L’ambigua complementarità delle figure di genere

L’ambigua complementarità delle figure di genere

L’amore è fusione assoluta, al di sopra di ogni differenza: è il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. (Sibilla Aleramo)

Nel saggio Una stanza tutta per sé, Virginia Woolf confronta le conversazioni tra amici prima e dopo la guerra. I commensali avrebbero detto le stesse cose, ma sarebbero apparse diverse perché accompagnate, in passato, da un “ronzio inarticolato eppure musicale, eccitante”: e cioè l’illusione amorosa, quando ancora non si pensava a un sesso indipendentemente dall’altro. A segnalare che “qualcosa mancava” è il passaggio di un “gatto senza coda”. È come dire che il bisogno di interezza dell’individuo – corpo e mente, sentimenti e ragione – fa fatica a sciogliersi dalle identità di genere, così come sono state costruite, fatte per completarsi a vicenda.

Non dobbiamo dimenticare che le figure di genere strutturano rapporti di potere ma anche l’amore come ideale ricomposizione dei due rami divisi della specie umana.

Ho sempre avuto grande interesse per quei pensatori che, sia pure inconsapevolmente, lasciavano trapelare le ragioni profonde del dualismo sessuale, le lacerazioni che apre nell’individuo di un sesso e dell’altro. Sono stata attratta da esperienze che permettevano di far luce sul rapporto dell’uomo-figlio col corpo della madre, su un processo di individuazione vissuto come fuga, differenziazione dal femminile, in cui potevo riconoscere per certi aspetti anche il mio percorso di figlia femmina che ha potuto studiare, prospettarsi un destino diverso da quello previsto per una donna.

Il fatto che si trattasse di autori che parlavano del dualismo in modo neutro mi permetteva di operare una sorta di “maieutica”: rivelarli a se stessi, spingerli a prendere coscienza del loro essere sessuati. Mi sono accanita, in altre parole, perché gli uomini “partorissero” il loro corpo, esprimessero sentimenti e emozioni. Sappiamo bene quanto sia ancora forte la tentazione delle donne di addolcire, piegare la durezza o l’astrattezza maschile: cambiare l’uomo, anziché se stesse. Se nei rapporti di coppia questo atteggiamento può portare sofferenze e conflitti, quando si tratta di scritture la situazione è molto diversa.

Nelle parole dell’altro – anche quelle più segnate dal sessismo – posso riconoscere una rappresentazione del mondo che è diventata, forzatamente o meno, anche la mia; posso esserne attratta fino a ricalcarla, per poi tracciare quel leggero solco che mi permette di guardare con occhi disincantati la posizione dell’altro e la mia.

In un duplice movimento si combinano la fusione amorosa, che procede ciecamente e dietro spinte remote, e lo sguardo lucido della consapevolezza acquisita.

Confrontarmi con il pensiero di un uomo consapevole di che cosa ha significato storicamente, e nella sua esperienza, la virilità, mi dà una soddisfazione intellettuale enorme, simpatia, affetto, speranza che qualcosa possa cambiare nel rapporto tra i sessi. È, in sostanza, quello che vado chiedendo da anni alla cultura maschile: che gli uomini smettano di “occuparsi delle donne” e facciano “autocoscienza”.

Ma la domanda a questo punto è: quali forme nuove può prendere l’amore, quando uomini e donne non si muovono più dentro la logica degli opposti, della complementarità, dell’indispensabilità reciproca? Come possono stare insieme libertà, consapevolezza di sé, amore? Soffermarsi sulle contraddizioni, inevitabili in questa fase di passaggio, è importante per evitare che le consapevolezze nuove restino ferme ai buoni propositi o ad atti volontaristici.

Una volta presa coscienza dell’aspetto coercitivo e alienante degli stereotipi di genere, bisogna capire perché hanno messo radici così profonde dentro di noi, da dove hanno origine, perché compaiono così precocemente nella vita degli individui. Io penso che il dualismo sessuale – e tutte le dualità che vi si sono costruite sopra – abbiano una preistoria, non ancora indagata a fondo, nel rapporto dell’uomo figlio col corpo materno, una vicenda che si dà all’origine di ogni individuo, ma che tende a prolungarsi oltre misura per effetto della storia che vi è andata sopra: l’identificazione della donna con la madre e con l’oggetto sessuale.

Si può ipotizzare che, nell’attribuire alle donne come destino naturale la sessualità e la maternità – perché questo è il retaggio della cultura greco-romana-cristiana –, l’uomo abbia fissato l’esperienza che ha fatto da bambino rispetto al corpo che l’ha generato. Le cure e le sollecitazioni sessuali che ne ha avuto. La figura della donna come corpo erotico e corpo materno si disegna prima di tutto nell’immaginario della nascita. È il figlio a percepirne la potenza, l’uomo adulto a capovolgere il rapporto di dipendenza originario, a sottomettere e volgere a proprio vantaggio le attrattive che ha visto nella donna.

Se la sessualità maschile appare così “misera”, come sottolinea spesso Stefano Ciccone (Essere maschi, Rosenberg &Sellier 2009), ridotta a consumo, prestazione, è anche perché l’uomo ha spostato sulla donna la possibilità di piacere, di essere desiderabile – la sua stessa sessualità – riservando a sé la forza (potere, denaro) per riappropriarsene. Questo apre per le donne la possibilità di avvalersi delle loro attrattive come potere e valore proprio da far riconoscere. Ciò significa che nelle figure ricorrenti, intramontabili, del femminile – la seduttrice, la madre – ci sono inscritte sia la potenza che l’uomo ha visto nel corpo della madre, sia la sua svalutazione e sottomissione.

One comment to “L’ambigua complementarità delle figure di genere”
  1. Perché la donna accetta questo capovolgimento, riducendo la propria potenza originaria a un potere invisibile ma condizionante, sull’uomo? Quando sono stata gravida ho sentito molto questa pienezza fisica e psichica che mi procurava un grande benessere. Poi, dopo il parto, la gioia ma anche la fatica e forse lì comincia il ‘ruolo’. In una società che ti riconosce di più come madre , non ci rinunci e quindi da una parte sei esclusa dal mondo ma da un’altra escludi chiunque si intrometta tra te e il/ la figlia. È difficile affrontare le critiche di chi, anche affetti familiari, non ti giudica una buona madre perché non rinunci alla complessità di quello che sei. È una libertà difficile da praticare ma è stato per me possibile, pur tra mille ondeggiamenti. La mia è solo una parziale risposta alla domanda iniziale che non confligge con l’ipotesi di Lea che descrive, a mio avviso, soprattutto le cause del comportamento maschile.

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