Capovolgere la prospettiva

Capovolgere la prospettiva - Escher, Plane filling III

Come evitare di essere mangiati (commento a un saggio di Viveiros de Castro)

Il saggio su Immanenza e paura, di Eduardo Viveiros de Castro [1] descrive con grande efficacia il timore numinoso dell’alterità in un universo animato dalle molteplici forme di ‘cattura’ con cui l’umano può essere ‘divorato’ da ciò che è a un tempo umano e non umano.

Già in Metafisiche Cannibali che presto uscirà in italiano per Ombre Corte, de Castro sottolineava che mentre in Occidente la natura è considerata una cieca base materiale dalla quale si differenziano coscienze e culture, nell’ethos amerindiano il fondamento evolutivo comune a uomini, animali, morti e altre presenze è l’‘essere vivi’ che in quanto tale è una ‘presenza’ assimilabile alla coscienza ‘umana’, mentre ciò che si differenzia è la natura. Il cogito cartesiano è rovesciato: ogni cosa che esiste (e che si nutre) pensa [2]. Tutto ciò che è animato per vivere “mangia”. Gli umani restano tali – a differenziarsi sono gli animali, gli ex umani. Possiamo avvicinarci alla questione pensando che, in ciò che ci accomuna ad altre specie (nell’incorporare l’altro per sopravvivere), ci sia una forma di invisibile intenzionalità che è già coscienza. Essere e molteplicità sono profondamente implicati. Viveiros de Castro prosegue così la revisione antropologica della grande divisione Cultura/Natura, revisione che interpella criticamente anche le eredità strutturaliste della psicoanalisi.

In ogni caso l’“umano” per gli Amerindiani è una dimensione originaria e condivisa da ogni cosa animata. Anche se tende in ultima analisi a un equilibrio sistemico, in prima battuta l’animismo è anche “nemicismo”. L’Altro è sempre un Aliud pericoloso e va confrontato per evitare di essere incorporati. Restando comunque consapevoli di incorporarlo anche noi ad ogni pasto. In ogni caso l’assunto indigeno è una matrice (trans)umana che sta alla base della differenziazione delle molte forme della natura. In tal modo, l’altro è sempre un attore presente a pari titolo nel multiverso. Questo dice il “multinaturalismo” indigeno (contrapposto al nostro “multiculturalismo”): la differenziazione nasce da una ‘presenza’ che è a un tempo soggettività ermergente, sguardo dell’Altro su di sé e circolazione dell’alterità. Oggi le neuroscienze sembrano dire qualcosa di simile quando spostano sempre più ‘in basso’, verso il tronco encefalico, le basi della coscienza affettiva. Per non parlare delle affermazioni panpsichiche dei fisici quantististici.

Proverò a dar conto di alcuni dei temi delineati da de Castro per poi evidenziare la loro rilevanza nella ‘costellazione’ del presente.

Nel mondo amerindiano (e non solo) ogni cosa è non solo animata ma portatrice di una gestalt attiva e condivisa anche se sovente simmetricamente escludente, portatrice di una soggettività latente e divorante. Nello sguardo della pantera l’uomo non è visto come umano ma come animale, come un cibo delizioso, proprio come noi non vediamo che una bella bistecca in ciò che stiamo per mangiare.

Cito Viveiros de Castro: «Qui ci avviciniamo a una delle origini della paura metafisica Amerindiana. È impossibile non essere cannibali; ma è ugualmente impossibile stabilire una relazione univocamente cannibale con un’altra specie. Ogni cosa che viene mangiata nel mondo amerindiano è “cibo-anima” e dunque minaccia la vita: coloro che divorano anime saranno divorati da anime (…) L’incertezza include il soggetto, in altre parole include la condizione di soggetto dell’attore umano esposto alla radicale alterità di queste “altre persone”, persone che come chiunque altro proclamano per sé un punto di vista sovrano. Avere occhi diversi non significa vedere “le stesse cose” in un “modo” diverso; significa che non sai cosa l’altro vede quando “dice” di vedere la stessa cosa tua.» [corsivo mio]

Forse che la capacità negativa di Keats-Bion è in fondo da subito implicita in questo ethos? Detto altrimenti come si trasforma quello che noi chiameremmo sospetto paranoide nei confronti dell’altro? Sottolinerei, innazi tutto, come il registro della paura nell’esperienza amazzonica venga sempre esperito come un regime “soprannaturale”, e questo implica una sfida “numinosa” con l’alterità. Gli altri “esseri” a prescindere dalle nostre categorizzazioni oggettivanti sulle caratteristiche e sui comportamenti delle specie animali sono anche “spiriti” (immanenti/presenti) e come tali possono assumere una prospettiva dominante e divorante sottomettendo l’umano alla propria definizione di realtà, volta a ridefinirlo, magari assimilandolo come ‘partner sessuale’ o ‘figlio’. «In ogni caso «la Super-natura è la forma dell’Altro come Soggetto, che implica un oggettivazione dell’ “Io” umano come un “tu” per questo Altro (…) Utilizzo questo termine per indicare una situazione in cui il soggetto di una prospettiva o “sé” viene improvvisamente trasformato nell’oggetto della prospettiva di un altro essere»
Il confronto con questo Altro numinoso tuttavia non va idealizzato. Mi sembra altrettanto efficace l’intuizione di Viveiros che questa “cattura” possa rappresentare una proto-esperienza indigena della presa in carico biopolitica.   «Vorrei suggerire che il vero equivalente della “categoria indigena del soprannaturale” non ha a che fare con le “nostre” esperienze straordinarie o paranormali (rapimenti da parte di alieni; esperienze extra-sensoriali, medianità, premonizioni) ma con l’esperienza quotidiana, perfettamente terrificante nella sua normalità, di esistere sottomessi a uno Stato». Uno Stato certamente diverso dalla polis ideale arendtiana…

«Il famoso poster dello Zio Sam con il dito puntato che guarda in faccia chiunque permetta allo sguardo di essere catturato è per me la perfetta icona dello Stato: “Ti voglio”. Un indiano dell’Amazzonia capirebbe immediatamente di che sta parlando questo spirito malvagio, e facendo finta di non sentire guarderebbe dall’altra parte.»

La percezione dell’Alterità oscilla allora tra una improvvisa e divorante “inclusione escludente” e l’attivazione di risorse e forme di percezione e coscienza resistenti, legate all’esperienza di una divorante interdipendenza del mondo fenomenico. Un’immanenza che rivela, tuttavia, anche inedite possibilità. Per gli amerindiani siamo tutti cannibali perché ogni cosa mangiata ha un’anima, una forma, un suo invisibile divenire e un doppio umano che la accompagna. Come nelle Upanishad («Io, mangiatore di cibo sono anche cibo») questa prospettiva può però aprire su un paradossale abisso vitale e riconnettere a una logica di resistenza ecosistemica ed eco-spirituale. Il Grande Altro in questo mondo immanente non monoteista non si ritira nel vuoto del gioco significante e nelle metafore concettuali, ma si manifesta nella coscienza avvertita, in un timore sacro delle presenze e anche nella capacità di articolare un campo – quello della parentela e del gruppo – in cui – sia detto per inciso – le dinamiche della divorazione sono escluse. In ogni caso, «il mondo dell’umanità immanente è anche il mondo della divinità immanente, un mondo in cui la divinità è distribuita sotto la forma di una potenziale infinità di soggetti non umani.»

In un altro ciclo di conferenze del 1998 pubblicate col titolo Cosmological perspectivism in Amazonia and elsewhere [3], Viveiros de Castro entra nel merito di come la paura si trasforma grazie a un istantaneo qualitativo capovolgimento di prospettiva, là dove si rivela «l’implicata indecidibile coesistenza di due prospettive, ognuna delle quali per essere visibile nasconde l’altra, come quelle figure-sfondo reversibili che ben conosciamo…»

L’incontro simultaneo di due prospettive che nel loro fulmineo costellarsi genera un cambiamento qualitativo non può non ricordarci quella paradossale dialettica immobile di Walter Benjamin («immagine è la dialettica in stato di arresto») legato all’emergere di una fulminea “immagine autentica”. Il genere di immagine in cui sintomi storici riemergono con forza ‘perturbante’ e che ci convoca a un appuntamento segreto tra le generazioni. Se per Benjamin la dialettica è «l’arte di esperire il presente come il mondo della veglia al quale quel sogno, che chiamiamo passato in realtà si riferisce [4]» già si delinea un rapporto simmetricamente generativo tra le prospettive del mondo onirico (e della rammemorazione!) e quelle del mondo del risveglio.

Nella metafisica amerindiana l’alternanza consapevole di figura/sfondo è la cifra segreta del lavoro sciamanico e la base di ogni trasformazione. L’epistemologia indigena si dimostra così ben lontana dallo strutturalismo prevalentemente inconscio di Levi-Strauss.

È il tema cruciale della “reciprocità delle prospettive”. Roy Wagner, un grande sodale di Viveiros trova conferma delle sue considerazioni amerindiane nelle narrazioni metafisiche della Melanesia. Wagner ci ricorda che i Barok della Nuova Irlanda chiamano questa reciprocità pire wuo, (“transformazione del punto di vista”), trasformazione che avviene grazie a un «completo e radicale rovesciamento di figura/sfondo, rovesciamento in cui si radicano cosmologia, epistemologia, ideologia e forme sociali». I Tolai della Nuova Brittania la chiamano tabapot. Dicono: “Quando guardi un albero in cui le foglie disegnano un volto umano contro il cielo e poi vai avanti e indietro nel gioco dell’immagine – volto-albero, albero-volto e così via quello è un tabapot. L’uomo stesso è un tabapot, perchè i suoi desideri sono contenuti un una forma, e tuttavia egli vuole ciò che si trova al di fuori di quella forma. Quando la ottiene però, desidera ritornare nuovamente alla sua forma umana” (Rodney Needham, citato da Roy Wagner nell’introduzione a Cosmological perspectivism). David Guss (1989) decrive quello che dicono gli Yekuana dell’ Orinoco. Per loro il gioco tra figura e sfondo costituirebbe una elisione radicale della metafora, considerata  fonte di ogni malinteso e inganno. «Come il tipiti viene utilizzato per estrarre ed eliminare l’amaro acido prussico dalla manioca per renderla edibile, così l’applicarsi umano al gioco di ribaltamento tra figura e sfondo nelle sue molteplici forme, elimina la mezza verità della metafora che è il veleno della mente.» (ibid.) Quando gli opposti effettivamente entrano in contatto non vi è complementarietà ma trasformazione.

Un ultimo esempio citato da Roy Wagner è il seguente mito che evidenzia la trasformazione di un doppio registro paralizzante in una paradossale e inaspettata apertura. Bateson avrebbe approvato.

«Il mitico serpente marino dei Kwakiutl si chiamava Sisiutl, un mostro con un corpo di serpente e due teste. Quando vedi un Sisiutl che passa al largo esso ti noterà a sua volta, ti percepirà come preda e tenterà di divorarti. A quel punto devi affrontare la tua paura e restar fermo perché mentre il sisiutl si avvicina deve portare ognuna delle sue teste dai due lati intorno a te e quando ciò accade è costretto a guardare involontariamente nei propri occhi. Orbene ogni creatura in grado di guardare nei propri occhi è colpita da una profonda saggezza, si rende conto che non ha bisogno di mangiarti e si allontana lasciandoti un dono…» (ibid.)

Le opposizioni binarie in questione possono applicarsi a tutte le dicotomie implicate che se ben nominate e riconosciute nella loro interdipendenza rivelano pluralità frattaliche…. (inanzitutto il gioco tra caos e ordine ma anche: soggetto/oggetto, natura/cultura, conscio/inconscio, emisfero destro/sinistro, uomo/donna, medesimo/altro e così via). Una sorta di capacità negativa sembra essere il fondamento di una de-letteralizzazione delle metafore concettuali che organizzano in modo rigido una singola prospettiva….una mezza verità.

Le metafore stesse devono elidersi o essere viste nella povertà del loro ‘appetito’ esplicativo (parole che mangiano altre parole) e paradossalmente tautologico. «I Rauto, che vivono sulla costa merdionale della Nuova Britannia, considerano l’espressione aperta di una metafora come una cosa infantile indegna di attenzione adulta.»Wagner cita il lavoro di Thomas Maschio To remember the faces of the dead (1994), in cui si descrive il concetto Rauto di makai, in cui un adulto responsabile deve resistere alla tentazione di trasformare un improvviso insight in metafora, riponendo invece l’insight in pensieri più ampi sino a che esso non vi si “collochi”. Allora vi si può attingere attraverso la rammemorazione. La cosa più interessante è che questo processo silenzioso permetterebbe di «ricordare il volto dei defunti»! [5]

Come riflettere allora sulla crisi attuale delle coscienze occidentali alla luce di questo testo? Il “sovranismo” contemporaneo seppure in forme di adesione identitaria difensiva non rimanda forse al punto di vista sovrano di ogni essere di cui parla de Castro? E che dire dell’attuale esplosione di “trolling” on-line o della vis affettiva a tonalità paranoide in cui l’amore per il “proprio” si definisce a partire dalla definizione di un “altro” nemico? Che (non)senso potremmo ridare alla diffusissima pulsione divorante di affermazione, alla coazione a rendersi sempre visibili, trasparenti (con speculare proliferare di narrazioni del segreto e del complotto)? E che dire dell’eccesso di comunicazione, dell’adesione identitaria e ideologica alla propria conventicola gruppale o disciplinare (salvo poi frammenatarla in quel narcisismo infinito delle piccole e grandi differenze che ci caratterizza)? Non assistiamo forse al riemergere di un gioco complesso di soggettività divoranti? A un grado zero della cosa, però, senza alcuna consapevolezza ecologica. Nulla di nuovo? In fondo l’Occidente da secoli “divora” – questa è la qualità delle società “calde” diceva Levi-Strauss. Tuttavia oggi, nella piccola Era del risentimento, l’inconscio cannibale dell’occidente sembra esprimersi sempre più in una escalation individuale del diritto umano alla sopraffazione.

Potrebbe allora essere sincronica (figura/sfondo, figura/sfondo) l’emergere di questa cosmovisione amerindiana che nella sua relazione con la vulnerabilità umana non solo tende a un equilibrio ecosistemico (una oscillazione negoziale con l’invisibile pulsionale) ma esprime anche a una raffinata strategia di conoscenza che desta meraviglia.

 

 

 

 

 

Liqen –  murales (particolare), Dulwich, London 2013 

Note:

[1] “Immanence and fear: Stranger-events and subjects in Amazonia” Journal of Ethnographic Theory Vol 2, No 1 (2012)

[2] «Essere è il nome che diamo alla madre di tutte le creature» – Laozi – Tao Te Ching

[3] Eduardo Viveiros de Castro Cosmological Perspectivism in Amazonia and Elsewhere, Four Lectures given in the Department of Social Anthropology, University of Cambridge, February–March 1998, – disponibili in rete

[4] nella sezione N delle note preparatorie per il libro incompiuto sui Passages de Paris, Benjamin, 1997

[5] Sul rapporto tra elaborazione del lutto ed epistemologie immaginative vedi anche il mio Approdi e Naufragi – Resistenza culturale e lavoro del lutto (Moretti e Vitali 2016).

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