Nel 1993, a pochi anni dalla caduta del Muro di Berlino e nel pieno trionfo del neoliberismo occidentale, Jacques Derrida pubblicava Spettri di Marx (Spectres de Marx), un testo che sfidava apertamente l’ideologia della “fine della storia” allora celebrata da pensatori come Francis Fukuyama. L’origine è una conferenza pronunciata in due sedute all’Università della California, all’interno del convegno internazionale Whither Marxism? Partendo dall’ambiguità del titolo dell’incontro (ambiguità dovuta al gioco di parole whither-dove va? e wither-sta deperendo?), il maestro della decostruzione si serve della figura shakespeariana del fantasma per sostenere che il marxismo, lungi dall’essere sepolto, continua ad abitare il presente sotto forma di “spettri”: presenze-assenze che inquietano il pensiero, la politica e la giustizia. In un’epoca che proclamava la fine delle ideologie, Derrida rivendicava la necessità di restare fedeli a una promessa non compiuta: quella di una giustizia per l’avvenire.

Jacques Derrida, Spettri di Marx

Dopo trent’anni, Spettri di Marx torna in una nuova edizione. Il tempismo non è casuale: anche oggi, nel pieno di un nuovo disordine globale, si avverte l’urgenza di ripensare l’eredità di Marx non come dogma ma come fantasma operante, chiamato a riattraversare il futuro. La nuova edizione rende giustizia all’opera restituendole il suo carattere ibrido che spazia tra filosofia, critica, politica e performance, grazie a materiale inedito e a un secondo apparato filologico che riporta correzioni infratestuali ed estratti di corrispondenza aggiunti in coda alle Note alla prima edizione.
L’opera si apre con una scena teatrale. Non è Marx ad apparire per primo, ma Amleto: la tragedia di Shakespeare funge da palcoscenico iniziale su cui Derrida fa entrare lo spettro di Marx. La filosofia si incarna in una voce che non è mai del tutto presente, mai del tutto assente: il tempo, ci ricorda Derrida, è “fuor di sesto” (out of joint – espressione che, almeno a chi scrive, evoca subito le crepe nel reale di dickiana memoria). Il ritorno del passato, o forse del futuro promesso e mancato, sconvolge ogni linearità temporale. L’eredità non è ciò che si conserva, ma ciò che ritorna a inquietare.
L’ombra dell’infestazione d’altronde, ci ricorda Derrida, non emerge solo nel celebre incipit del Manifesto del partito comunista, ma si trova presente – aleggia, sarebbe meglio dire – in maniera trasversale in quasi tutte le opere, sicuramente in quelle maggiormente rilevanti. Il concetto di spettro quindi non è una metafora poetica, ma uno strumento filosofico. Lo spettro non è né vivo né morto, né presente né assente. È un evento ontologico instabile, che rende possibile ogni relazione con l’altro, ogni responsabilità, ogni promessa. Lo spettro, come Marx, ritorna, ma non si lascia mai catturare pienamente.
È qui che Derrida introduce una prima svolta cruciale: non si parla di uno spettro di Marx, ma di molteplici. Un’intera costellazione di presenze eterogenee, contraddittorie, disordinate:

«Gli spettri di Marx. Perché questo plurale? Ce ne sarebbe più d’uno? Più d’uno, questo può significare una folla, se non delle masse, l’orda della società, o ancora qualche popolazione di fantasmi con o senza popolo, una certa comunità con o senza capo […]» (p. 10).

Il plurale apre la questione dell’eredità multipla e frammentata del pensiero marxiano: non un unico Marx canonico e sistematico, ma una pluralità di interpretazioni, di ritorni incompiuti, di potenze latenti. È l’opposto della chiusura storica: ogni spettro è una promessa differita (anche proprio nel senso della différance), un debito non ancora saldato. Là dove c’è eredità, ci sono spettri. Tuttavia l’intento non è quello di restaurare un Marx ortodosso, ma di pensare un rapporto etico-politico con il passato che non sia né nostalgia né cancellazione. Gli spettri, proprio perché ambigui e inafferrabili, ci costringono a un atteggiamento critico e vigile. L’eredità non è mai semplice trasmissione, ma sempre giudizio, selezione, rischio: è “essere con i morti”, ma senza chiuderli in un mausoleo ideologico.
L’apertura teatrale del libro serve allora a preparare un pensiero che sia post-cronologico (ma non post-ideologico), disossato, spezzato, come il tempo che viviamo. La scena è infestata, e proprio per questo ancora viva. Marx ritorna, ma non da solo.
Uno degli obiettivi polemici principali di Spettri di Marx è il celebre saggio di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), in cui si proclama il compimento del processo storico nell’affermazione definitiva del capitalismo liberale come sistema politico ed economico “naturale”. Derrida attacca questa visione come escatologia secolarizzata, una narrativa trionfalista che cancella la sofferenza del presente in nome di un presunto compimento del progresso. In tal senso, la critica a Fukuyama è anche una critica alla teologia politica occidentale travestita da analisi geopolitica.
Dietro Fukuyama, aleggia la figura di Alexandre Kojève, lettore hegeliano di cui Derrida conosce bene l’influenza. Se in Kojève la fine della storia coincideva con il dominio della razionalità universale e burocratica (lo «Stato universale e omogeneo»), in Fukuyama tale fine assume i tratti dell’ordine capitalistico mondiale. Derrida rifiuta quindi questo messianismo: la storia non finisce, si disarticola, si riapre, si spettralizza.
Per questo, nel cuore del libro, Derrida lancia una proposta tanto politica quanto teoretico-filosofica: quella di una “nuova Internazionale”. Non un partito, non una macchina ideologica, ma una rete diffusa, spettrale, transnazionale, capace di raccogliere le ingiustizie globali che l’ideologia della fine della storia tenta di mascherare con un velo tecnocratico o umanitario.

«Una ‘nuova Internazionale’ si cerca attraverso queste crisi del diritto internazionale, denuncia già i limiti di un discorso sui diritti dell’uomo, discorso […] ipocrita, […] formale e inconseguente con se stesso, fin quando la legge del mercato, il ‘debito estero’, l’ineguaglianza dello sviluppo tecno-scientifico, militare ed economico, faranno sussistere quell’effettiva e mostruosa ineguaglianza che, oggi più che mai, prevale nella storia dell’umanità. […] Invece di cantare l’avvento dell’ideale della democrazia liberale e del mercato capitalista nell’euforia della fine della storia, invece di celebrare la ‘fine delle ideologie’ e la fine dei grandi discorsi di emancipazione, non trascuriamo mai questa evidenza macroscopica, fatta di innumerevoli sofferenze individuali: nessun progresso consente di ignorare che mai, in cifra assoluta, mai così tanti uomini, donne e bambini sono stati asserviti, affamati o sterminati sulla terra» (pp. 110-111).

Questa invettiva etico-politica ha una forza ancora maggiore oggi, in un contesto segnato da nuove guerre, migrazioni forzate, fame, diseguaglianze radicali e sfruttamento sistemico. Derrida rifiuta tanto il ritorno a un marxismo dogmatico quanto il cinismo post-ideologico: ciò che chiede è una vigilanza spettrale, un’attenzione alla sofferenza che non si lasci pacificare da discorsi rassicuranti. La “nuova Internazionale” non ha statuti né sedi. È fatta di presenze intermittenti, di complicità etiche tra sconosciuti, di alleanze disarticolate che superano i confini nazionali e disciplinari. In questo, è profondamente spettrale: non visibile, non fondata, ma reale. La denuncia derridiana non è un appello alla restaurazione del comunismo, o alla corsa a un’ortodossia marxista («Non c’è bisogno di essere marxista o comunista per cogliere questa evidenza», dice, p. 22), ma una riattivazione della promessa marxista: quella di una giustizia a venire, che non può essere garantita da nessuna struttura esistente, ma che ci chiama da un futuro ancora aperto. Spettri di Marx si fa così manifesto politico anomalo, non di fondazione ma di discontinuità, di riapertura, di inquietudine attiva.
Nel cuore più filosoficamente arduo – e allo stesso tempo più vertiginoso – di Spettri di Marx, l’autore rievoca un episodio spesso trascurato della storia del pensiero radicale: la critica di Marx a Max Stirner, contenuta nelle pagine de L’ideologia tedesca, opera scritta tra il 1845 e il 1846. Stirner, autore de L’unico e la sua proprietà (1844), difende una concezione radicalmente individualista e antistatale, centrata sull’“unico” (Einzige), un soggetto che non si riconosce in nessuna essenza universale, comunità, né identità politica. Un pensiero, si direbbe, anarchico fino all’egocentrismo ontologico.
Marx, insieme a Engels, attacca con veemenza questa posizione, dipingendola come una forma estrema di idealismo piccolo-borghese, una caricatura spiritualista e solipsistica che non può offrire alcuna via di emancipazione materiale. Tuttavia, nella lettura di Derrida, questo attacco rivela qualcosa di più profondo – e più inquietante. La violenza polemica sembra eccessiva, ossessiva, come se in Stirner Marx avesse intravisto qualcosa di sé stesso.

«La mia sensazione, quindi, è che Marx si fa paura, si accanisce su qualcuno che non è lungi dal somigliargli tanto da trarre in inganno: un fratello, un doppio, un’immagine diabolica dunque. Una sorta di fantasma di se stesso. Che vorrebbe allontanare, distinguere: opporsi. Ha riconosciuto qualcuno che, come lui, sembra ossessionato dagli spettri […]» (p. 176).

Stirner, nella sua ossessione per l’“unico”, è a suo modo già uno spettro dell’Io. E Marx, che vorrebbe esorcizzarlo, ne resta invece infestato. Il gesto di critica gli si ritorce contro come un boomerang: Marx, che smaschera gli spettri della religione, della filosofia e della borghesia, si trova a fare i conti con il proprio spettro – quello del fratello-rivale Stirner, e quello, più profondo, di un sé impossibile da purificare del tutto.
A rendere ancora più complessa – e affascinante – questa sezione è l’intreccio con la filosofia di Hegel, onnipresente in sottofondo. Derrida si muove qui come in una camera degli specchi, in cui ogni figura (Marx, Stirner, l’“unico”, lo Spirito hegeliano) è riflesso, eco o controfigura di un’altra. I richiami alla Fenomenologia dello spirito sono molteplici, e non solo come oggetti di critica, ma come struttura del pensiero: la dialettica – ma non solo lei – riemerge sotto forma di spettro non del tutto dissolto.
Proprio per questa densità speculativa, spesso oscura e non sistematica, la sezione dedicata a Stirner è una delle più pregnanti dal punto di vista filosofico. È qui che Derrida fa emergere la vera portata decostruttiva del suo pensiero: nessuna ideologia, nemmeno quella critica, può liberarsi del proprio fantasma fondativo. L’origine è sempre contaminata, abitata, differita. Marx stesso diventa “spettrale”, anche e soprattutto nelle sue operazioni critiche ed esegetiche, e lo è forse ancora di più quando si illude di poter esorcizzare l’altro.

Rileggere Spettri di Marx oggi, a trent’anni dalla sua prima pubblicazione, significa confrontarsi con un’opera che ha saputo anticipare molte delle lacerazioni del nostro tempo. La pretesa “fine della storia”, celebrata negli anni ’90 come trionfo globale del capitalismo liberale, si è rivelata essere solo un’interruzione apparente. I fantasmi che Derrida evocava – ingovernabili, plurali, irrisolti – sono ancora tra noi. Più che un saggio sul passato del marxismo, Spettri di Marx è un esercizio di ascolto del presente: un’indagine su ciò che ritorna perché non è mai stato davvero risolto. Per comprenderne la portata basta ricordare la fortuna che ha avuto il concetto di hauntology negli anni tra il secondo e il terzo millennio, recuperato e trasformato in chiave culturale e critica da autori come Mark Fisher e Simon Reynolds, che ne hanno fatto una lente per leggere le estetiche della memoria, del tempo sospeso, della promessa non mantenuta, nell’era della terza rivoluzione industriale. Dopotutto anche Derrida lo accenna, quando ancora la pervasività informatica non aveva raggiunto il suo apice:

«È anche al Marx pensatore della tecnica che mi rivolgo per trovare l’ingiunzione a pensare il modo in cui la tecnica in linea generale, la teletecnica, il ricorso alla virtualità stanno trasformando lo spazio pubblico nel suo complesso ciò che chiamiamo democrazie parlamentari. […] Questo concetto di virtualità […] sfugge alle opposizioni ontologiche della metafisica tradizionale, proprio come il concetto di “fantasma”» (p. 236).

L’attualità dell’opera emerge con forza anche da un passaggio particolarmente profetico, nel quale Derrida riflette sulla natura escatologica della violenza mondiale:

«Una tale analisi non potrà più non accordare un ruolo determinante a questa guerra delle escatologie messianiche per ciò che riassumeremo, ellitticamente, nell’espressione ‘appropriazione di Gerusalemme’. La guerra per l’‘appropriazione di Gerusalemme’ è oggi la guerra mondiale. Ha luogo dappertutto, è il mondo, è oggi la figura singolare del suo essere ‘out of joint’» (p. 78).

In queste righe, scritte nel cuore degli anni Novanta, si riconoscono già le coordinate della geopolitica attuale: la guerra globale diffusa, la centralità del Medio Oriente come teatro escatologico, l’alleanza tra religione, economia e violenza che plasma le relazioni internazionali. Derrida non offre una risposta sistematica: riconosce che il marxismo resta insieme indispensabile e strutturalmente insufficiente. Proprio in questa insufficienza sta la sua forza spettro-politica: un richiamo alla giustizia che non si chiude nel dogma, ma che continua a ritornare, come promessa e come compito. Come infatti aggiunge Balibar, nel capitolo Trent’anni dopo, aggiunto in questa nuova edizione portata in Italia da Raffaello Cortina Editore, Derrida

«rilanciava e riorientava completamente il modo in cui concepivamo l’influenza ancora attiva del pensiero (e soprattutto della scrittura) di Marx sulla nostra critica allo stato di cose esistente. Vale a dire del capitalismo mondializzato e delle catastrofi dissimulate dal suo apparente trionfo sui movimenti rivoluzionari del XIX e del XX secolo» (p. 222).

Interessante è, infine l’altro capitolo – l’ultimo – aggiunto, intitolato Dibattito su Spettri di Marx, nel quale Balibar, filosofi, amici ed ex studenti pongono diverse domande all’autore nell’anno successivo alla pubblicazione sebbene “non mi piace,” afferma quest’ultimo, “spiegarmi in maniera caricaturale, improvvisata, su testi che ho scritto in modo complesso e cauto” (p. 229). Questo “dialogo aperto” non solo arricchisce l’opera, ma permette al lettore di avere una più chiara visione del complesso percorso tracciato.
Nel suo pluralismo inquieto, nella sua apertura all’avvenire e alla différance, Spettri di Marx rimane dunque un’opera radicalmente contemporanea. Più che un “ritorno a Marx”, è un invito a non smettere di ascoltare ciò che, sotto la superficie del presente, ancora bussa come un fantasma.

«Se ho scritto su Marx, ora, è anche perché il nome di Marx – […] proprio il nome di Marx – mi pare, attualmente, in Francia, in Europa, nel mondo, sia oggetto di una tale “rimozione” che mi è parso il miglior analizzatore di ciò che sta succedendo nel mondo e in politica» (p. 229).

In questo senso, Spettri di Marx si rivela un testo non solo profetico, ma generativo: ha inaugurato un modo di pensare che non cerca più fondamenti, ma lavora sulle fenditure, sulle presenze ritornanti, sulle assenze che insistono. Allo stesso tempo, un classico della teoria critica e un’opera che conserva una sorprendente capacità di dislocare e perturbare (nel senso dell’Unheimlichkeit di freudiana memoria) il presente.

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