(Quinto Aurelio Simmaco, Relatio de ara Victoriae)
La fabbrica dei mondi. Geografie immaginate e territà di Matteo Meschiari, edito da Piano B, è un plico, sporco di terre, pieno di dispacci dall’Antropocene, «una raccolta di reperti anomali per raccontare la nascita di un immaginario, i frammenti di una mappa in fiamme, una via che si apre» (p. 132). I dispacci sono messaggi della massima importanza da trasmettere con la massima urgenza. Per questo nel passato erano affidati a corrieri che a piedi o a cavallo, e poi in moto o in aereo, si affrettavano a consegnarli dal centro di regni e imperi alle più lontane periferie, o viceversa dai confini sperduti al cuore dello Stato. Viene in mente Marco Polo, il viaggiatore visionario le cui parole intrecciano più mondi tenendo in scacco il collasso: «Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti».1 Grazie a questa sua abilità odeporica Marco Polo è l’agente fidato del Gran Khan:
«Marco Polo si mise in viaggio. Le strade si dipartivano in ogni direzione. Ogni venticinque miglia si trovava una posta. […] Fra due stazioni, ogni tre miglia, erano piccoli centri in cui abitavano i messi appiedati del grande khan. Correvano per le strade vestiti leggermente e avevano campanelli alla cintura. E questi messaggi vanno al gran galoppo […] et è una piccola carta ch’egli dona quel messaggio».2
Anche il libro di Meschiari è una piccola carta, un agile libello di 172 pagine, 13 x 19 x 1,3 cm, che entra agevolmente nella tasca dei pantaloni o della giacca e può quindi essere portato con sé. Deve essere portato con sé, mentre si esce da casa, mentre si cammina. Mentre si osserva ciò che ci sta intorno e mentre si pensa a ciò che non vediamo. È lo strumento essenziale per il viaggio, come la mappa del Padre per il mare a sud nella Strada di McCarthy o il pan di via degli elfi silvani nel Signore degli anelli. Non è solo questione di formato e pragmaticità, non è solo l’invito a un utilizzo peripatetico, ma è l’indicazione di un metodo di ricerca-azione sul campo che Meschiari persegue da tempo con coerenza e convinzione: la biblioteca non è una suppellettile da salotto su cui raccogliere comodamente polvere e cenere mentre civiltà si erodono e mondi bruciano. È un veicolo portatile, agile e resiliente di esplorazione e sopravvivenza. Lo strumento più utile da sfoderare proprio nel momento in cui non c’è più nulla da fare. Se ci va bene il divano sopra cui fare finta di essere già morti o se, dopo la prima occhiata distratta, ci va bene il mondo così com’è, questo libro non fa per noi. È un breviario affinché inventare mondi possa diventare una nostra abilità. L’esergo di Ursula LeGuin non lascia scampo: «If inventing a world isn’t your thing, OK» (p. 7). Per allenare questa abilità occorre praticare l’attività fondativa e generativa che ha inaugurato la nostra stessa specie e innescato tutte le evoluzioni successive ancora in corso: alzarsi in piedi e camminare lungo la terra fino ai suoi estremi confini tenendo gli occhi bene aperti, come un altro esergo geomanticamente consapevole ammonisce: «Guarda a tutt’occhi, guarda – Jules Verne, Michele Strogoff».3 Michele Strogoff è il capitano dei corrieri dello Zar e il messaggio imperiale che deve recapitare nella città di Irkutsk in Siberia, può salvare non solo la vita del fratello dello Zar, ma la città tutta e l’intera regione dalla rivolta dei tartari. I dispacci raccolti da Meschiari, però, non provengono dal centro dell’impero e neppure da regioni remote. Sono dispacci dal tempo profondo: «L’Antropocene ci manda dispacci dal futuro attraverso indizi sparpagliati nel presente. Tracce periferiche di una deflagrazione invisibile» (p. 157). Tenendo gli occhi aperti, seguendo la pista di queste tracce e raccogliendo lungo il percorso dettagli e detriti, Meschiari compone la sua Fabbrica dei mondi come un legendarium del nostro mondo, una raccolta di visioni e di spettri terricoli ma anche di strumenti dell’immaginazione utili a creare mondi abitabili. Utili a chi?

Nella prima pagina della premessa – Notturno terrestre – Meschiari evoca “un Sapiens, nell’occhio del ciclone sociale e cognitivo, che si china sulle ombre di una candela, e resiste” (p. 9). Siamo quindi tutti noi, Simmaco, il partigiano Johnny, Bobby Western, Theodore Kaczynski. Ma è l’ultima figura che sembra emblematica e riecheggia forte come un ringhio coraggioso nella memoria collettiva e personale. Il feral child. Il bambino selvatico. È il Bambino della Strada, il nuovo Perceval del Desolato Olocene, la fiamma incarnata del cambiamento che vive nei boschi oltre il mondo e il tempo conosciuti ed è vestito da pazzo per proteggersi dalle ragioni sbagliate. È Kamandi, l’ultimo ragazzo su una Terra post-apocalittica dominata da animali senzienti. È Gabriel-Ernest, l’incredibile giovane selvaggio che infesta il bosco come un fauno del mito pagano con un bagliore di tigre negli occhi e zanne scintillanti. È Rosso Malpelo, il bambino selvatico dell’Antropocene, sfruttato dagli adulti, esiliato dalla propria famiglia e dal proprio futuro, incatenato alla violenza della miniera e alla sciara dell’humanitas, è l’unico a osservare tutto, gli animali e il paesaggio, la sopraffazione e la desolazione, e cerca la propria via, scava nella terra alla ricerca di un destino diverso, per riesumare il fossile del padre un pezzo alla volta, bramoso di ricordi e terrorizzato dai ritrovamenti, attirato come una falena dai fuochi fatui e dagli spettri del progresso. «L’Antropocene è un racconto fatto di rovine attive […] nei momenti di crisi la nostra specie ritorna sempre e ancora alla Terra, al pensare e immaginare la Terra come atto di sopravvivenza e rifondazione» (p. 12). Il feral child sono tutti i nostri figli per i quali il nostro mondo non è più un giardino ospitale, neppure più per finta come per la maggior parte dei bambini è sempre stato. Ora la miniera senza umanità è nuda ed è impossibile non vederla. Ed è infestata dai feral ghost dell’Antropocene. «L’idea è che i fantasmi della notte dei tempi siamo noi» (p. 11). La cassetta degli attrezzi per l’immaginario è per questi nuovi bambini selvaggi affinché non si smarriscano nei meandri della nostra miniera. I ragazzi di un mondo impensabile. «L’immaginario, dice Bureau, è un sentiero che nasce dal passo, perché il notturno è il non-visibile per eccellenza» (p. 12). Le previsioni, le vecchie mappe, le strategie del passato diventano inutili, se non mortali… occorre quindi camminare nell’oscurità e sperimentare strategie, mappe e previsioni mai concepite prima.
Un’altra sublime incarnazione di feral (ghost) child che appare “nel notturno aborigeno” (p. 11), nello “humus per far germogliare la visione” (p. 11) sul ciglio tra Wonderland e Apocalisse, tra (lucida?) follia e ragione (oscura?), è Alicia Western:
«Nella notte era scesa una leggera nevicata e i suoi capelli ghiacciati erano aurei e cristallini e i suoi occhi gelidi e duri come pietre. Uno degli stivali gialli le si era sfilato e spuntava dalla neve sotto di lei. La sagoma del cappotto impolverata di neve si disegnava dove l’aveva lasciato cadere e vestita solo di un abito bianco lei pendeva tra i nudi e grigi tronchi degli alberi invernali con il capo chino e le mani leggermente rivolte all’infuori come quelle di certe statue ecumeniche la cui postura chiede che ne venga contemplata la storia. Che vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature».4
Il cacciatore che la trova e si inginocchia e cerca una preghiera impossibile sono Novalis, Meschiari e gli autori-«scout in avanscoperta tra la wilderness dei tempi» e dei significati (p. 12) e siamo noi lettori che cerchiamo «una chiave di acciaio, un anello d’oro bianco»5 nella neve e nel vento, cerchiamo chi siamo, come possiamo essere qui insieme e perché è più utile, più giusto, più bello e più vero esplorare insieme e rincorrere queste immagini in movimento in un bilderatlas vivente che conducono tutte alla grotta primordiale delle prime forme impresse da homo sulla pietra, sulla voce, sulla luce, sulla mente, sulla carne. Sulla Terra. «Percorrerla, pensarla, immaginarla, forse raccontarla, potrebbe essere l’unico vero modo per salvarsi» (p. 14). Meschiari propone di tornare alla Terra intesa «come un grande animale del Tempo di cui restano solo le ossa […] fatta di carne ma anche di idee» (p. 14) attraverso la territà che è «Rito, Mito, Sacro […] Collasso, Antropocene, Apocalisse» (p. 12).
I basilari ferri archetipici di questo mestiere di ricerca, ricomposizione e re-immaginazione per il fango, il futuro e la salvezza, il «survival kit narratologico» (p. 10) del mondo a venire di questo homo terrestris scandiscono i cinque capitoli del libro: Dopo il collasso, Wordbuilding, Terraforming, Utopie cannibali, Lasciare la distopia. Ogni capitolo mette in reazione una coppia di scrittrici o scrittori: Calvino e Pasolini nel primo, Shepard e Vollmann nel quarto e Pugno e Pariani nel quinto. Worldbuilding e Terraforming invece sono dedicati rispettivamente a Tolkien e McCarthy, la cui forza intrinseca e importanza relativa nella riflessione di Meschiari devono aver ampliato inevitabilmente lo spazio necessario all’approfondimento fino a far conquistare a ciascuno di loro un proprio capitolo.
Danzare con l’iperoggetto
In Dopo il collasso – un lampo di lucciole, l’epifania terrestre del tempo, il balzo ancora una volta oltre la faglia – Meschiari convoca il Calvino saggista e romanziere del Mare dell’oggettività e di Palomar, per lo sguardo e lo scandaglio della superficie delle cose, la descrizione speculativa e l’approccio metonimico alla presenza ineludibile del reale al di là della soggettività e centralità dell’uomo sommerso dalla complessità del labirinto delle cose dell’iperoggetto mondo.
«Non da ieri ci siamo fatti una regola del cercare anche nei testi più lontani le ragioni del brulicante o del folto o dello screziato o del labirintico o dello stratificato, è diventato necessariamente complementare alla visione del mondo che si vale di una forzatura semplificatrice, schematizzatrice del reale. Ma il momento che vorremmo scaturisse dall’uno come dall’altro modo di intendere la realtà, è pur sempre quello della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni».6
Meschiari convoca contemporaneamente il Pasolini critico militante e visionario dell’Articolo delle lucciole (Il vuoto del potere) e di Petrolio, che vede con chiarezza lo svolgersi della catena ciclica dei collassi: dal pericolo costituito dalla natura si è passati con estrema arroganza al pericolo costituito dall’uomo, il cui bluff del progresso tecno-economico lineare è svelato infine dall’eterno ritorno al limite invalicabile della natura, ben noto a miti, tabu e civiltà native di ogni angolo della Terra. Questa consapevolezza nella persistenza di verità della mitopoiesis arcaica che si incarna ancora in caorpi – caos di corpi e corpi nel caos –, idee, terre e storie, fa scaturire un riso dissacrante e sacro come la danza-distruzione di Shiva. Il mondo contiguo all’Apocalisse, sia al di qua sia al di là, è una stratificazione vivente dei collassi e delle rinascite, la Terra stessa è un groviglio di fasce di crisi e rivelazioni, la Territà è quindi forse questo scorrere di spire della fine, il serpente norreno che abbraccia e stritola il pianeta e il tempo e sempre ritorna su stesso dispiegando di nuovo il tempo e il pianeta. Come un rotolo di papiro. Come un libro. Come una lingua di Terra che narra di mondi. Al «paesaggio/corpo-senz’organi» (p. 27) di Pasolini sembra succedere lo stesso destino di Rosso Malpelo: escluso si inselvatichisce, attraversato da sguardi e racconti si fa penetrazione e mito. L’anelito all’appaesamento e il going feral individuali, collettivi, ecosistemici come divergente tensione evolutiva per sopravvivere al deserto della distopia, al Wasteocene dell’oggettività senza storie, senza forme, senza spazio, senza futuro, «tra evoluzione e de-evoluzione, tra civilizzazione e barbarie, tra progresso e collasso» (p. 26). Gli sguardi dei due autori sono le due lenti che servono a scorgere e scandagliare la doppia faglia che squassa la contemporaneità con la «crisi antropocenica, dove collasso ambientale (il crollo dello spazio) e collasso cognitivo (il crollo del tempo) sono facce di un’unica medaglia» (p. 23). Ma i «crepacci [sono] come scaglie di una pigna»,7 o le ceneri-concime del brush o gli spettri-speranza delle lucciole estinte, i collassi possono ancora nascondere i semi di alberi futuri e consentire la «rivincita del Tempo che da lineare e storico diventa circolare e mitico, dunque […] capace di immaginare quella che Didi-Huberman chiama la “conflagrazione” salvifica “di un presente attivo con il suo passato reminiscente”» (p.29).
Sembra che la prima qualità necessaria per fabbricare futuri mondi possibili perché «riavvia la ruota del Tempo, partendo dalla Terra sotto i piedi» (p. 31) sia una Geo-Crono-Grafia che applichi contemporaneamente al tempo e alla terra, così come al corpo e al paesaggio, alla realtà della cronaca e all’immaginazione dei miti, la furia e lo scandaglio che i Titani esercitano nel fare a pezzi Dioniso e la cura e la visione che Apollo mette nel ricomporre i frammenti dispersi del fratello, così come ricorda Franco Farinelli nella sua Geografia. L’Ethos e il Pathos che Didi-Huberman scorge nella soprav-vivenza dell’antichità in Warburg, «l’immagine dei secoli»8 che Culianu scorge nel gioco magico del dio bambino Dioniso, ennesima incarnazione del feral child, la danza delle agentività che Andrew Pickering scorge tra umani, rocce, gatti, stelle e camere a bolle.9
Feericità
Il secondo capitolo è dedicato a Tolkien e alla Contea, come se la creazione stessa dell’autore fosse una persona-autore in sé. La capacità essenziale per coltivare Territà è infatti il Worldbuilding, inteso come «arte narrativa, elaborazione di racconti nella forma primaria e più pregnante»,10 come ecosistema autonomo in grado di forgiare silmaril, i tre artefatti viventi alimentati dalla luce intrecciata dei due Alberi di Valinor, che proiettano la luce delle stelle in sfumature meravigliose anche nella tenebra più profonda, così come narrato nel Silmarillion. «Il paesaggio genera di per sé racconti» (p. 35) e i racconti sono a loro volta paesaggi che generano ancora racconti, in un prisma organico le cui immagini sono tutte sullo stesso piano di realtà, sono tutte «un’eco dell’evangelion nel mondo reale»11 e «tutte le narrazioni si possono avverare».12Meschiari sottolinea che, per Tolkien, «la trasposizione leggendaria non è un’alternativa alla realtà dell’uomo ma è quella stessa realtà in un altro ordine di verità» (p. 36),
«un ecosistema narrativo in cui i luoghi hanno una loro coerenza geologica, geografica, geobotanica, cioè sussistono in modo autonomo […] occupano un primo piano ontologico. Per ottenere questo sistema di coerenza massima, Tolkien non si limita all’accumulazione competente ma costruisce una rete di legami tra piante e luoghi, un rizoma metonimico dove l’albero, l’arbusto, l’essenza diventano allusivi della propria geografia, un po’ come gli animali, in molte culture, non sono solo carne che si mangia ma sono “portatori” del paesaggio a cui appartengono. Queste piante “buone da pensare”, per dirla con Claude Levi-Strauss, svolgono dunque una funzione cosmografica […] le loro radici non raccontano individualità ma mondi complessi, articolati nel tempo e nello spazio» (p. 37).
Il soffio vitale che anima questo cosmo narrativo è la feericità, il «desiderio degli esseri umani di istituire una comunione con altre cose viventi, la magica comprensione dei linguaggi di animali terrestri e alati e di alberi da parte di uomini»,13 una sorta di capacità metanarrativa di «far tracimare il Mito nel mondo primario» (p. 43), la consapevolezza che ogni elemento di qualsiasi ecosistema ha valore e agentività in sé e allo stesso tempo covalenza e molteplici potenzialità di correlazione con ogni altro elemento. Non è mai neutro né tanto meno può essere reificato a mera commodity da depredare, possedere, sfruttare e scartare. «Tutto ciò che avevate (o sapevate) era pericoloso e dotato di poteri, nient’affatto impastoiato, sì anzi libero e selvaggio»,14 La feericità è una sorta di senso ecosistemico da curare e sviluppare per ascoltare l’eco dello scorrere linfatico della doppia luce di Telperion e Lauerelin, i due alberi primordiali a cui tutti i racconti possibili sono intrecciati. La feericità è quindi il dispositivo di subcreazione che, come una fiala di luce della Genesi, può curare l’epidemia di tenebra dell’Apocalisse. «Feeria è allora la co-possibilità […] la “credenza” profonda di poter “fare mito” anche nel quotidiano”» (p. 35). È la capacità metanarrativa di scorgere «le cose più permanenti e fondamentali»15 che ci fa scoprire di far già parte di una rete fittissima di subcreazioni, di un ecosistema creativo composto da «minerali, piante, animali, paesaggi selvatici, foreste, eventi atmosferici, migrazioni, dimore, battaglie, popoli, città, tutti legati tra loro» (p. 41) di cui ora scorgiamo meglio, più consapevolmente, dettagli, potenzialità, luoghi, orizzonti, lacune, «alterità irriducibile» (p. 41)… la domanda non è tanto “è vero?”, ma “tu cosa vedi?”, “tu cosa senti?”, “tu cosa pensi?”, “tu cosa vuoi?”, “tu cosa fai?”, “tu con chi e con cosa sei?”, “tu chi sei?”, e “tutti gli altri componenti del mondo-mito chi e cosa sono? Cosa fanno, cosa desiderano, cosa pensano, cosa sentono? Come stanno insieme a tutti gli altri?”
«Tutto cominciò con il primo narratore della tribù. Il mondo fisso che circondava l’uomo della tribù, costellato di segni di labili corrispondenze tra parole e cose, s’animava alla voce del narratore, si disponeva nel flusso d’un discorso-racconto, all’interno del quale ogni parola acquisiva nuovi valori e li trasmetteva alle idee e alle immagini da essa designate; ogni animale ogni oggetto ogni rapporto acquisiva poteri benefici e malefici, quelli che saranno detti poteri magici e che si potrebbero invece dire poteri narrativi, potenzialità che la parola detiene, facoltà di collegarsi con altre parole sul piano del discorso».16
Questa capacità, la creazione di mondi, è anche l’antidoto alla solipsistica fuga nel proprio ristretto mondo privato e all’assolutizzazione autarchica del proprio io, in quanto funziona davvero solo se praticata in gruppo, come i racconti attorno al fuoco, i giochi collettivi, le performance creative che coinvolgono autori e spettatori. La realtà può essere reimmaginata solo tutti insieme. «Che parlino la brace e la menta selvatica» (p. 52).
Unworlding
Il terzo capitolo non è dedicato alla creazione di mondi immaginari, ma all’analisi lucidissima e spietata del mondo che abbiamo terraformato, così come Cormac McCarthy ci mostra senza autoinganni o ipocrisie: «un riflesso di quello che siamo già, abitati da una fame di roba che ci ha già portato alla perdizione, che ha già tirato fuori il peggio di cui siamo capaci come specie» (p. 55). Passato, presente e futuro sono annullati in un tempo assoluto, come in un definitivo atto unico di Beckett, che è l’immagine speculare necessaria del worldbuilding tolkeniano, «un terraforming al contrario, dall’abitabile all’inabitabile, dalla Contea all’Abisso» (p. 55). L’incontro nel sogno iniziale del Padre e del Figlio con la creatura nella grotta, un petroglifo che ha preso vita, è la visione di «icone di arte rupestre di un Pleistocene a venire» (p. 56):
«Rannicchiata lì, pallida, nuda e traslucida, con le ossa opalescenti che proiettavano la loro ombra sulle rocce dietro di lei. Le sue viscere, il suo cuore vivo. Il cervello che pulsava in una campana di vetro opaco. Dondolava la testa da una parte all’altra, emetteva un mugolio profondo, si voltava e si allontanava fluida e silenziosa nell’oscurità».17
È l’incontro senza tempo con il mistero delle origini, con la grotta della calotta cranica di specie, con il rito di passaggio inevitabile in ogni insegnamento vitale. «Il mondo sotterraneo è una macchina che altera tutto, smonta il tempo, smonta lo spazio, smonta persino la percezione di sé, e forse era proprio questo smontare corpi, strutture e convinzioni che si cercava nei riti di passaggio».18 L’altra capacità necessaria all’attraversamento dell’Antropocene è «l’antropologia negativa per criticare il concetto di Storia, per sgonfiare la P di Progresso, per evolver sempre più in basso verso gli archetipi primordiali della specie» (p. 56), la contro geografia «per decolonizzare terre, popoli e corpi, ma anche soprattutto per decolonizzare l’immaginario»,19 l’unworlding come capacità di percepire e produrre cosmogonie sottrattive.
«Gli animali ci hanno regalato l’invisibile».20 La fine della Strada spetta infatti agli animali, ai salmerini che non nuotano più nella corrente ambrata, ma i cui disegni vermiformi sui dorsi ricordano ancora «le mappe del mondo in divenire».21 Anche nella fine del Passeggero ci sono ombre proiettate sulla grotta, i disegni delle creature delle acque e le creature come disegni sulla roccia, segni antichi, grammatiche e lingue sconosciute, epifanie ultime di volti nel buio. Si inizia e si finisce con il mistero dell’alterità. In un perfetto disegno circolare la visione finale richiama l’incipit e i lettori procedendo tra le pagine tornano sempre sui loro passi «come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito»:22 la creatura più antica dell’uomo che mugola di mistero cercando nuove mappe e labirinti nel pozzo carsico della Strada e il cadavere aureo e cristallino di Alicia, scolpito nell’assunzione iniziale del Passeggero, con lo stivale caduto che spunta dalla neve e la forma del cappotto gettato e aperto disegnata a terra, spiccando immobile il volo, come la statua metafisica di un angelo, una koimesis antropocenica o il seme antropomorfo di un fiore «la cui postura chiede che ne venga contemplata la storia. Che vengano contemplate le fondamenta del mondo poiché originano dal travaglio delle sue creature».23 Alicia infatti – come già la Madre prima di lei? – risponde al fallimento del Padre: pensa di andare in montagna per cercare una grotta e un ruscello di montagna (l’incipit e l’explicit della Strada) presso cui (ri)diventare creatura primordiale («La notte mi sarei avvolta nella coperta contro il freddo e avrei guardato le mie ossa prendere forma sotto la pelle e avrei pregato di poter vedere la verità del mondo prima di morire»).24 Abbandona il fuoco e diventa «eucarestia»25 per gli animali, la carne del suo corpo, la propria materia animale essendo il vero valore da tramandare al di là dell’ideale/ordigno occidentale e antropocentrico, la comunità ecologica e la rete trofica come antidoto all’unicità claustrofobica ed entropica del Padre-Figlio. «Alicia come una Madonna Odigitria come la Stella del Mare, indica al lettore-viandante il buon cammino […] è la via dei boschi, del mare. È la Territà» (p. 77-78).
Camminare-immaginare-concrescere
Dopo la subcreazione di Tolkien popolata di silmaril e hobbit e l’anticreazione di McCarthy desertificata da creature e «oscurità senza nome e senza misura»,26 Meschiari evoca Paul Shepard e William T. Vollmann.
Shepard è un «endling, una specie di tilacino in gabbia» (p. 84) che caccia i fantasmi del paleolitico unendo pragmaticità e competenza scientifica alla visione utopica rivolta al passato, in uno straniamento cognitivo in cui l’Angelus Novus di Benjamin è una pittura rupestre e il passato osservato è il nostro futuro nell’Antropocene, oppure a guardare indietro sono le tracce impresse su rocce e terra dai nostri progenitori a caccia e le prede siamo noi, i mostri agrilogico-capitalisti del Wasteocene.
«Shepard non ha dubbi: l’agricoltura finalizzata al profitto è l’inizio della fine di tutto. Quando il cacciatore-raccoglitore paleolitico viene sostituito dall’agricoltore neolitico, l’attacco agli ecosistemi della Terra comincia in maniera violenta e ininterrotta. Deforestazione, erosione e impoverimento dei suoli, riduzione drastica della biodiversità vegetale e animale, dissesti idrogeologici, desertificazione, sovrappopolamento, esaurimento delle risorse, inquinamento, carestie, pandemie. Ma anche degrado degli ecosistemi mentali, perché il modello produttivista dell’agricoltura è all’origine della società gerarchica e patriarcale, della discriminazione della donna e del diverso, della perdita della libertà, dell’alienazione urbana, dell’asservimento animale, della guerra» (p. 85).
L’abilità bioecologica necessaria a invertire questa sterile pista intrapresa da sapiens è l’adolescenza di specie: saper tornare selvaggi e cacciatori. Becoming Feral Child. Per fare ciò occorre recuperare «una specie di istinto ecologico, un modo innato e sistemico di guardare le cose che tende a produrre una visione del mondo eco-centrica, eco-sociale ed eco-cosmologica» (p. 87). Non si tratta tanto di inselvatichirsi o addestrarsi al survivalismo estremo quanto recuperare postura e punto di vista del tenero carnivoro: l’adolescente del paleolitico impegnato nel sacro rito di passaggio che, come suggerisce Tim Ingold, si volta indietro verso gli antenati per osservare insieme a loro gli insegnamenti della tradizione e le tracce degli animali impresse nell’ambiente, in modo da immaginare movimenti e flussi invisibili e vedere in armonia con il passato un percorso condiviso verso il futuro. Non si tratta di impilare uno sopra l’altro prede, materie prime, generazioni con le loro superstizioni e tempi mummificati così da schiacciare tutto sotto, verso l’alto, ma di annodare insieme creature, risorse, generazioni con le loro sapienze e tempi vitali così da immergersi tutti nello stesso flusso ecosistemico che scorre incessante verso un futuro sempre nuovo. «Tutta l’opera di Shepard è lo sforzo di raccontare queste dinamiche ecosistemiche profonde come incarnate in un duplice corpo: il corpo umano e il corpo terrestre» (p. 88). Le generazioni e i paesaggi, le tradizioni e le tracce, le specie e i cicli della Terra ci hanno plasmato nel corso di milioni di anni per la possibilità di avere futuro.
«I paesaggi naturali sono una specie di teoria ecologica incarnata, sono la superficie sensibile delle dinamiche di interazione tra mondo organico e mondo inorganico e sono anche il luogo fisico e mentale in cui forme materiali e forme simboliche si toccano, si compenetrano e si confondono» (pp. 88-89). Il giovane cacciatore paleolitico di Shepard – come il Kamandi di Jack Kirby – è il paleo future child, l’adolescente selvaggio perché fuori dal tempo degli orologi, dei bulldozer e delle gru del progresso antropocentrico moderno così come definito da Ingold, «un eroe mitico il cui canto ancestrale dice: l’uomo non nasce dal nulla, e ciò che chiamiamo umano è in realtà un arazzo di storie ecosistemiche» (p. 90). Riconoscere questa forma bioarchetipica che racconta il nostro divenire nell’ambiente è sicuramente un passo decisivo per aprire gli occhi sulle insidie apocalittiche della modernità capitalistica. Apre anche alla domanda, però, su quale evoluzione l’Antropocene stia preparando e con quale velocità e rispetto a quale orizzonte spaziotemporale. Questo nuovo habitat all’antitesi del Pleistocene che homo sta rapidamente plasmando a tutti i livelli, dal fracking che può generare terremoti, alla plastisfera che contribuisce alla modifica del microbioma, quali bisogni di sopravvivenza e quali direzioni sta imprimendo all’intrico del percorso evolutivo terrestre?
Se il cambiamento climatico è fuori e dentro di noi – come afferma tra gli altri Clayton Page Aldern – come stanno rispondendo e come risponderanno i nostri (?) ambienti, i nostri (?) corpi e le nostre (?) menti, le nostre (?) comunità, i nostri (?) geni e le nostre (?) immaginazioni? Quali forme, quali spettri, quali intelligenze, quali mutazioni si intravedono nel futuro profondo della nostra specie? Difficile prevederlo, tuttavia Aldern, Ingold e Meschiari propongono una modalità di attraversamento di queste domande del tutto simile. Perché è la stessa della tradizione, nel senso che Ingold conferisce a questa: seguire nel futuro le generazioni che ci hanno preceduto. Come? Agendo solidarietà e uguaglianza non solo orizzontale, con ogni umano, non-umano e sapere qui e ora nel mondo del presente, ma anche in profondità, nel tempo, con ogni umano, non-umano e sapere del passato e dei possibili futuri. Una sorta di sostenibilità ecosistemica transtemporale. Una social catena tra generazioni oltre i confini di specie che stringe insieme mortali e natura. Un agire con il mondo e non sul mondo, come propone Andrew Pickering. «Il collasso sistemico dell’Antropocene non può essere affrontato in maniera tecnocratica e ostinatamente antropocentrica, ma va guardato, compreso e governato in maniera ecosistemica» (pp. 90-91). L’Altro è l’esperienza fondamentale per osservare, pensare, immaginare, comprendere e interagire con l’ambiente. E l’Altro, per homo, sono sempre stati gli animali, prede e divinità: «questo bestiario non è un mero coacervo di forme, di comportamenti e di informazioni ambientali, ma è una macchina di riconoscimento e di ordinamento della realtà» (p. 91). Gli animali sono stati e devono tornare a essere una sorta di bio-algoritmi, intelligenze altre per decodificare la nostra e l’ambiente tutto. A partire dall’infanzia, individuale e di specie:
«ogni popolo della Terra ha escogitato i propri modi per compilare liste di piante e animali, non tanto con finalità utilitaristiche (mangiare, utilizzare, evitare) ma per espandere la percezione del cosmo (immaginare, raccontare, onorare). Per Shepard questo istinto classificatorio è codificato geneticamente nella specie e si attiva nell’infanzia» (p. 91)
Anche il fanciullino di Pascoli, dopotutto, non è forse il riflesso distorto dell’eroe paleocinegetico di Shepard, un feral child a rischio di estinzione esiliato nel corpo della modernità agrilogista e coloniale in una campagna cava dei morti squarciata tra scorci bucolici e lampi di apocalisse, autorecluso in un nido artificiale che appare spettrale nella notte come l’ala schiantata di un gabbiano, in preda a un terrore cosmico nella propria nicchia ecosimbolica popolata di fantasmi suadenti, immagini stranianti, versi di animali e fruscii di foglie come eco e vaticini di mondi e tempi lontani?27
L’attività centrale dell’umanità preneolitica era un’attività che curava il futuro di specie e consisteva in un’elaborata e avanzata tecnologia culturale dedicata ai giovani, un’educazione alla metamorfosi, l’apprendimento di metafore e metonimie in azione in un ecosistema vivo e profondo: i riti di passaggio.
«il giovane umano comincia ad apprendere voracemente nomi e informazioni ecologiche di tutte le piante e di tutti gli animali che popolano il suo habitat […] L’adolescente, guidato da un mentore, esposto alla potenza dei canti mitici, coinvolto nelle prime esperienze di caccia pericolosa, iniziato attraverso lunghi periodi di esposizione nella natura selvaggia, mangerà e penserà l’animale inteso non come entità individuale ma come parte di un tutto, come porzione e come modello del cosmo. Questo processo si avvale e al tempo stesso si prende cura del fluido altamente instabile dell’adolescenza, quella scissione identitaria del giovane umano che abbandona la fanciullezza per essere incorporato nel mondo adulto. Per Shepard si tratta di un processo “naturale” che la società cinegetica accompagna offrendo un sostegno collettivo e una prospettiva rituale e sacra» (p. 92).
Adolescenza come tempo assoluto della sfida personale e di specie, in cui avviene il picco dello sviluppo fisico e intellettivo perché bio-evoluzionisticamente e bio-storicamente necessario alla sopravvivenza, in cui è necessario assumersi un’agency consapevole nell’intrico del mondo, oltre le madri e i mentori,
«momento d’oro di quel processo necessario in cui si arriva a coordinare sapere ecologico e pensiero sacro, conoscenze pragmatiche e competenze simbolico-narrative, sguardo analitico e mitopoiesi, coraggio nella wilderness e rispetto della vita. Quello che in narratologia si chiama worldbuilding e in filosofia Weltanschauung, per Shepard è un dono dell’evoluzione, un utensile genetico-culturale che si riattiva nella mente plastica e magmatica di ogni adolescente» (pp. 94-95).
Curare il feral child e lasciarlo libero di crescere ed esprimersi in un mondo pulsante di presenze altre fuori e dentro di noi è «l’occasione creativa più potente di cui si è dotato Homo sapiens per adattarsi a un mondo in cui umani e non-umani, animati e inanimati chiedono prima o poi a ogni ente, a ogni individuo, a ogni cultura di essere raccontati con la parola del mito» (pp. 95-96).
Accanto a Shepard, Meschiari convoca William T. Vollmann che, con il suo Fucili e con il suo Atlante, segue le tracce geoantropologiche della Territà. Le qualità che possiamo apprendere seguendolo a nostra volta in questa battuta di caccia-scrittura sono il camminare eretti e il guardare a perdita d’occhio:
«Vollmann cammina. Cammina e guarda. La sua prosa procede metonimicamente da luogo a luogo, da dettaglio a dettaglio, passo dopo passo […] camminare in un paesaggio, anziché contemplarlo da fermi, è il mezzo più efficace per entrare in un insieme dinamico e complesso […] Nel flusso cognitivo e fenomenologico di questa prosa-paesaggio, il movimento prestato dalle gambe, e dal linguaggio, alle cose e ai luoghi, ci dice chiaramente che la dinamicità del paesaggio non è né somma né confusione, ma interazione, un reagire reciproco secondo correlazioni in divenire» (p. 100).
Camminare e guardare con il corpo e l’immaginazione dentro le materie e le phantasmata della Territà, attraverso i suoi intrecci, i suoi sistemi correlati, i suoi rizomi diramati in molteplici e misteriose dimensioni, le sue metamorfosi. «Camminare, in questo senso, è molto simile a parlare, ed entrambe sono caratteristiche essenziali di ciò che consideriamo una forma di vita umana».28 Anche per Bourdieu camminare è la capacità umana che esprime l’attivo coinvolgimento della persona, del suo corpo, con l’ambiente e l’alterità circostante, rappresenta – come la biologia evolutiva e le scienze cognitive hanno confermato – la forma peculiare del pensare e del sentire, dell’esplorare e dell’immaginare, del generare socialità e cultura della nostra specie. «Camminare, scrivere [o comunque creare], crescere» (p. 100) sono le nostre inestricabili abilità innate, archetipiche direbbe Jung, per cui è inevitabile il condizionamento terrestre dell’anima: camminare nel bosco ed entrare nella grotta, scheggiare una selce e disegnare una mappa, creare una comunità e crescere civiltà. Anche Bourdieu connette sguardo e nido, infanzia e picco di sviluppo, una sorta di cortocircuito dentro-fuori, una «schizofrenia immaginativa tra un Abisso lovecraftiano e una Contea dei buoni sentimenti» (p. 107) incarnata, di nuovo, nel feral child della miniera, Rosso Malpelo, che muore per la violenza e lo sfruttamento di un sistema anti-umano, ma diventa contro-racconto, scoria-mito, subscendenza labirintica che infesta e combatte come un’archea ribelle quello stesso sistema. Conteniamo moltitudini e siamo parte di moltitudini. «“L’immensità è in noi».29
Laurae
L’ultima coppia del pistage praticato da Meschiari sulle tracce della Territà è composta da Laura Pugno e Laura Pariani. Laura. Laura. Già i nomi non possono non evocare la corsa sfrenata della giovane naiade nella selva del tempo, del mito, delle narrazioni per sfuggire al desiderio di possesso del dio della civiltà occidentale… Pugno propone proprio una mappa per invischiarsi in questa selva, una preghiera al fiume (del tempo, del mito, delle narrazioni) affinché inneschi la metamorfosi che salva, una
«letteratura per l’Antropocene, […] un immaginario intergenerazionale che cerca altrove le sue energie per ispirare soprattutto lettrici e lettori più giovani a reagire al trauma e a inventare futuri alternativi […] un campo molto più largo e molto più fluido che prova a raccontare altre relazioni possibili tra mondo umano e mondo non-umano, tra animali, piante e paesaggi terrestri, che esplora le visioni indigene senza saccheggiarle, sperimenta mitopoiesi animiste alla ricerca di una connessione col sacro, fabbrica mondi secondari della possibilità sociale e del mistero del cosmo» (pp. 110-111).
La capacità necessaria per muoversi in questo territorio selvaggio – esteriore e interiore – è comprendere e accettare «l’impossibilità stessa di abitare la realtà» (p. 113), allenare e praticare uno sguardo spaesante, una postura di costante e progressivo sradicamento rispetto a sé stessi, alla propria cultura, alla propria specie, al proprio mondo. Fino alla vita stessa: «la vera essenza del selvaggio non è una natura arruffata, un giardino abbandonato, e non è nemmeno il terzo paesaggio di Gilles Clément, ma è la morte» (p. 114). Questo sguardo, questo movimento da feral child vanno applicati anche nella lingua e nella scrittura, per spaesare e rendere di nuovo selvaggia e salvavita – come in origine – la téchne speciespecifica di homo: «la letteratura [sia] occhi nuovi, straniamento, bosco»,30 per trasformarsi sempre in bambini salvaticiII.31 Il bambino rivela una peculiare qualità, è al contempo selvaggio, salvatico, sapiente e spiritale. Come Malpelo e come Cora, la protagonista di La metà di bosco di Pugno. La loro prossimità alla nascita e alla natura conferisce un’elevata purezza e penetrazione di sguardo che rivela la «fondamentale equazione tra selvatichezza e morte» (p. 119), sulla sciara siciliana e nel carcame dell’asino Grigio così come sull’isolotto di Krev mezzo bosco e mezzo cimitero e nel villaggio dell’isola di Haki «come un corpo di animale da cui la carne è stata strappata, e che lascia vedere lo scheletro».32 Entrambi i feral children diventano alla fine fantasmi, ma il vero «Grande Spettro» (p. 121) che infesta ogni epoca dell’uomo – forse il vero tragico segno della specie sugli strati geologici del tempo – è la violenza perpetrata dal più forte sul più debole «perché tanto la vittima non è più umana» (p. 120).
Apriti mare! di Laura Pariani è «un lungo esperimento dell’immaginario per sondare fin nei dettagli il possibile che è incistato nelle patologie del presente» (p. 124). Questo esperimento è condotto attraverso una lingua picaresca che viaggia attraverso enciclopedie, registri, forme, esperienze, mondi e tempi diversi, una «vera macchina del tempo [e della Territà]» (p. 125).
Meschiari considera il testo di Pariani «l’esempio più riuscito di romanzo italiano dall’Antropocene alla Territà» (p. 128). Non solo perché inscena un confronto diretto, sul campo del futuro prossimo possibile, tra un’idea nomade e un’idea stanziale di civiltà o perché affronta la tenebra più oscura del neo-patriarcato dal punto di vista delle bambine, ma anche perché realizza tutto questo creando un fantastico periferico e meticcio, pluristratificato di luoghi e culture, lingue ed ecosistemi mutanti, eventi e tradizione, scelte e nomi di cose, animali, piante e persone segnati dai tempi della Terra, loro, nostra, di tutti.
Le protagoniste, anche qui, sono bambine selvagge in fuga da un vecchio mondo che neanche le guerre nucleari e l’Incidente sono riusciti a demolire: «basta la prima mestruazione e già la bambina viene data agli òmn per fare la crassaputa. Unica via d’uscita è la fuga nei paesaggi inumani» (p. 127). La condizione di feral child, in questo caso, non rappresenta né una regressione, né il dato di partenza, ma è l’evoluzione ricercata per la salvezza. Una salvezza che non può più essere garantita dal cielo, non una salvezza in avanti, una salvezza-progresso, ma una salvezza a ritroso, verso le origini, nel profondo del mare. Nel Medioevo postapocalittico e brancaleonino di Pariani, le bambine nascono con lo stigma delle figlie di Eva e possono solo essere schiave della seconda fame degli uomini e fattrici, oppure scappare dalla società del giudizio e della punizione, dall’umanità maschiocentrica sopravvissuta, e farsi selvatiche nello sciame di strìe, scavalcare la crudeltà di specie verso il basso – animalità – e verso l’oltre – fantastico – per fuggire come tutti gli altri bambini per metà selvaggi e per metà fantasmi, verso il mondo-senza-paura, verso il mare. Alla fine del libro c’è l’inizio della letteratura: la vecchia Unagàmb legge l’Odissea e si riconosce nelle donne di ogni tempo che «si riunivano per parlare sottovoce e guardare il mare, culmine di tutti i misteri e chiave di ogni risposta».33 Alla fine di un racconto c’è sempre l’inizio della vita o di un alto racconto, che sono un po’ la stessa cosa secondo Italo Calvino, tra i contafavole evocati da Pariani come fonte d’ispirazione: «La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade».34
Per Pariani la morale di ogni favola è sempre la stessa: «sarebbe follia attendersi qualcosa che non sia crudele da un ordine sociale crudele»35 ma la parola e l’immaginazione sono formule, cautionary tales e mappe per non scomparire del tutto. È un fantasma infatti che consiglia a una delle bambine di ripetere la parola proibita per tenere lontane disperazione e morte: «Per questo mi costringevo a parlare, per tenere in vita le parole. Le facevo turbinare in racconti e filastrocche, le frasi danzavano, sbarlusciavano come il magico “mammamia” della reliquia. Questa, almeno, era la mia speranza, il mio scopo».36
Come afferma Irene Cecchini, in Apriti, Mare! :
«il pensiero ecologico si esprime con l’educazione alla complessità, attraverso il riconoscimento della coesistenza, dello scontro e dello sconfinamento delle varie relazioni che dominano il mondo. Senza parlare di natura, Pariani esprime le dinamiche che condizionano gli ambienti e insieme i destini individuali, trasformando il testo in un ecosistema e riconoscendo all’atto immaginativo una capacità poietica e politica».
Dopo questo testo che sembra esemplificare compiutamente la narrazione della Territà, Meschiari raccoglie nella sua sacca-libro quattordici ulteriori dispacci, alcuni già affidati qualche anno fa in forma digitale a Doppio Zero, in cui racconta brevemente di altri libri che sono tracce, indizi, canarini da miniera per avvistare in tempo l’Antropocene e trovare la forza di uscire da un vicolo cieco. I dispacci più urgenti appaiono quelli in cui si riconosce nel mito una materia prima e una fonte energetica pressata dalla terra a partire dai fossili di racconti e civiltà in estinzione che riaffiorano tra le crepe delle ere, quelli in cui si riconosce nella letteratura del Tempo la letteratura di azione e nella parola l’efficacia simbolica che salva davvero. Tra i libri-tracce, tre sembrano evocare con più intensità gli spettri del nostro tempo, la Territà e i bambini salvifici: I figli del diluvio di Lydia Millet, una sorta di nuovo, terragno, libro sacro per «formare bambine e bambini alla prossima Resistenza» (p. 146); Dead Astronauts di Jeff VanderMeer, «un manuale di narratologia antropocenica» (p. 151) in cui i feral children possono essere qualsiasi creatura immaginabile; Colibrì salamandra dello stesso autore ci consegna infine due immagini-totem: «il colibrì immobilizzato nei paradossi del tempo […] la salamandra che si reinventa nel mito e sopravvive nel fuoco» (p. 158).
e cresce la sensazione di poter scomparire nella terra, come se la pampa potesse impadronirsi dei loro corpi, rendendoli invisibili.37
—
1) Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, 1993, p. 5.
2) Viktor Šklovskij, Marco Polo, Quodlibet, 2017, pp. 55-56.
3) George Perec, La vita. Istruzioni per l’uso, BUR, 1989, p. 6.
4) Cormac McCarthy, Il passeggero, Einaudi, 2024, p. 3.
5) Ibid.
6) Italo Calvino, Il mare dell’oggettività in Una pietra sopra, Mondadori, 1980, p. 54.
7) Italo Calvino, Romanzi e racconti, Mondadori, 2005, p. 420.
8) Ioan Petru Culianu, Eros e magia nel Rinascimento, Bollati Boringhieri, 2006, p. 65.
9) Cfr. Andrew Pickering, Being in an environment, in Natures Sciences Sociétés n. 21, 77-83, (2013) anche online qui.
10) J. R. R. Tolkien, Sulla fiaba, in J. R. R. Tolkien, Albero e foglia, Rusconi, 1984, p. 62.
11) Ivi p. 89.
12) Ivi p. 91.
13) Ivi pp. 21-22.
14) Ivi p. 74.
15) Ivi p. 77.
16) Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi, in Una pietra sopra, Mondadori, 1980, p. 199-201.
17) Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, 2007, p. 1.
18) Matteo Meschiari, Terre che non sono la mia. Una controgeografia in 111 mappe, Bollati Boringhieri, 2025, p. 12.
19) Ivi p. 18.
20) Ivi p. 16.
21) Cormac McCarthy, La strada, cit. p. 218.
22) Ivi p. 1.
23) Cormac McCarthy, Il passeggero, cit., p. 3.
24) Cormac McCarthy, Stella Maris, Einaudi, 2023, p. 193.
25) Ivi p. 194.
26) Cormac McCarthy, Il passeggero, cit., p. 105.
27) Cfr. Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte da Cesare Garboli, Mondadori, 2002, soprattutto The harmless gun (La capinera/- Tac tac! anche te? non rammenti/le sere di quella tua mesta/città? le tue lagrime ardenti?/quel canto d’ignota foresta/tra l’onda di tante campane,/tanti urli di folla, e tra il sordo/fragore di ruote lontane?/Piangevi: e saliva il mio canto,/con l’eco d’antico ricordo,/col suono di nuovo rimpianto.);Il cacciatore (Frulla un tratto l’idea nell’aria immota;/canta nel cielo. Il cacciator la vede,/l’ode; la segue: il cuor dentro gli nuota./Se poi col dardo, come fil di sole/lucido e retto, bàttesela al piede,/oh il poeta! Gioiva; ora si duole./Deh! Gola d’oro e occhi di berilli,/piccoletta del cielo alto sirena,/ecco, tu più non voli, più non brilli,/più non canti: e non basti alla mia cena); La partenza del boscaiolo (Le talpe scavano più fondo./Vanno più alte le gru./Fa come queste, e va pel mondo:/tient’a su! tient’a su! tient’a su!/Per le faggete e l’abetine,/dalle fratte e dal ruscello,/quel canto suona senza fine,/chiaro come un campanello./Per l’abetine e le faggete/canta, ogni ora ogni dì più,/la cinciallegra, e ti ripete:/tient’a su! tient’a su! tient’a su!/Di bosco è come te, la cincia);Canzone di Marzo (Ancor le fanciulle si sono/destate, ma per un momento:/pensarono serpi, a quel tuono;/sognarono l’incantamento./In sogno gettavano al vento/le loro pezzuole.)
28) Tim Ingold e Jo Lee Vergunst (a c. d.), Ways of Walking. Ethnography and Practice on Foot, Ashgate, 2008, p. 1 (traduzione del redattore).
29) Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, 2006, p. 206.
30) Laura Pugno, In territorio selvaggio. Corpo, romanzo, comunità, Nottetempo, 2018, p. 53.
31) «Salvatico è quel che si salva»: Leonardo da Vinci, Codice Trivulziano 2162, f 1 v.
32) Laura Pugno, La metà di bosco, Marsilio,2018, p. 37.
33) Laura Pariani, Apriti, mare!, La nave di Teseo, 2021, p. 189.
34) Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Garzanti, 1959, pp. 155-156.
35) Laura Pariani, Apriti, mare!, cit. p. 192.
36) Ivi, p. 171.
37) Laura Pariani, Selvaggia e aspra e forte, La nave di Teseo, 2023, p. 79.
—
Immagine di copertina:
Paul Klee, Scena di battaglia dall’opera buffa “Il marinaio”, 1923, Kunstmuseum Basel



