi, di doverla garantire individuando una volta per tutte i fattori che la certificassero, e dunque legittimando a occupare il posto dell’analista solo a chi si fosse formato secondo quei principi volti a far sì che chi volesse esercitare la psicoanalisi fosse effettivamente nelle condizioni di praticarla correttamente ed efficacemente.

L’azione analitica

Da sempre quindi la psicoanalisi sembra interrogarsi su sé stessa, su come cura e su quali possono esserne i fattori specifici: si tratta evidentemente di una questione che, in quanto analisti, non possiamo mai smettere di porci, dal momento che è lo stesso procedimento analitico, l’azione psicoanalitica in sé, potremmo dire, a porci continuamente questi interrogativi quando siamo al lavoro con i nostri pazienti: cosa sta succedendo? stiamo curando? come stiamo curando? Al tempo stesso, dobbiamo saper tollerare che, come analisti, siamo anche continuamente attraversati dal non sapere che è la condizione stessa dell’inconscio, in quanto sapere di cui non si sa.

Questo però non significa che lavorare psicoanaliticamente possa essere visto come una sorta di procedimento alla cieca, a tentoni, un brancolare nel buio. Al contrario dobbiamo stare attenti a non improvvisare, a non eccedere nel fare in quanto, come analisti, siamo tenuti a evitare di fare da ostacolo a che il paziente possa mettere in parola il suo inconscio. Questa particolare condizione dell’analista al lavoro, di essere attraversato da una parte dall’interesse a volerne sapere di più e dall’altra dalla consapevolezza di non poterne sapere mai del tutto, anzi dal desiderio di non volerne sapere perché il solo sapere che conta è quello del paziente, è l’aspetto cardine di ogni azione analitica e dunque ciò che ne condiziona, a mio avviso, ed in maniera determinante, l’efficacia.

Dunque, la posizione dell’analista nella cura, il suo modo di porsi nei confronti del paziente, la qualità del suo dire, le modalità attraverso cui modula il suo intervento, in poche parole, per dirla con Lacan, tutto quello che contribuisce a costituire il suo atto analitico è parte integrante dell’efficacia terapeutica, il che significa che la psicoanalisi deve la sua efficacia anche al fatto che essa si pone come un procedimento che tiene costantemente conto della sua stessa etica, che, nel caso della psicoanalisi, è intrinseca -non esterna- al suo metodo.

Che cosa è un’analisi?

Ora, entrando di più nello specifico dell’analisi come cura, se ci chiediamo cioè come un’analisi curi, non possiamo che ritrovarci, a mio avviso, di fronte ad almeno due questioni cruciali, che non possono essere eluse.

La prima è quella di doverci chiedere anche cosa sia un’analisi: nel panorama apparentemente complesso delle psicoterapie cosiddette psicoanalitiche, cosa può essere chiamata analisi e cosa invece no?

La seconda: ha ancora senso oggi parlare di psicoanalisi come cura della sofferenza psichica, soprattutto di quelle che sembrano esserne le nuove forme? In un’epoca come la nostra caratterizzata dalla necessità della immediatezza, del tutto e subito, del qui e ora, è ancora proponibile la psicoanalisi, con i suoi tempi lunghi, come metodo di cura in cui il “tutto e subito” non sono possibili, richiedendosi in analisi piuttosto un’attesa, e un lavoro, affinché possa avvenire un cambiamento che abbia una certa consistenza e che si mantenga nel tempo? E inoltre, qual è il cambiamento che il soggetto sofferente di oggi chiede e che un’analisi può permettere? In altre parole, a quale domanda del soggetto, oggi l’analisi può ancora pensare di essere la risposta, visto che il soggetto della contemporaneità non sembra essere più il soggetto isterico dell’epoca di Freud?

Sono questioni che da sole meriterebbero trattazioni estese, e tuttavia tenteremo di delinearne almeno gli aspetti essenziali.

Partiamo dal chiederci quale può essere allora l’ambito specifico della psicoanalisi oggi, vale a dire: cos’è che oggi può considerarsi essere psicoanalisi? Esistono una sola psicoanalisi o tante? E ancora: cosa differenzia la psicoanalisi dalle altre psicoterapie?

Forse, per tentare una risposta, dovremmo partire da quello che la psicoanalisi sicuramente non è: la psicoanalisi non è una terapia direttiva, né è una terapia del sintomo, e non è neanche una terapia esplicativa, catartica, o del comportamento.

Classicamente l’analisi è piuttosto una terapia interpretativa che si struttura attraverso una relazione nella quale la componente emotiva e quella affettiva acquistano particolare rilevanza. Ma basta questo? Diciamo che l’analisi è sicuramente anche questo, ma non è solo questo perché questi aspetti potrebbero essere attribuiti anche ad altre psicoterapie. Sono ravvisabili allora aspetti riconoscibili come specifici dell’analisi e solo dell’analisi? E soprattutto è utile per il lavoro che facciamo tentare di distinguere l’ambito della psicoanalisi da ciò che non lo è? Qui non si tratta di stabilire un dogma, quanto la opportunità di considerare un possibile ambito proprio di ogni psicoterapia, un campo, che nel caso della psicoanalisi è evidentemente quello tracciato da Freud e che possiamo considerare come contrassegnato essenzialmente da tre aspetti che concernono, il primo, il punto da cui parte ogni esperienza analitica, il secondo l’oggetto del suo lavoro, il terzo il suo punto di arrivo. Solo se teniamo conto di queste coordinate possiamo evidentemente cogliere la specificità del campo della psicoanalisi.

Primo aspetto: l’inizio di un’analisi

Come inizia un’analisi? Cosa è che rende l’inizio di un’analisi diverso dagli inizi di qualsiasi altra terapia? In effetti ogni analisi prende le mosse da una richiesta di aiuto a causa di una sofferenza soggettiva, da una domanda dunque che è ancora comune a tutte le terapie. È solo nel momento in cui però emerga da parte del paziente, al di là del bisogno di essere curato, il desiderio di voler capire come e perché sta male, di voler saperne qualcosa di più sul proprio sintomo e sulla sofferenza che lo accompagna, e anche di voler sapere di più su sé stesso, che allora evidentemente possiamo dire che sta iniziando un’analisi.

Dunque, quello che fa, di un inizio qualsiasi, un inizio di analisi è il desiderio di sapere. L’analisi è ciò che si costituisce attraverso un investimento sul sapere. Ogni transfert analitico inizia con un transfert sul sapere, che diventa un transfert sull’analista perché l’analista è riconosciuto come colui che incarna questo sapere ed è in grado di rispondere a questa domanda di sapere. Transfert sul sapere, transfert sulla parola, transfert sull’analista sono i transfert costitutivi del transfert psicoanalitico, ed è per questo che l’analista è, come dice Lacan, il Soggetto Supposto.

Solo supposto, perché in effetti il vero sapere sul paziente lo detiene il paziente stesso, solo che egli non lo sa, in quanto questo sapere è un sapere inconscio.

L’analista è dunque il polo ricevente del discorso del paziente, di un discorso che l’analista non può conoscere in anticipo, e dunque la sua posizione è quella di colui che, pur supposto sapere come dicevamo, in effetti non sa nulla del suo paziente, se non le informazioni generiche sulla persona e sul problema che ha potuto raccogliere durante i cosiddetti incontri preliminari.

L’analisi dunque è cio che muove da una domanda di sapere rivolta a chi in effetti non può sapere ancora nulla. L’analisi parte da un desiderio di sapere del paziente e da una posizione di non sapere dell’analista. Questa condizione degli inizi è una condizione che è solo dell’analisi: possiamo parlare di analisi solo se si ci muove in partenza da questa situazione, altrimenti non possiamo dire di essere in presenza di un’analisi: siamo in presenza di un’altra cosa, non di un’analisi.

Analogamente, dalla parte del paziente un’analisi muove da una domanda del paziente, che è una domanda di sapere, di saperne qualcosa sul suo sintomo: che vuol dire questo? Che vuol dire il sintomo che mi porta qui?

Domanda che l’analista accoglie facendone il campo di lavoro e che rappresenta quella che Lacan chiama la isterizzazione del discorso, come condizione preliminare e fondamentale di ogni analisi.

In altre parole un’analisi inizia quando il paziente “riconosce” che il sintomo di cui egli soffre è una questione di cui egli senza saperlo è responsabile, qualcosa che serve a qualcosa, pur non sapendo cosa, che è un dire soggettivo di cui egli non sa cosa voglia dire. Allo stesso tempo un’analisi inizia nel momento in cui il paziente riconosce l’analista come colui che può essere implicato nella domanda che egli formula, come colui che si implica nel suo inconscio.

In altre parole l’analisi inizia, possiamo dire, con un doppio transfert: un transfert sul sapere e un transfert sull’analista. Dal che ne consegue un’altra caratteristica specifica dell’analisi: vi è analisi solo se vi è qualcosa che procede sotto transfert, un transfert che viene riconosciuto dall’analista, per essere taciuto.

La posizione dell’analista nei confronti del paziente è dunque quella di colui che non ne sa e non ne vuole sapere nulla in anticipo, nulla che non scaturisca dal paziente stesso in analisi, mentre quella del paziente è la posizione di chi ritiene che l’analista sappia invece già tutto di lui. La dialettica paziente-analista che si instaura a partire da queste rispettive posizioni costituisce lo scambio propriamente analitico e dunque il modo specifico attraverso cui la psicoanalisi opera, nonché ciò o che la distingue dalla psicoterapia: solo in analisi l’analista si sottrae sempre ai continui tentativi del paziente di metterlo nel posto di colui che già sa.

Secondo aspetto: l’oggetto della psicoanalisi

Veniamo ora al secondo aspetto che abbiamo considerato delimitare il campo della psicoanalitica e che abbiamo individuato nell’oggetto specifico del lavoro analitico. Vale a dire: che cosa è che la psicoanalisi cura? Non possiamo infatti chiederci come la psicoanalisi cura se non ci poniamo anche la domanda di cosa essa curi. Qual è l’oggetto specifico del suo lavoro? Potemmo rispondere: ovvio, la psicoanalisi si occupa dell’inconscio. Ma di quale inconscio si tratta? La psicoanalisi cui noi facciamo riferimento è quella che tratta specificamente l’inconscio freudiano, vale a dire l’inconscio che si costituisce e può essere colto come un fatto mentale, in quanto “l’inconscio non appare come il significato latente di un testo ma come l’atto che occupa la scena dell’attività mentale” (Widlöcher 1996, 92), vale a dire ciò che si trova tra lo stimolo (dell’Altro) e la risposta (del Soggetto).

L’organizzazione psichica infatti è tale che questo spazio possiamo immaginarlo sufficientemente conservato o per meglio dire continuamente ritrovato. Per lo più, se le cose non vanno molto male, dovremmo poter disporre di un luogo che separi ciò che proviene dall’Altro dalla risposta che possiamo darvi, che ci permetta di sospenderla, di procrastinarla, di differirla, luogo che altro non è se non l’effetto di quella divisione soggettiva cui siamo sottoposti per azione della parola dell’Altro, del Significante. In altri termini per effetto della castrazione primaria, la castrazione simbolica. Un luogo -una faglia, uno spazio cavo, una beanza– del soggetto dove l’eccitazione pulsionale può subire un destino diverso dalla scarica immediata cui pure per sua natura protende, dove può essere caricata dell’affetto, rivestita di un significante, incanalata verso i gradienti della elaborazione, in una parola simbolizzata grazie alle funzioni associative e di legame attraverso cui opera l’inconscio. Dovremmo essere cioè in grado di slegare lo stimolo dalla risposta, e di poterlo ri-legare ad un affetto, ad un pensiero, ad un’idea, ad una rappresentazione, in altri termini di trasformarlo in un atto mentale inteso appunto come fatto, come il fatto proprio che può essere pensato e detto, come il nostro discorso, che è poi il discorso che il soggetto in analisi rivolge all’analista.

La psicoanalisi, attraverso la prescrizione della regola fondamentale, in effetti si propone proprio di favorire, o almeno di non impedire, che, tra lo stimolo e la risposta, si possa interporre lo spazio dove la parola può intercettare la pulsione e trasformarla in un fatto mentale analizzabile attraverso lo strumento principe dell’interpretazione dell’analista, permettendo la psicoanalisi anche, in tal modo, che il paziente possa riconoscere non solo il proprio fatto mentale, ma anche, e soprattutto, di esserne l’autore, vale a dire di esserne il soggetto. Perché quello che per la psicoanalisi è strettamente collegato alla salute mentale è la possibilità che una persona ha di riconoscersi Soggetto del suo inconscio, soggetto di ciò che manifesta a sua insaputa attraverso il sintomo. Soggetto anche, e soprattutto, nel senso di assoggettato. Soggetto dunque di desiderio.

Dunque il vero oggetto della psicoanalisi è il Soggetto nel momento stesso in cui egli si coglie nel suo analizzarsi, e dunque nel momento in cui egli dice in quanto parlato dall’inconscio, cioè dall’Altro, poiché l’inconscio -Freud, come ci ricorda Lacan, non ha fatto altro che ripetercelo- è l’altra scena. L’analisi, possiamo dire, non ha allora un suo oggetto: l’analisi ha un Soggetto invece ed è colui che la fa, l’analizzante. Per questo, la psicoanalisi non può che sfuggire ad ogni tentativo di definirla in una pratica compiuta e circoscritta dai parametri, dai criteri e dai principi di una tecnica standardizzabile e trasmissibile, in quanto essa è un discorso, quel discorso che Lacan ha chiamato il discorso dell’Isterica.

Terzo aspetto: il fine di un’analisi

Questo evidentemente -e veniamo all’ultimo aspetto che specifica il campo analitico- l’obiettivo possibile dell’analisi, e questo evidentemente l’unico che legittima il procedimento analitico. Non l’eliminazione in sé del sintomo, che non sarebbe neanche possibile, e neanche il perseguimento delle tre famose idealità della psicoanalisi “classica”: 1) l’ideale dell’amore genitale inteso come quello in cui si realizzerebbe appieno la relazione oggettuale; 2) l’ideale dell’autenticità, nel senso che essendo quella analitica una tecnica di “smascheramento” non può che condurre il soggetto alla sua autenticità più piena e genuina e alla sua verità senza veli e inganni; 3) l’ideale dell’autonomia, in virtù del quale il soggetto può arrivare alla felice condizione del superamento di qualsiasi vincolo di dipendenza dall’altro.

Vale la pena ricordare a questo punto, che sarà Lacan a mettere decisamente in guardia gli analisti dal cedere a queste mire idealizzanti, che non possono che portare il paziente ad una sorta di “ortopedizzazione” idealizzata degli assetti di funzionamento del suo Io, e non al suo desiderio inconscio, che è il vero oggetto della psicoanalisi freudiana.

Lacan, rifacendosi pienamente a Freud è stato chiaro su questo: non è l’Io con le sue funzioni, ma il soggetto con il suo desiderio il vero “oggetto” della psicoanalisi, in quanto è da lì, dal suo desiderio rimosso e “dimenticato”, e non dall’Io, che l’essere umano parla e soffre.

Gli analisti hanno invece -e questo li ha portati lungo la strada sbagliata della deriva da Freud- hanno erroneamente visto nel famoso enunciato di Freud: “Wo Es war, soll Ich werden” la raccomandazione di lavorare sull’Io, come apparato, e dunque di lavorare sulle sue funzioni e sull’insieme dei suoi meccanismi di difesa. L’Io viene dunque oggettivato come “organo da curare” migliorandone le funzioni, come infatti vediamo accadere attraverso le “tecniche” dei sostenitori della Ego psychology, i quali, continuando in questa direzione, si sono progressivamente spinti fino al limite delle psicoterapie cognitiviste, e finanche delle cosiddette neuroscienze, cioè fino a quanto di più lontano possa esserci dalla psicoanalisi di Freud.

Lacan si opporrà invece energicamente a questa deriva e restituirà la frase al suo vero significato: fa notare che Freud omette a Ich l’articolo, non parla cioè dell’Io, come istanza o come funzione, ma di Io come soggetto. Non dice: “soll das Ich werden”, ma: “soll Ich werden”, non dice: “dove era Es deve diventare l’Io”, ma dice: “dove era l’Es devo diventare Io”. Il che cambia tutta la prospettiva del lavoro analitico: in quanto analisti non dobbiamo lavorare affinché l’Io si sostituisca all’Es, ma affinché Io mi soggettivizzi sul mio Es, sulle mie pulsioni, in particolare sulla pulsione di morte, facendoci i conti alla men peggio. (Lacan, 1953-54, 287). Questa è l’analisi freudiana, dalla quale le correnti post freudiane si sono sempre più allontanate, e alla quale noi, in quanto analisti che si ispirano a Freud, dobbiamo invece ritornare.

È per questo allora che la frase “Wo Es war, soll Ich werden”: “dove era l’Es, lì Io sarò”, rispettandola nella sua formulazione senza l’articolo davanti a Io, può essere a pieno titolo considerata il manifesto costitutivo dell’analisi nel suo modo di procedere. Là dove è il rumore dell’Es, della pulsione-scarica (che è poi la pulsione di morte, o, se si preferisce, pulsione di godimento), lì il Soggetto arriverà a costituirsi sul proprio inconscio per dare un senso e un nome alla pulsione, e ricondurla nella trama possibile del suo discorso.

Per concludere: brevi considerazioni sull’attualità della psicoanalisi

La possibilità per il paziente di riconoscersi, attraverso la sua analisi, soggetto del proprio inconscio può essere immaginata anche come il transito da una dimensione duale e orizzontale, vale a dire dal campo prettamente dell’Immaginario, verso la dimensione diciamo della terzeità, verso la verticalizzazione del soggetto sul proprio desiderio, vale a dire verso il campo del Simbolico. L’emblema concettuale di ciò è proprio il passaggio attraverso l’Edipo, per meglio dire attraverso la castrazione, vale a dire che la castrazione può essere vista come il significante di ogni possibile cambiamento e dunque anche di quello che ci aspettiamo possa avvenire in un soggetto attraverso un’analisi.

Si tratta cioè di un aspetto di importanza non trascurabile, perché ci introduce direttamente alla problematica del soggetto del nostro tempo, e a se e come un’analisi possa curare i pazienti di oggi, coloro cioè che possiamo ritenere non in grado di accedere alla castrazione simbolica.

Sempre più spesso, nella nostra clinica di oggi, siamo chiamati a doverci prendere cura di soggetti che non possono essere considerati nevrotici, i cosiddetti “nuovi pazienti” come ad esempio i pazienti che lamentano attacchi di panico, oppure coloro che riferiscono insoddisfazione diffusa e senso di vuoto interiore, o le anoressiche, i tossicodipendenti, o ancora, coloro con disturbi del comportamento come i fenomeni di addiction o le manifestazioni compulsive o di inibizione dell’azione ecc., ma anche i pazienti perversi e gli psicotici, i cosiddetti “psicotici ordinari”. In tutti questi casi, se andiamo a vedere, si tratta in fondo di pazienti che non riescono a concepirsi come “soggetti del proprio fatto mentale”, che non sembrano cioè nelle condizioni di poter articolare un racconto da rivolgere all’analista, un discorso appunto, come se si trattasse di soggetti “senza inconscio”, per i quali a prevalere non è tanto la rimozione, ma meccanismi più radicali come il diniego della realtà, la scissione, la forclusione, e che sono i meccanismi in opera appunto nelle perversioni e nelle psicosi.

Di fronte alla diffusione crescente di questo tipo di pazienti, molto diversi da quelle isteriche che hanno “inventato” la psicoanalisi e per le quali appunto l’analisi può essere vista come la risposta che Freud ci ha indicato, la questione che si pone è: è proponibile un’analisi in questi casi? E, soprattutto, con pazienti di questo tipo, un analista che fa?

Un’analisi come ce l’ha classicamente prospettata Freud evidentemente non sarebbe possibile, soprattutto se la dovessimo proporre come tale sin dal suo inizio. Piuttosto, più correttamente, dovremmo pensarla, un’analisi, non come ciò da cui partire, ma come ciò a cui arrivare, ciò a cui tentare di condurre il paziente, pensarla come essa stessa un obiettivo, nel senso che in questi casi la funzione dell’analista non può essere quella di interpretare l’inconscio quanto quella di tentare di riattivarlo, di provare a rimetterlo in funzione, di provare cioè a far sì che un paziente di questo tipo possa maggiormente riconoscersi soggetto delle sue cose, della sua storia, del suo inconscio. Per questo, più che un’analisi vera è propria, quello a cui dovremmo pensare in questi casi è di consentire percorsi di cura flessibili e particolarmente adattati a queste “nuove patologie”, dovremmo cioè vedere nella psicoterapia psicoanalitica il preliminare di ogni possibile analisi intesa come analisi dell’inconscio sotto transfert.

In effetti questi soggetti, per quanto nel linguaggio -che spesso appare non a caso un linguaggio “proprio” e poco “condiviso”- sembrano il più delle volte essere “fuori discorso”, nel senso di tendere a stabilire più che legami sociali veri e propri -dove la parola piò entrare a costituire un discorso come scambio con l’altro sotto l’insegna del patto sociale collettivo- sembrano costituire piuttosto sembianti di legame, dove la dimensione individuale, monadica, autistica, possiamo dire, tende comunque a prevalere su quella sociale e collettiva, e dove l’altro non arriva mai ad essere riconosciuto come l’altro da sé, persistendo piuttosto nella immagine speculare di l’altro di sé.

Una vignetta clinica mi sembra possa illustrare bene la difficoltà per il soggetto contemporaneo di riuscire a soggettivarsi, a prendere cioè posizione di soggetto sulle proprie questioni e dunque ad accedere ad un’analisi vera e propria, e mi sembra sia anche particolarmente emblematica del modo prevalente di essere e di funzionare di questo soggetto che appare sempre più spesso come un soggetto non-soggetto.

Si tratta di una signora venuta da me perché afflitta da un senso insopportabile di vuoto e di noia esistenziale. Per molte sedute non mi parlò che di fatti concreti della sua vita quotidiana e degli altri che la circondavano: marito, figlie, amiche. In poco tempo arrivai a sapere tutto degli altri e niente di lei, tant’è che pensai di chiederle:
noto che lei conosce benissimo tutto quello che avviene intorno a lei, e dunque di tutto quello che sa così bene degli altri cosa pensa di farsene?
Mi rispose:
– il punto è proprio questo dottore: di cosa farmene non ne ho la minima idea. Forse aspetto semplicemente che sia lei a dirmelo!
La signora sapeva tutto, ma di tutto quello che sapeva non sapeva cosa farsene.

In un passaggio dei suoi primi seminari, non a caso il III, quello sulle psicosi, Lacan affronta la questione della soggettivazione ricorrendo all’esempio del capitano di una nave: “Sono sul mare, capitano di una piccola imbarcazione. Vedo delle cose che si agitano nella notte in un modo che mi fa pensare che possa trattarsi di un segno. Come reagirò? Se non sono ancora un essere umano, reagisco con ogni sorta di manifestazioni, come si dice, modellate, motorie ed emotive, soddisfo le descrizioni degli psicologi, comprendo qualcosa…. Se invece sono un essere umano, registro nel giornale di bordo: alla tal ora, al tale grado di longitudine e di latitudine, abbiamo avvistato questo e quello. È questa la cosa fondamentale. Metto al sicuro la mia responsabilità.” (Lacan 1955-56, 216)

Cosa hanno in comune la mia paziente e il capitano di bordo di Lacan? Hanno in comune a mio avviso che entrambe le situazioni mettono in evidenza un punto centrale della questione del Soggetto, vale a dire il punto cruciale, se così posso dire, della firma, del fatto che ciò che mi riguarda è ciò di cui mi assumo anche la responsabilità, è ciò rispetto a cui sono nelle condizioni di prendere posizione, perché non è nel sapere in sé, ma nel potermi assumere la responsabilità del mio sapere che mi costituisco come un soggetto. La signora sapeva tutto, ma, nel momento di trarne le conclusioni e di stabilire qualcosa, di decidere, di apporre appunto la sua firma, in quel momento ella svaniva come soggetto, in quel momento si realizzava questo fading del soggetto. Nell’esempio del capitano Lacan ci mostra, al contrario, che un essere umano non è chi si limita a osservare i fatti che accadono, ma chi si assume la responsabilità sugli stessi, chi vi appone appunto la sua firma, mettendo -come dice- al sicuro la sua responsabilità.

Quindi è lì, nella possibilità di mettere al sicuro la propria responsabilità che si costituisce il soggetto. Il soggetto non è colui che sa, ma colui in grado di sottoscrivere ciò che sa. Detto in altri modi: non basta un sapere per fare un soggetto, ma occorre sapere cosa farsene del proprio sapere. Non basta sapere, ma occorre saperci fare col sapere. È nel punto di intersezione della verticalità della funzione simbolica sulla orizzontalità delle coordinate dell’identità e dell’immaginario che si costituisce il soggetto, che in quanto tale può così riconoscersi un po’ di più nella particolarità del suo desiderio, della sua storia e del suo progetto senza per questo sentirsi necessariamente solo e perso nel mondo. Gli attacchi di panico, così frequenti oggi, sono proprio la rappresentazione in chiave sintomatica di questa angoscia della responsabilità, così tipica del nostro tempo.

Non a caso la condizione che caratterizza il Soggetto della contemporaneità non sembra tanto essere più quella edipica, quella di colui cioè che agisce non sapendo, ma quella amletica, quella cioè di chi, pur sapendo tutto e pur sapendo quello che è giusto fare, ne procrastina l’azione all’infinito.

Al punto del proprio riconoscimento soggettivo, e non a quello di ulteriori costruzioni identitarie che suppliscano a poter essere soggetti di sé stessi, noi analisti speriamo di poter condurre questi pazienti, cioè al punto in cui il sapere può diventare un saperci fare. A quel punto in cui al sapere di avere un sintomo, subentri il saperci fare col proprio sintomo, al punto in cui in questo modo un sintomo, da quello che in un soggetto funziona peggio, possa addirittura diventare ciò che funzioni meglio. Il che significa, riprendendo Winnicott, che in analisi il cambiamento non significa arrivare dunque ad essere qualcosa che ancora non si è, quanto diventare più consapevolmente quello che già si è. In un certo senso, e paradossalmente, possiamo dire che l’obiettivo del lavoro analitico non lo si trova nel futuro, ma in quel futuro anteriore di cui parla Lacan, e il cambiamento in analisi non consiste tanto nel far accadere qualcosa che non è ancora accaduto, quanto nel riprendersi ciò che è già avvenuto per farlo accadere di nuovo, per dare parola a ciò che alla parola è stato sempre sottratto, a permettere insomma che il paziente possa riorganizzare la trama del proprio discorso e trovarvi un posto in cui poterci stare in maniera più sopportabile.

Egidio Tommaso Errico
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www.egidioerrico.com

 

BIBLIOGRAFIA

AULAGNIER, P. (1975). La violenza dell’interpretazione. Borla, Roma, 1994
CONROTTO, F. (2000). Tra il sapere e la cura. Un itinerario freudiano. Franco Angeli, Milano
ERRICO, E. T. – PERROTTA, A. L. (2013). Il discorso isterico: atto di fondazione dell’inconscio. Riflessioni su un paradosso sovversivo, Riv. Psicoterapia Psicoanalitica; 2, 33-54, 2013.
FREUD, S. (1892-95). Studi sull‘isteria. O.S.F., 1
FREUD, S. (1910). Psicoanalisi “selvaggia”. O.S.F., 6
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FREUD, S. (1915-17). Introduzione alla psicoanalisi. O.S.F., 8
GAULT, J. L. (2003). La concezione psicoanalitica del sintomo, La Psicoanalisi; 33, 189-198, 2003.
LACAN, J. (1953-54). “Gli scritti tecnici di Freud” in Il Seminario, Libro I. Einaudi, Torino, 1978
LACAN, J. (1955-56). “Le psicosi” in Il Seminario, Libro III. Einaudi, Torino, 1985
WIDLÖCHER, D. (1996). Le nuove carte della psicoanalisi. Borla, Roma, 2004

5 comments to “Come cura la psicoanalisi”
  1. Articolo chiaro e, paradossalmente visto il tema, di alto valore scientifico.
    L’Autore, oltre che “autorizzato” a praticare la psicoanalisi, è ormai “autorizzato” a scriverne con la precisione e la competenza proprie solo di un esperto clinico e abile studioso.

    • Si perché, nel nostro campo -che non è quello delle scienze esatte- esiste tuttavia la pretesa di uno scientismo – effetto del discorso dell’Università- che ridurrebbe il Soggetto umano a oggetto misurabile e omologabile ad un modello standardizzabile e ideale di salute, ed invece una scienza della soggettività, la psicoanalisi, che si dà come scienza proprio in quanto, postulato l’Inconscio freudiano riconosce che il Soggetto è tale proprio in quanto è non tutto, non tutto misurabile e dunque da dover essere per forza considerato uno per uno. Questa è la scienza della psicoanalisi, quella che riconosce il principio della nominazione (ognuno va riconosciuto nel suo nome) e non quello della numerazione. E che riconosce l’episteme nel transfert e non nella classificazione diagnostica. Eppure, come dicevo, esiste un movimento scientista, in seno persino alle comunità psicoanalitiche, che vorrebbe fare della psicoanalisi una scienza esatta e ridurla ad una psicoterapia come qualunque altra, al punto da sostenere che “dove si fa psicoterapia si fa anche psicoanalisi’.

  2. Lavoro che affronta la specificita’ dell’analisi in modo chiaro, con una spiegazione non comune di chi e’ il Soggetto dell’analisi, dei cambiamenti culturali della nostra epoca che ha portato a sintomi diversi con modalita’ difensive che non sono più’ semplicemente la rimozione ed eccezionale la puntualizzazione della ” firma”.

    • “Un soggetto è colui che sostituisce le sue tracce con la firma”. È questa, a mio avviso, una delle più abbaglianti definizioni di Lacan su cosa sia un soggetto.
      Quanti oggi possono dirsi di essere veramente in grado di sostituire le tracce ambigue della propria esistenza con quella firma che li costituisca come soggetti riconoscibili e responsabili?
      Non è forse proprio questo a cui conduce un’analisi? E dunque, “arrivare a saperci fare con il reale”, come si dice a proposito della conclusione di una analisi, non significa forse trasformare una traccia di sé (il sintomo) nella propria firma (il sinthome)?

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